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Title
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Storia dei consumi. Nuove prospettive storiografiche
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Creator
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Paolo Capuzzo
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Date Issued
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1999-10-01
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Is Part Of
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Contemporanea
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volume
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2
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issue
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4
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page start
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page end
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789
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Microfisica del potere: interventi politici, Italy, Einaudi, 1982
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Rights
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Contemporanea © 1999 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230923083728/https://www.jstor.org/stable/24651855?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM1MH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A27fc9956fc4ee220ad0e9c30f3594959
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Subject
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power
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pastoral power
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biopower
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power-knowledge
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extracted text
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Storia dei consumi. Nuove prospettive storiografiche
Paolo Capuzzo
Negli ultimi anni la storia dei consumi si è arricchita di contributi di ricerca che haimo ampliato le sue ipotesi interpretative. La mole maggiore di ricerche ha riguardato gli Stati Uniti, ma il tema sta ora appassionando la storiografia europea (soprattutto Inghilterra e Germania), mentre più attardata sembra la situazione nel nostro paese. In queste differenze pesano certamente le diverse periodizzazioni che hanno scandito l’affermazione dei consumi di massa nei vari contesti. Il fatto che in Italia si pervenga ad una vera e propria diffusione dei consumi di massa soltanto negli anni ’60 ha influito sullo scarso rilievo che ha assunto finora il tema nella nostra storiografia1.
Scopo di questa rassegna è quello di evidenziare le nuove direzioni di ricerca, l’aflina-mento di metodi e l’ampliamento delle ipotesi interpretative, non di fornire un quadro completo delle ricerche. Questa scelta nasce dal fatto che alcune ricerche, a dire il vero non la maggioranza, e i risultati che esse hanno portato, mettono in evidenza nuove potenzialità per questo campo di indagine e una maggiore consapevolezza dei
rapporti tra l’indagine sui consumi e la ricerca storica.
■ Il consumo nelle scienze sociali
Ne H significato sociale del consumo, a cura di Egeria Di Nallo, (Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 271), vengono presentati i principali filoni dell’indagine sociale sui consumi. Semplificando un quadro sicuramente più articolato, sembra di poter rinvenire tre atteggiamenti teorici fondamentali nei confronti del consumo. Un primo filone considera il momento del consumo marginale rispetto a quello della produzione e del lavoro, sia nella sociologia di ascendenza webe-riana, che pone un atteggiamento etico religioso alla base del capitalismo e della modernità, sia, e in modo ancora più netto, nella tradizione marxista, e in special modo nella sua variante francofortese. Quest’ulti-ma considera il consumo come il perfezionamento del rapporto alienato che si instaura al livello della produzione, cosi che il consumatore trova plasmati i propri bisogni dall’industria. Il consumo appare perciò
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1 n tema è comunque considerato centrale in alcune sintesi recenti. Cfr. F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia deU’Italia Repubblicana, voi. 2*, pp. 783-882, Torino, Einaudi, 1995; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, tratforrnazionifra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1996.
Contemporanea / a. II, n. 4, ottobre 1999
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un’appendice di fenomeni di maggior rilievo euristico, nei quali si può trovare la chiave per la comprensione della società moderna e contemporanea. Un secondo filone che si può far ascendere a Veblen, ma che ha trovato in Baudrillard più recenti sviluppi, mediati dalla ricezione della lezione francofortese, vede nel consumo un segno di status. Il consumo estensivo sarebbe perciò la manifestazione concreta e visibile di un’ambizione sociale e rappresenterebbe una perniciosa distorsione e semplificazione dei rapporti sociali, un loro impoverimento e una loro falsificazione. Il terzo, e più recente, filone rovescia la tradizionale avversione e diffidenza degli scienziati sociali nei confronti del consumo e prende le mosse dagli studi antropologici di Levi Strauss (e prima di lui di Marcel Mauss) conoscendo uno sviluppo significativo in ambito sociologico con le ricerche di Mary Douglas. Il consumo viene visto come linguaggio e sistema di informazione sulle caratteristiche della società e la lezione fenomenologica favorisce una lettura dell’autonomia del consumo come pratica sociale e comunicativa. Malgrado l’ascendenza antropologica di questo approccio lo renda potenzialmente disponibile per l’indagine su ogni periodo storico è facile riconoscervi una parentela col postmodernismo, visto che sottolinea la rilevanza cognitiva della frammentazione, della analogia, cosi come delle modalità comunicative distinte dalla ragione strumentale, quali, l’estetica, il sentimento, la fede (aspetti che stavano già al centro del volume di Campbell sull’etica romantica e lo spirito del consumismo)2.
Quest’ultimo approccio, al quale va chiaramente la preferenza della curatrice del volume, amplia notevolmente il campo di indagine, in modo affine a quanto sta facendo la storiografia culturalista americana, ma l’enfasi posta sull’autonomia del consumo come pratica sociale e comunicativa rischia di cadere nell’eccesso opposto a quello rappresentato dalla tradizione critica dei consumi. Se è ben vero infatti che in una fase di crescente flessibilità della produzione vi è maggiore diversificazione e maggiore segmentazione del mercato e di conseguenza maggiori possibilità di costruire un linguaggio attraverso le pratiche di consumo, ciò non toglie che esso rimanga dipendente dalla produzione e che per il suo concreto realizzarsi sia vincolato da rapporti economici e di potere che lo trascendono. Slegare consumo e produzione per rivendicare il primato o l’autonomia dell’uno o dell’altra rischia di lasciare sfocata la configurazione storica concreta nella quale i due momenti si legano e che negli ultimi due secoli appare tuttaltro che omogenea. Ciò potrebbe anche portare ad alleggerire il severo giudizio nei confronti della scuola di Francoforte perché se una rigida subordinazione del consumo alla produzione come caratteristica peculiare del capitalismo appare insostenibile, è altrettanto vero che la fase storico-economica analizzata da Horkheimer, Adorno e Marcuse fa registrare una crescente standardizzazione e un allargamento della produzione ad una scala di massa, grazie anche a politiche economiche e sociali che cercano effettivamente di plasmare l’uni-
2 Cfr. C. Campbell, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, Roma, Ed. Lavoro, 1992 (1987).
verso del consumo secondo linee coerenti e razionali, scandite dalle trasformazioni produttive; politiche alle quali contribuiscono partiti, imprese e sindacati. In questo senso, pur all’interno di un contesto marxista interessato al lato della produzione e della dinamica conflittuale che da esso scaturisce, appaiono ancora oggi assai perspicue le intuizioni di Gramsci, nel quaderno Americanismo e fordismo, in tema di rapporto tra produzione, razionalità sociale e consumo. Gramsci, Sombart e De Certeau, mi sembrano le assenze più significative da un’antologia peraltro assai utile per orientarsi nel panorama delle scienze economiche e sociali su questi temi.
Se è indispensabile usare le scienze sociah come fonti, il contributo metodologico-ope-rativo per la ricerca storica che dai loro paradigmi si può mutuare, appare perlopiù inutilizzabile proprio perché lo scenario analitico che esse prospettano risulta fortemente destoricizzato3. Quel che pare essere più stimolante negli studi che andiamo ora ad analizzare è la capacità delle ricerche storiche sui consumi di uscire dal loro specifico indagando i rapporti tra consumo e produzione, tra pratiche sociah e comunicative mercificate e non, tra consumo e identità sociah, politiche, di genere. L’eclettismo, che le altre scienze sociah generalmente rimproverano aha storia, sembra essere insomma una risorsa preziosa neho studio dei consumi.
■ L’esperienza britannica
Assai scettico riguardo alle teorie sociali ed economiche sui consumi, sia quehe che vedono il consumo come manipolazione che quehe che lo vedono come emulazione, è John Benson che neha sua sintesi suha nascita deha società dei consumi in Gran Bretagna, The rise of consumer society in Britain 1880-1980 (London-New York, Longman, 1994, pp. VIII-245), opta per una ipotesi assai semphce, vale a dire che la ricerca del consumo avrebbe come primo stimolo la ricerca di migliori condizioni materiali e culturali di vita. Benson si mostra ben consapevole dette difficoltà di definizione del tema e delle ambiguità che spesso accompagnano la fiorente storiografia su di esso. Tanto sulla periodizzazione che sul metodo di indagine non appare esservi alcun accordo tra gh storici e anche la prospettiva di ancorare a degh indicatori quantitativi l’inizio della società dei consumi e le sue varie fasi, sembra definitivamente declinata (si presenterebbe ad esempio il paradosso di una quota decrescente del PIL dedicata al consumo con l’avanzare del secolo). Han-nes Siegrist, nell’introduzione a Europaei-sche Konsumgeschichte. Zur Gesellschqfts-und Kulturgeschichte des Konsums (18. bis 20. Jahrhundert), curata assieme a H. Kael-ble e J. Kocka (Frankfurt am Main, Campus, 1997, pp. 815) costata come il termine «rivoluzione dei consumi» venga usato nella storiografia relativamente ad almeno quattro contesti differenti: l’Inghilterra tra ’600 e ’700, le città europee durante la diffusione
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3 Non mancano tuttavia interessanti tentativi di superare i limiti di astrazione che gravano su gran parte della ricerca sociologica sul tema, cfr. R. Sassatelli, Processi di consumo e soggettività, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 2,1995, pp. 169-205.
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dei grandi magazzini (1850-1920); gli Stati Uniti degli anni ’20, l’Europa occidentale negli anni ’50 e ’GO4.
Benson sottolinea come il rapido incremento dei redditi e la riduzione del tempo di lavoro, registrati nel XX secolo, si siano accompagnati ad una redistribuzione delle risorse che ha premiato alcune categorie: gli abitanti delle città; gli abitanti delle Midlands e del sud-est inglese; gli adolescenti e gli anziani; le donne; la classe media e una buona parte della classe operaia. Benson analizza anche la dinamica dell’offerta rifiutando l’ipotesi marginalista di un adeguamento lineare di essa alla domanda. Nell’ambito commerciale agiscono volontà soggettive, interpretazioni del mercato, vincoli e scarti che vanno ricostruiti sul terreno storico se si vuole dar conto del processo di consumo. Nel corso del ventesimo secolo la struttura commerciale britannica si è industrializzata creando reti commerciali nazionali, ha creato/conquistato nuovi mercati come quello suburbano e costruito nuove categorie di consumatori: le donne, gli anziani e i giovani. Lo shopping ha mutato i suoi spazi, con una transizione che ha portato dalla prevalenza del piccolo negozio nelle vicinanze di casa a più grosse unità commerciali. Da ciò sarebbe conseguito un mutamento dell’esperienza sociale del consumo che potremmo rubricare sotto la categoria weberiana della burocratizzazione del mondo moderno: dal negozio dove prevalgono rapporti personah e che è luogo di
sociabilità di quartiere si è passati a strutture anonime, nelle quali si instaurano comportamenti convenzionali tra il venditore e il cliente. Questa transizione è stata accidentata e non ha avuto un impatto sociale omogeneo. Così, ad esempio, gli anziani sono spesso rimasti affezionati ai tradizionali negozietti nei dintorni di casa per abitudine e attaccamento all’ambiente, ma anche perché la limitata mobilità impediva loro di approfittare dei prezzi inferiori dei centri commerciali suburbani. La classe media automunita sembra invece essere stata il target preferito delle nuove istituzioni commerciali. Quanto ai generi merceologici il periodo tra le due guerre ha registrato il decollo della vendita di prodotti per la casa e di automobih, mentre la seconda metà del secolo è stata caratterizzata da una riduzione della quota spesa per il cibo e il vestiario.
L’analisi di Benson si sofferma poi su alcuni ambiti di consumo specifici. Riguardo al turismo si può dire che il maggior mercato conquistato nella seconda metà del secolo è stato quello degli anziani. «Più ricchi, più sani e più mobili» essi sono diventati un target estremamente interessante per gli operatori turistici. La nascita di un vero e proprio turismo di massa commerciale si ha soltanto a partire dagli anni ’60, visto che le vacanze operaie degli anni ’20 e ’50 erano ancora almeno in parte supportate dall’iniziativa pubblica e/o sindacale. La crescita della spesa per lo sport ha riguardato vari
4 P.N. Stearns, Stages of Consumerism: Recent Work on thè Issues ofPeriodization, in «The Journal of Modem History», 69 (March 1997), pp. 102-117, discute il problema della periodizzazione mostrando come esso sia cruciale per poter analizzare comparativamente le fasi del consumismo. Al tempo stesso occorrerebbe sviluppare una geografia storica della diffusione dei consumi.
aspetti: la pratica sportiva, il consumo dello spettacolo (dove non si intende solamente l’assistere a spettacoli sportivi, ma anche lo sviluppo della stampa specializzata, dei vari gadget, ecc.) e le scommesse. Queste ultime, seppur quantitativamente difficili da valutare, sembrano aver registrato un incremento enorme ed aver attirato un po’ tutti i gruppi sociali, in particolare la componente operaia della popolazione. ~
Ma l’obiettivo di Benson è più ambizioso della semplice analisi della dinamica dei consumi e cerca di individuarne la funzione culturale. Questo sforzo è certamente meritorio, ma la contraddittorietà delle risposte ottenute non mi sembra faccia progredire di molto le nostre conoscenze. Alcuni aspetti vanno tuttavia menzionati perché proffiano convincenti direzioni di indagine. La funzione del turismo e del viaggio nella costruzione di un’identità nazionale sembra rilevante, sia i viaggi interni, che spesso conducevano ai monumenti della storia patria, sia quelli all’estero, che facevano esperire diversi modi di vivere e pensare, hanno contribuito ad accrescere la consapevolezza della propria appartenenza nazionale. Lo sport, invece, sembra abbia agito rafforzando le identità territoriali a vari Uveffi, l’essere gallesi, scozzesi, inglesi, o semplicemente quelle regionali e cittadine. Benson non ritiene che i modeffi di consumo abbiano rafforzato le separazioni generazionali, ma, occorre aggiungere, gli indicatori presi dall’autore per analizzare questo aspetto possono averlo indebolito, mentre verrebbe invece esaltato da altri (dischi, vestiti, stampa specializzata, ecc.). Infine, riguardo al conflitto sociale, Benson riconosce sì che differenti standard di consumo
fanno percepire in modo evidente le differenze sociali, ma mostra anche come la prospettiva di un incremento dei consumi abbia svolto una fondamentale funzione di integrazione e come la stratificazione di consumi e comportamenti secondo linee di reddito abbia indebolito i tradizionali sentimenti di appartenenza di classe. Quest’ultimo aspetto viene sottolineato in diversi contributi di Europaeische Konsumgeschi-chte (si vedano, ad esempio, i contributi di Siegrist e Kaelble), l’ascesa dei consumi di massa porrebbe le basi per processi di identificazione sociale slegati dalla produzione che sembra invece essere stata la principale fucina identitaria nella prima fase della società industriale.
L’autore chiude la sua indagine con il condivisibile richiamo alla necessità di riunire la storia dei consumi a quella della produzione se si vuole contribuire in modo sostanziale alla comprensione della storia economica e sociale del ventesimo secolo. Se in una prima fase la carenza di studi sui consumi ha motivato lo sviluppo di un’apposita storiografia appare ormai sempre più chiaro come i limiti di questa siano da riportare alla sua sottovalutazione di alcuni importanti snodi della storia economica generale.
■ I primi teenager
Uno degli ambiti sui quali la storiografia dei consumi si è cimentata con diversi contributi negli ultimi anni è quello della cultura e dei consumi giovanili. La creazione dei teenagers come categoria di consumatori e la parallela identificazione di una loro specifica cultura, distinta da quella degli adulti, viene normalmente datata agli aimi ’50, il
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libro di David Fowler, The first teenagers. The Lifestyle of Young fVage-earners in Interinar Britain (London, Woburn Press, 1995) si propone di retrodatarla, perlomeno per il caso britannico, al periodo compreso tra le due guerre. Il volume di Fowler si serve di svariate fonti per indagare lo «stile di vita» dei giovani inglesi e sgombrare il campo da alcuni stereotipi creati dai ricercatori sociali degli anni ’20 e ’30 e in seguito ripresi pari pari dagli storici.
La situazione del mercato del lavoro per i giovani nel periodo considerato rimane sempre favorevole persino negli anni ’30, sebbene con una notevole differenziazione geografica. Si trattava di un mercato del lavoro estremamente flessibile nel quale capitava che i giovani si impiegassero all’età di 14 e 15 anni in lavori occasionali precari rinviando a 16 anni l’inizio dell’apprendistato in una professione. Era una scelta deliberata che mirava a rinviare l’assunzione degli impegni connessi all’apprendistato, scelta per altro in genere facilmente reversibile e non istitutiva, come si è spesso ritenuto, di una rigida frattura all’interno del mercato del lavoro, tra lavori a carriera e lavori a vicolo cieco. Anche se non mancano esempi di attaccamento a specifiche professioni, per i giovani salariati sembra che il lavoro rappresentasse anzitutto un luogo di socializzazione e che le mansioni svolte fossero poco importanti.
Lo studio della disoccupazione giovanile, affrontato sul caso di Manchester, non fornisce indicazioni chiare sul rapporto tra i giovani e le istituzioni preposte al sostegno morale dei disoccupati, rimane il fatto che per l’intero periodo la disoccupazione giovanile sembra essere stata estremamente limitata, frizionale, e che veniva affrontata
con una discreta tranquillità dai giovani. Il sussidio per i disoccupati e il salario nel periodo lavorativo, andavano a formare un unico budget che i giovani si sapevano amministrare nel corso dell’anno. Il reddito era relativamente consistente, soprattutto dopo i sedici anni di età, quando si indeboliva il controllo familiare su di esso. A partire dagli anni ’20, l’assistenza sociale ai disoccupati consenti di allentare la pressione delle famiglie sui salari aggiuntivi dei vari componenti, così che i giovani potevano disporre di una quota maggiore delle loro entrate. È questa precondizione economica, unita al nuovo clima permissivo seguito alla fine della guerra, a creare lo spazio per i nuovi consumi giovanili. Il cinema era senza dubbio al vertice del consumo giovanile, ma anche dance-hall e una serie di riviste indirizzate specificatamente ai giovani assorbivano buona parte delle loro spese. Anche la disoccupazione sembra non aver impedito la frequentazione del cinema; le ragazze, assidue frequentatrici del cinema, poi, potevano spesso contare sull’invito, non sempre disinteressato, di ragazzi un po’ più grandi. Il cinema sembra aver svolto tutta una serie di funzioni: luogo dei primi incontri discreti con l’altro sesso, luogo di ritrovo e socializzazione, modalità di esibizione di status, visto che esisteva una precisa gerarchia, di prezzi e qualità, tra i grandi cinematografi sfavillanti del centro e quelli modesti della periferia. Del tutto fuorviante è, secondo Fowler, lo stereotipo della cultura di massa che manipola un pubblico passivo. In realtà, i giovani dell’epoca sembrano aver avuto un rapporto abbastanza disincantato con i messaggi veicolati dal cinema. La temuta corrispondenza tra la diflu-
sione di film nei quali campeggiava la violenza e gli eroi criminali e l’incremento della criminalità giovanile è priva di qualsiasi riscontro statistico. Ciò che sembra invece profilarsi, ed è ciò che rende ragione dell’avversità di buona parte della società degli adulti al massiccio consumo cinematografico dei giovani, è un conflitto tra il clero e i dirigenti delle associazioni giovanili, da un lato, e i nuovi gestori dei cinema e gli imprenditori interessati allo sviluppo del consumo giovanile, dall’altro. Ne andava del monopolio della gestione della cultura giovanile e l’élite in declino rappresentava i nuovi imprenditori come degli agenti della corruzione, i peggiori avversari della «ricreazione razionale». Dentro a questo quadro si iscrive la crisi dell’associazionismo giovanile tradizionale registrata in questi anni. I giovani avevano ora un reddito che potevano spendere sul mercato senza dover tributare alcun impegno alle organizzazioni. Sono proprio le organizzazioni che si fanno permeare dalle nuove tendenze e interessi giovanili a tenere meglio sotto il profilo associativo. L’inserimento di pub, dance-hall e una maggiore disponbilità a promuovere attività miste di ragazzi e ragazze aiuta alcune organizzazioni a scongiurare la crisi negli anni ’20 e ’30, anche se spesso con ciò snaturavano le loro ragioni originarie per adattarsi alle esigenze del mercato. Nel complesso, il quadro del mondo giovanile dipinto da Fowler per gli anni compresi tra le due guerre ci presenta dei giovani con una già spiccata autonomia di comportamenti e decisioni, privi di grossi problemi economici, visto il basso tasso di disoccupazione e il notevole incremento dei salari rispetto all’anteguerra. n mondo degli adulti li rappre-
senta come una categoria distinta ed autonoma, in modo ben diverso dai loro coetanei del periodo vittoriano ed edwardiano. 1 custodi della morale, infine, lamentavano la corruzione che caratterizzava la nuova cultura giovanile, la promiscuità tra i sessi, la caduta dei valori, e così via. Da questo quadro sembra insomma che sia legittimo anticipare la nascita dei teenager agli anni ’30 piuttosto che agli anni ’50 come ha invece fatto finora la storiografia. Rimangono tuttavia dei quesiti aperti che rendono questa tesi quantomeno da sfumare. Vorrei rimarcarne due: ima più accurata comparazione cronologica tra la situazione dei giovani degli anni ’30 e quella degli anni ’50 sarebbe necessaria per rendere del tutto convincente l’anticipazione proposta dall’autore; e, poi, come mai il marketing del consumo giovanile appare ancora così rozzo se non inesistente negli anni ’30 se il settore inizia davvero allora la sua dinamica trainante? Come mai non si sviluppa uno specifico mercato discografico, settore cardine del consumo giovanile a partire dalla fine degli anni ’50? In chiusura l’autore richiama il libro di E.P. Thompson sulla formazione della classe operaia in Inghilterra richiamandone l’afiìnità con il suo studio e ciò aiuta certamente a renderne più accettabile la tesi, così che la storia dei teenager appare più lunga e dotata di scansioni interne di quanto normalmente si ritenga; in questi termini non si tratterebbe tanto di anticipare agli anni ’30 dei processi che datano dagli anni ’50, quanto di mostrarne la più lunga genesi.
■ Tempo e denaro
Il rapporto tra cultura di massa e mercato, così come quello tra produzione e consumo
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sono ben presenti nell’ottimo volume di Gary Cross, Tempo e denaro. La nascita della cultura del consumo (Bologna, Il Mulino, 1998 (1993)). Gary Cross è autore di importanti studi di storia del lavoro ed è proprio questo back ground che gli permette di poggiare su solide basi quest’opera sulla nascita della cultura dei consumi. Affrontando congiuntamente le trasformazioni del lavoro e la nascita dei consumi di massa Cross riesce a superare la parzialità dei due principali filoni di studio sul tema dei consumi che potremmo schematicamente definire come culturalista ed economicista. Lavoro e consumo diventano in quest’opera termini che specificano il dilemma contemporaneo di tempo e denaro.
Punto di partenza dell’analisi è che all’inizio degli anni ’20, di fronte agli imponenti incrementi di produttività resi possibili dalla riorganizzazione del lavoro industriale, la prospettiva largamente condivisa era quella di una significativa riduzione dell’orario di lavoro e non di un illimitato incremento dei redditi. Dietro questa prospettiva, data per probabile sia da chi vi vedeva ima grande chance di libertà sia da chi temeva fosse l’inizio della decadenza, vi era l’idea della limitatezza dei bisogni che una volta soddisfatti avrebbero permesso agli ulteriori incrementi di produttività di ridurre il tempo della vita dedicato al lavoro. I movimenti tecnocratici, particolarmente attivi negli anni ’20 e ’30, vedevano nella riduzione del tempo di lavoro reso possibile dal management scientifico l’orizzonte per un patto sociale tra i produttori, ma la questione, più che tecnica, era squisitamente politica tanto che ad affossare la prospettiva tecnocratica furono da un lato gli imprendi-
tori, che temevano che l’eccessivo tempo libero comportasse una riduzione della disciplina del lavoro operaia, dall’altro i lavoratori stessi che volevano determinare in prima persona il giusto equilibrio di tempo e denaro. L’idea che le masse non fossero in grado di gestire costruttivamente il loro tempo Ubero non era soltanto degli imprenditori. Il ceto intefiettuale dei primi decenni del secolo, spesso indipendentemente dalle preferenze politiche, riteneva che la nascente cultura di massa - portato del maggior tempo Ubero e dell’incremento dei redditi - consistesse nello sfruttamento commerciale degh istiniti più bassi e non civilizzati. La diagnosi di intellettuaU conservatori, che vedevano affossata la grande cultura borghese dai bassi istinti soUecitati dal divertimento di massa, e queUa della critica marxista che vedeva invece le masse deviare dalla loro alta missione rivoluzionaria, vittime di un capitaUsmo tentacolare e manipolatore che colonizzava anche il loro tempo Ubero, tendevano perciò a convergere. Dietro questa oggettiva convergenza sembra di scorgere una crisi degh intellettuaU come ceto che vedevano venire progressivamente spiazzata la loro funzione educativa daUa nascita di una cultura che li rendeva inutili.
Con gh anni ’30, vennero meno le prospettive di una riduzione deU’orario di lavoro e si fece invece strada queUa delle vacanze pagate. Di fatto le ferie pagate comportavano un aumento del costo del lavoro ben più limitato di quello deUa riduzione deU’orario giornaliero, talvolta anzi i costi erano quasi trascurabiU per le imprese che operavano su mercati con marcati caratteri stagionali o che potevano far intervenire altri stru-
menti di flessibilità della produzione nell’arco dell’anno. Sull’importanza e la salubrità delle vacanze per i lavoratori convergevano le teorie conservatrici di matrice vittoriana e l’interesse degli stessi lavoratori sicché sulla vacanza annuale per tutti si venne formando un ampio consenso. Come andava utilizzato il tempo della vacanza? Il conflitto si giocava tra i sostenirori della vacanza sana ed educatrice e quelli che invece sostenevano lo sviluppo dell’industria turistica a partire dalle preferenze individuali dei singoli consumatori. La seconda opzione finì col prevalere un po’ dappertutto, ma Cross mette in classifica i tre paesi che ha analizzato: gli USA, dove la commercializzazione fu totale; l’Inghilterra, dove finì col prevalere nettamente; la Francia, dove più massicci furono i tentativi di contrastare il successo di una logica puramente mercantile nell’occupazione del tempo Ubero. L’alternativa alla commercializzazione era quella del «tempo Ubero democratico», alternativa cara agli inteUettuah perché univa gU afflati educativo-riformistici già predicati fin daU’epoca vittoriana, al fine di riportare neU’alveo deUa civiltà i lavoratori abbruttiti daUa rivoluzione industriale, con la preoccupazione, propria del fronte progressista, per la depohticizzazione che la commercializzazione deUa cultura stava portando con sé. Non tutti i tentativi in questa direzione furono gravati daU’arrogante invadenza di inteUettuah e pohtici che volevano decidere che cosa fosse bene per le masse; soprattutto in Europa vi furono genuini tentativi di creare uno spazio culturale sottratto al consumo e fondato suU’iniziativa individuale, tuttavia le difficoltà oggettive che si frapponevano al raggiungimento di
questo scopo non erano facfli da superare: da un lato il costante rischio di autoritarismo che si insinuava nelle forme organizzative, dall’altro la sconsolata costatazione da parte dei promotori di questi sforzi - che vedevano nella loro azione il tentativo di praticare un’alternativa all’economia di mercato senza per questo scivolare sul terreno di un burocratismo autoritario e paternalistico - che gli esiti dell’iniziativa individuale finivano col condurre a forme culturali fortemente depoliticizzate e quindi davvero poco coerenti con lo sforzo di edificazione politica che con esse si voleva promuovere.
Non fu comunque questo fallimento a determinare la vittoria del consumismo culturale di massa, questo fu soltanto un fattore accessorio. L’opzione per il denaro in luogo del tempo va rintracciata soprattutto nella storia sociale delle classi lavoratrici degli anni ’20 e ’30 e a me pare che in ciò risieda il contributo più innovativo e affascinante di questo libro. Dopo il breve periodo di grande forza sindacale che aveva permesso ai lavoratori di strappare la giornata di otto ore all’indomani della Grande guerra, l’esperienza della precarietà del posto di lavoro e - in Francia - della diminuzione dei salari reati già negli anni ’20, non vi è da stupirsi che le rivendicazioni operaie si indirizzassero alla conquista di un reddito migliore piuttosto che alla conquista di maggior tempo libero. Ma è nel corso degli anni ’30 che avviene una transizione decisiva: l’esperienza della disoccupazione e della precarietà economica provoca un incremento decisivo del valore sociale del denaro e del consumo. L’impatto della crisi economica, soprattutto negli USA e in Inghil-
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terra, è estremamente differenziato per aree geografiche e bacini sociali, di fatto vi sono ceti che registrano un significativo incremento del reddito proprio negli anni ’50, aree e settori professionali nei quali la disoccupazione è assolutamente marginale e temporanea. La disaggregazione sociale e geografica dell’impatto della depressione, insomma, ci restitituisce un’immagine del paesaggio sociale degli anni ’30 abbastanza lontana da quella dell’oleografia populista. In un periodo di disgregazione di interi pezzi di mondo del lavoro che vedeva smarrirsi solidarietà, culture, valori socialmente condivisi, il consumo diviene il più evidente e facile criterio di ricodificazione della mappa delle identità sociali. Il venir meno dei tradizionali legami identitari che si accompagnava all’esperienza della scarsità faceva rifulgere lo standard di consumo come nuova fonte di autorità e distinzione sociale. Finanche le identità di genere vennero seriamente minacciate, soprattutto per i maschi capi famiglia disoccupati che vedevano venir meno il loro ruolo tradizionale. L’affannosa ricerca di nuovi ruoli familiari finì per premiare il modello della famiglia fordista che sarebbe diventata il perno della ricostruzione europea nel dopoguerra, dove al maschio percettore di reddito si accompagnava la donna consumatrice domestica. È a partire da questa crisi e trasformazione sociale che avviene negli anni ’30 che diviene comprensibile il trionfo del fordismo e del consumismo nel dopoguerra. Il consumismo diventava al contempo il terreno sul quale ricostruire delle identità sociali (perdute sul lavoro e sul quartiere) e un veicolo di promozione individuale e di conquistata privacy. Proprio il riconoscimento del con-
sumo come sfera individuale e di comunicazione provocava un istintivo rigetto sia dell’organizzazione totalitaria del tempo libero praticata dai regimi fascisti nell’anteguerra sia di quella riformistico-educativa che presupponeva comunque uno stato di minorità delle masse. L’ambita casetta suburbana con tutti i confort e i tratti distintivi che rispondono al gusto del proprietario hanno soddisfatto il bisogno di privacy così come quello di identificazione sociale, mentre la vacanza annuale ha finito per assumere quella funzione festivo-rigenerati-va che si stava perdendo nel mondo secolarizzato. Il consumismo, insomma, ha vinto perché ha effettivamente incontrato alcuni bisogni delle masse, meglio di quanto le prospettive di ingegneria politica e sociale promosse da politici, tecnici e intellettuali, fossero riuscite a fare. Certo, la sua invadente arroganza e l’essere diventata un’indiscussa istituzione economica ha portato il consumo a ridurre lo spazio di possibili stili di vita alternativi.
In conclusione, l’autore riprende le tendenze critiche del consumismo che si sono manifestate in Europa negli anni ’70 e ’80 e prospetta possibili sviluppi di un’alternativa al tempo libero commercializzato che valorizzi esperienze «dal basso», senza la volontà di educare nessuno, ma in quest’ultimo capitolo gli argomenti appaiono un po’ sfocati. Indipendentemente dalle sue conclusioni il libro mi sembra che centri comunque due importanti obiettivi: getta uno sguardo convincente e talvolta illuminante su un importante momento di transizione sociale e culturale della storia del nostro secolo; ci permette di retrodatare argomenti e discussioni largamente circolanti nel-
l’odierno dibattito politico mostrandone il loro contesto generativo.
■ Storia delle donne e consumi
Ai rapporti tra genere e consumo è dedicato un volume curato da Victoria de Grazia e Ellen Furlough, The Sex of Things. Gender and Consumption in Historical Perspective (Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1996, pp. 433). La de Grazia mostra un condivisibile scetticismo di fronte ad alcime domande mal poste che gravano su questo filone di studi. Ad esempio, al quesito se l’accesso ai consumi da parte delle donne sia stato imo strumento di emancipazione oppure una nuova fonte di schiavitù sembra difficile dare una risposta univoca e generale. Si tratta di questioni complesse che trovano risposta soltanto in relazione a contesti specifici.
Analizzando i modeffi di consumo della borghesia parigina dell’Ottocento, Leora Auslander (The Gendering of Consumer Practìces in Nineteenth-Century France, nel citato volume a cura di de Grazia e Furlough, pp. 79-112) rileva come la ftmzione della donna consumatrice fosse rigidamente incardinata in una struttura familiare di stampo prettamente patriarcale. La cura dello spazio privato, così come quella del proprio aspetto, erano per la donna una sorta di pendant del ruolo svolto dal marito nella sfera pubblica. Acquisire un9 expertise come consumatrice era perciò un compito femminile al servizio della sociabilità borghese, nei salotti di casa o nelle serate mondane, nelle quali ci si aspettavano eleganza e abilità di conversazione. A questo ruolo domestico-rappresentativo della consumatrice corrispondeva il collezionismo come
pratica di consumo tipicamente maschile perché capace di valorizzare la razionalità, l’arguzia, lo spirito di inventiva e quello di avventura. Rispetto a questa suddivisione di genere dell’universo consumistico della borghesia parigina dell’Ottocento un elemento di trasgressione era rappresentato dal dandy che mescolava elementi femminili, come la valorizzazione del proprio aspetto, e maschili, come la passione colle-zionistica, ricombinandoli però in un quadro estetizzante e animato da un sentimento effimero del tempo e della vita, molto lontano da quello della costruzione di un ordine sociale. È proprio con modalità simili a quelle del dandy, vale a dire nella prospettiva di un’autoproduzione del sé che sembrano orientarsi le pratiche di consumo della crescente quota di donne single della borghesia parigina durante la Terza Repubblica.
Il tentativo di regolare le pratiche di consumo dentro un quadro di valori, culturali ed economici, che promuovesse al contempo la ricchezza nazionale e la stabilità sociale viene registrato da Erica Carter in un contesto del tutto diverso: la Germania Federale degli anni ’50 (Deviant Pleasures? Women, Melo-dromo, and Consumer Nationalism in West Germany, ibidem, pp. 359-380). Analizzando le figure femminili dei fortunati melodrammi cinematografici, si mostra come la normatività sociale rimarcasse in negativo i suoi confini attraverso figure «devianti», individuabili dalle loro pratiche di consumo smodate e poco tedesche, assai lontane dal consumo razionale che ci si attendeva da madri di famiglia, devote custodi dello spazio domestico. Il timore per l’esito destabilizzante che poteva determinare un autonomo
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ruolo femminile, in una fase di prevalenza numerica delle donne che avevano di recente assaporato la «libertà» della guerra, si condensava nella sanzione di pratiche di consumo che uscivano dai canoni delle funzioni di genere richieste dal consumo razionale nel quadro dell’economia sociale di mercato.
Il consumo dei cosmetici studiato da Kathy Peiss (Making Up, Making Over: Cosmetics, Consumer Culture, and Womeris Identity, ibidem, pp. 311-336) mostra bene l’ambivalenza dell’identità di genere costruita attraverso pratiche di consumo. Negli Stati Uniti dell’Ottocento il trucco era visto come alterazione dell’equilibrio esistente tra il volto e l’interiorità che esso esprimeva. Si trattava perciò di ima sorta di falsificazione o di inganno, un’abitudine difiusa tra le indigene e le prostitute, ma non tra le madri di famiglia americane. È con la difiusione dell’immagine fotografica, che costituisce una sorta di incentivo tecnico alla costruzione «artificiale» dell’immagine, che si incrina questa mentalità difiusa, mentre l’avvio dello star-system in ambito cinematografico profila modelli di identificazione basati sull’immagine e la sua manipolazione. All’inizio del Novecento, l’industria dei cosmetici costruisce la propria fortuna proprio su queste basi, promuovendo la seducente possibilità per ogni donna di costruire la propria immagine secondo il «tipo» preferito. Certamente è questo uno dei veicoli di mercificazione della donna e della sua immagine, in modo analogo a quanto ricostruito da Abigail Solomon Gode-au che ha studiato la difiusione delle litografie pornografiche nella Francia dell’Ottocento, mostrandone i caratteri feticistici e voye-ristici che la distinguono dalla stampa erotica del Settecento (The Other Side of Venus:
The Visual Economyof Femmine Display, ibidem, pp. 113-150). Al tempo stesso, tuttavia, la possibilità di costruirsi un’immagine attraverso il make-up era un’opportunità per rompere ruoli imposti da una società patriarcale autoproducendo il proprio sé e la propria immagine.
Un ulteriore stereotipo della storia dei consumi, probabilmente rafforzato dall’enorme produzione americana su questo tema rispetto a quella degli altri paesi, riguarda il modello familiare. Spesso si leggono trasformazioni iniziate nell’Ottocento alla luce di quella che è destinata a diventare la cellula principale della società dei consumi: la famiglia fordista del suburbio americano degli anni ’60. Anche in questo caso, le cose sembrano essere più complicate, vi sono persistenti differenze di classe nelle strategie di consumo che rendono fuorviante l’adozione di un modello familiare unico: tra le famiglie operaie la quota di spesa dedicata al cibo non decresce con l’incremento del reddito come accade per la classe media che invece anche quando si trova in momenti di contrazione del reddito familiare tende a non risparmiare sull’alloggio, l’arredamento, il vestiario e altri generi che identificano lo status. È soltanto con il fordismo vero e proprio di inizio secolo che l’incremento salariale si coniuga ad un modello familiare che attribuisce alla donna un ruolo essenzialmente di consumatrice. Il «fordismo all’europea», poi, ha fatto coincidere l’incremento dei redditi con un’ampia mobilitazione del lavoro femminile, tanto che diviene problematico impiegare lo stesso termine utilizzato per gli USA.
Si muove in questo quadro lo studio di Sue Bowden e Avner Offer (The Technological
Revolution That Never Was: Gender, Class, and thè Diffusion of Household Appliances in Internar England, ibidem, pp. 244-274) dedicato ad uno degli aspetti fondamentali della costruzione della famiglia fordista, vale a dire la diffusione degli elettrodomestici che nella Gran Bretagna degli anni ’20 e ’30 appare più lenta di quanto usualmente si ritenga e priva di un carattere di massa, essendo limitata essenzialmente alla classe media. I fattori che hanno rallentato la dif-fiisione delle nuove tecnologie sono molteplici: il loro costo; lo scarso valore economico del lavoro femminile che spesso non giustificava l’impiego di una tecnologia tìme-saving in casa; la competizione sul budget familiare che favoriva la spesa per generi time-using come la radio - che ebbe una diffusione assai più rapida degli elettrodomestici - e i divertimenti sui quali accampavano diritti i vari membri della famiglia. L’incremento del costo di una domestica a tempo pieno, invece, favorì l’adozione delle tecnologie da parte delle donne della classe media che si trovavano ora in parte a dover prendersi cura della casa, magari con l’ausilio di una domestica part-time.
■ Le peculiarità europee
Alla storia dei consumi in Europa è dedicato la voluminosa raccolta di saggi curata da H. Siegrist, H. Kaelble e J. Kocka, cui si è già fatto cenno. Non è possibile dar conto dei 32 saggi raccolti nel volume, se ne possono richiamare soltanto alcuni motivi. Anzitutto, vi è il tentativo di allargare il campo d’indagine con un’analisi dei consumi in Europa occidentale comparata con gh USA e con l’Europa orientale. Siegrist mostra come nei tre grandi blocchi, USA, Europa occi-
dentale e Europa comunista, si registri una vivace dinamica dei consumi nel secondo dopoguerra, ciò che varia notevolmente è il loro livello complessivo e il rapporto tra consumi privati e consumi sociali. Kaelble analizza la rappresentazione da parte degli europei delle differenze tra America e Europa nella cultura dei consumi. A partire dalla metà dell’Ottocento si sono sedimentati dei luoghi comuni assai influenti: gli europei sarebbero meno interessati degli americani ai beni materiali, meno attratti dalle possibilità di applicazione delle innovazioni tecnologiche alla vita quotidiana, meno propensi a consumare beni prodotti in serie; infine, si ritiene che in Europa la fimzione del consumo come segnale di distinzione sociale sia più marcata che negli USA. A queste diversità culturali Kaelble accompagna l’analisi di alcune differenze strutturali: le differenze nella geografia delle sedi dei due continenti fa si che in America sia più ingente il consumo di trasporto e comunicazione; il maggior tasso di attività femminile rende i budget familiari americani più elevati e ciò si traduce in una maggior quota di spesa destinata a consumi non strettamente necessari; in Europa sono più elevate le spese sociali e ciò riduce la quota delle risorse destinate ai consumi privati. Infine, Kaelble nota come vi sia una convergenza nei modelli di consumo tra i vari paesi europei e tra questi e gli Stati Uniti, ma mostra di preferire la categoria di internazionalizzazione del consumo piuttosto che quella di americanizzazione perché ciò aiuta a comprendere un fenomeno complesso che sta ormai coinvolgendo nuovi paesi esterni all’area euroamericana. Victoria De Grazia distingue due fasi del rapporto tra
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; consumi e americanizzazione, in una pri-; ma fase l’influenza americana si esercita ; per canali informali e mediatici, ciò che af-i fascina l’Europa degli anni ’20 e ’30 è infatti : Yamerican way of life consumistica la cui : immagine viene promossa per canali pub: blicitari e culturali; nella seconda fase, in: vece, vi sono ingenti investimenti america: ni diretti in Europa e una solida influenza ; politica. È attraverso questi canali più forti ; che si impone il modello della democrazia ; dei consumatori inseguita dal New Deal ; che prima della guerra era soltanto una se; ducente, ma anche ambivalente immagine j (si pensi all’importanza dell’antiamericani-: smo nella cultura europea). In conclusione, : la de Grazia invita ad utilizzare la storiogra-: fia americana sui consumi con una attenta : considerazione critica del suo contesto ge-; nerativo, delle sue ipotesi e dei suoi stru-i menti perché essa è spesso viziata dall’as-i sunzione ideologica del modello americano ; come paradigma rispetto al quale «ordina; re» l’esperienza degli altri paesi.
: Il contributo di Stephan Meri è dedicato ai i consumi nell’Europa comunista. Alla fase ; di forzata rinuncia che dura dal 1928 al ; 1953 segue una politica di allargamento dei ; consumi che non interviene a causa delle : proteste popolari anche se è fonte di legitti-j mazione politica per quei regimi. Nei paesi ; comunisti è lo Stato a decidere dei consumi : privati attraverso la fissazione politica dei : prezzi indipendentemente dai costi di pro; duzione. La conseguenza è un potere d’ac-j quisto molto alto per istruzione e salute, di-j screto per abitazioni, trasporto pubblico lo; cale, assistenza all’infanzia e generi ali: mentali di base. Per tutti gli altri beni, inve-: ce, il potere d’acquisto è molto basso, am-
messo che essi fossero disponibili, visto che spesso più che con i prezzi si limitava il consumo di beni non essenziali non rendendoli disponibili. L’espansione dei consumi segue tendenze parallele a quella dell’Europa occidentale anche se con esiti assai più modesti: gli anni ’60 sono quelli dei beni di consumo durevoli, gli anni ’70 vedono un certo impegno sul fronte delle vacanze. È negli anni ’80 che lo sforzo di sostenere la competizione con i consumi occidentali finisce per provocare una vera e propria crisi del sistema. Per incrementare anche modestamente i consumi privati, infatti, si era abbandonata la manutenzione degli ingenti investimenti pubblici in infrastrutture e consumi sociali. 11 tentativo di introdurre criteri di eflicienza nell’organizzazione delle imprese fallisce, mentre si continuava a rifiutare il mercato come criterio di allocazione delle risorse perché ciò avrebbe implicato una riduzione di potere per la burocrazia. 11 collasso economico interviene nel momento in cui non si riesce più a finanziare la crescita e al contempo non è possibile aumentare i prezzi di beni e servizi erogati sottocosto stante il già pesante deficit di legittimazione di quei regimi. L’indebitamento estero, particolarmente evidente nella Polonia degli anni ’80, è la punta dell’iceberg della definitiva crisi dei sistemi comunisti. La promessa Chrusceviana degli anni ’50, che il comuniSmo avrebbe sconfitto in pochi decenni il capitalismo nella concorrenza sui consumi, si rivelò perciò essere un fatale boomerang.
Ad un contesto ancora più generale si riferisce il saggio di Wuenderhch su consumi e globalizzazione che avverte sui rischi dell’estensione del concetto di società dei con-
sumi ai paesi in via di sviluppo. I fondamenti sociali e geografici di questi paesi sono assai distanti da quelli dell’occidente: le società sono estremamente polarizzate e contemplano sia i consumi di lusso che il rischio costante della morte per fame di quote non esigue della popolazione; la geografia di queste aree presenta strutture in-sediative molto disperse in enormi aree ru-rah o semidesertiche cosi come agglomerati urbani che superano i dieci milioni di abitanti, ma sono profondamente diversi dalle città occidentali. Una trasposizione di concetti rischia perciò di essere assai fuorvian-te cosi come l’assunzione della società dei consumi occidentale come pietra di paragone per le altre società. Ciò che è infatti già ora difficile da smentire è che il modello di consumo sviluppatosi in occidente nell’ultimo mezzo secolo non è estendibile all’intero pianeta per evidenti limiti ecologici. Nell’analisi del rapporto consumi/globalizza-zione, insomma, ciò che sembra il dato più interessante è la costatazione della peculiarità euroamericana e del fatto che questo modello di consumo richieda di necessità la povertà di grandi masse della popolazione mondiale.
Un altro motivo di grande interesse che ricorre in alcuni contributi riguarda il rapporto tra consumi e cultura. Con un retroterra che fa riferimento a Pierre Bourdieu e Michel De Certeau5, infatti, si delinea il significato simbolico del consumo che va a profilare stifi di vita e processi di costruzione della soggettività sociale e individuale. (Cfr., in particolare, i saggi di Brewer, Wildt,
Schildt e Tanner). Questa prospettiva permette di contestare la tradizionale visione che associa consumi e massificazione culturale valorizzando invece i sottili sistemi di differenziazione sociale che permette la pratica dei consumi, la costruzione del quotidiano nei suoi termini materiali e simbolici. Anche un altro assunto, che riguarda la pretesa regressione familistica della società con la diffusione del fordismo e del consumismo, viene sottoposto a critica. In realtà, questa privatizzazione della vita nell’ambito domestico sembra essere soltanto una tappa nella costruzione di profili esistenziali più individualizzati. Questo processo inizia con la conquista di ima privacy familiare, ma prosegue poi con un processo di disintegrazione che passa all’interno delle famiglie: maggiore spazio e capacità di consumo permettono la costruzione di «quotidiani» differenziati all’interno delle famiglie stesse. I giudizi che si possono dare su questi sviluppi più recenti dipendono evidentemente dalle visioni del mondo che ad essi fanno da sfondo tanto che possono essere considerati al contempo come una pericolosa deriva atomistica, ma anche come una chance di libertà senza precedenti nella società umana.
■ Maschilità e stili di consumo
Per questa seconda ipotesi sembra optare l’autore dell’ultimo, importante, libro di cui si vuole parlare. Frank Mort, Cultures of consumptìon. Masculinities and social space in late Tiventieth Century Britain (London-New York, Routledge, 1996, pp. 280), analiz-
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5 Cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983 (1979) e M. De Certeau, L’invention du quotidien, Paris, Gallimard, 1990.
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za le trasfonnazioni dell’identità maschile in relazione agli stili di consumo nell’Inghilterra degli anni ’80. Ciò che appare più innovativo in questo lavoro è il metodo con il quale viene studiato il consumo nella sua autonomia, come sfera specifica, in relazione con altri piani della vita sociale, ma non deducibile da essi. Certamente vi è una congiuntura economica entro la quale la dinamica dei consumi analizzata si verifica, quella, per usare una formula schematica, del passaggio dal fordismo al post-fordismo, ma qui il consumo, in relazione alla trasformazione dell’identità maschile viene analizzato come campo di significato autonomo. I due richiami dell’introduzione, a Levi Strauss che intende il consumo come sistema di comunicazione, e a Foucault per la parentela con la sua analisi delle relazioni di potere come campo autonomo, non derivabile dalla sfera economica, sociale o politica, aiuta a comprendere la dimensione metodologica e concettuale entro la quale si muove Mori Se i consumi non «riflettono» andamenti desumibfli da altri campi, ma sono un ambito provvisto di autonomia nel quale si fondono economia e cultura, la loro dinamica può essere proficuamente evidenziata con un’indagine micro, in questo caso si cerca di capire come essi siano stati fonte di una trasformazione dell’identità di genere in uno specifico contesto di spazio e tempo.
Negli anni ’80, l’opportunità commerciale della costruzione di un mercato specifico per i maschi giovani era molto ambita, al tempo stesso non era agevole trovare immagini che costituissero ima comune identificazione di genere. La costruzione di uno stile maschile che potesse ospitare la co-
struzione di un’identità plurima e flessibile passò attraverso le pagine di alcune riviste, una in particolare, «The Face», ebbe il ruolo di battistrada. Queste riviste si inserivano in una storia di rapporti tra arte d’avanguardia, culture giovanili e commerciahzzazio-ne che datava almeno dagli anni ’50, eppure presentavano caratteri specifici. Riviste fatte soprattutto di immagini esse si caratterizzavano per la costruzione di un immaginario nutrito dalla contaminazione culturale che ispirava la cultura dei loro designer, spesso provenienti da una formazione accademica e insieme a stretto contatto con le subuculture giovanili, in particolare con l’iconografia punk che si era diffusa alla fine degli anni ’70. Il mondo che ruotava attorno a «The Face» e al nuovo stile aveva una presenza metropolitana che andava ben oltre le pagine della rivista. Serate, feste, eventi mondani e cultura dei club facevano da veicolo al nuovo stile nel quale confluivano storie personali, provenienze geografiche, appartenenze sociali e di genere assai diversificate. Ciò contribuiva a mantenere aperte le opzioni identitarie che si apparentavano in uno stile pur rimanendo permeabili a sfumature e accenti differenti. Le immagini di Ray Petri per «The Face» e altre riviste portavano nello stile e nella moda un linguaggio visivo che si era andato costruendo spontaneamente nell’ambiente gay londinese frequentato da Petri, ambiente ben noto anche ad una nuova generazione di stilisti, tra i quah spiccavano Conran, Flett, Gafliano e, in Francia, Gaultier. Che il nuovo stile stesse alterando gli equilibri commerciali nel settore appariva chiaro dai violenti attacchi che l’industria tradizionale muoveva a questo ambiente. Nel giornale
ufficiale del settore, «Men’s Wear», gli attacchi ai «sad, sick, transvestites who paraded as “new wave” designers» mostravano chiaramente il timore verso una nuova, destabilizzante, concorrenza.
Se il successo di queste riviste fu di per sé apprezzabile (generalmente si muovevano tra le 50 e le 100 mila copie), la nuova immagine maschile sulla quale si era costruito il loro successo divenne ben presto mairi stream attraverso una riorganizzazione nel settore della pubblicità che valorizzò il ruolo dei «creativi* provenienti da quegli ambienti pubblicistici, capaci di interpretare e costruire un nuovo mercato. A cambiare fu né più né meno che la filosofia stessa del marketing. Non si trattava di promuovere singoli prodotti, ma di elaborare un immaginario nuovo che fosse concretizzabile attraverso il consumo. Seguendo le vicende di alcune agenzie Mort mostra come siano state scardinate le stesse gerarchie all’interno delle aziende, con l’emergere del ruolo dei «creativi» che andavano a scalzare i tradizionali detentori del potere aziendale, vale a dire i manager finanziari. Erano i «creativi» a portare il più forte valore aggiunto e ad essi si chiedeva di lavorare su una nicchia di consumatori considerati d’avanguardia, sarebbero stati poi quegli stessi consumatori a veicolare la promozione pubblicitaria di massa con il loro stile di vita. La filosofia del nuovo marketing poggiava su un’analisi della società che registrava il definitivo disfarsi delle identità di classe; ma non solo, anche le identità di genere e quelle generazionali apparivano sempre più difficili da individuare, la triba-lizzazione delle culture giovanili andava assecondata e rinforzata segmentando il mer-
cato e aprendo in questo modo nuovi e potenzialmente illimitati fronti di concorrenza. In modo analogo a quanto registrato per il mondo editoriale, Mort evidenzia come alla base di queste nuove tendenze vi fosse una comunità maschile che stava forzando le tradizionali barriere identitarie. In una campagna pubblicitaria di straordinario successo, quella della Levis alla metà degù anni ’80 (le vendite del 1986 vengono moltiplicate per sette rispetto a quelle dell’anno precedente!), viene premiata l’audacia di aver infranto un tabù nell’autoidentificazio-ne di genere dei maschi, vale a dire l’eroti-cizzazione del corpo maschile come veicolo per promuovere un prodotto destinato in buona parte agli uomini. Se questi mutamenti si inseriscono in un processo di più lungo periodo di rapporti tra identità di genere e strategie commerciali, quello che sembra essere specifico della svolta degli anni ’80 è la prevalenza del genere sulle appartenenze sociali. Un excursus sugli anni ’50 permette a Mort di sostanziare questa tesi. Fin dagli anni ’30 l’abito di Burton aveva rappresentato il modello dell’eleganza per il maschio britannico del ceto medio. L’acquisto del primo vestito di Burton era ima sorta di rito iniziatico che introduceva il giovane all’età adulta. Negli anni ’50, Burton cominciò ad intuire che l’immagine maschile incarnata nei suoi vestiti era troppo rigida a fronte di identità che si stavano frantumando e a partire da questa costatazione lanciò una linea casual che promuoveva una serie di figure maschili che riflettevano differenze di carattere socio-culturale (figure come quelle del motociclista dinamico, del campagnolo tranquillo, del serio funzionario...). Gli anni ’60 portarono tra-
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sformazioni culturali che travolsero i timidi tentativi di Burton, ma è soltanto con i mutamenti degli anni ’80, secondo Mort, che si profila un esplicito e consapevole autoriconoscimento di genere.
La concretezza che caratterizza l’analisi di Mort trova un ulteriore, preciso, ancoraggio nell’individuazione di uno spazio specifico che ha fatto da guida a questi processi. I personaggi che hanno promosso le trasformazioni culturali e commerciali finora descritte non si muovevano in un generico immaginario metropolitano, ma vivevano proprio nello stesso posto, nel quartiere di Soho a Londra. Soho ha una lunga tradizione bohemien. Il mercato della prostituzione vi prosperava già nel ’700, all’inizio del ’900 cominciarono ad insediarvisi gli artisti d’avanguardia, mentre una «discreta» scena gay vi si forma negli anni ’20. Con gli anni ’50 diventò meta di immigrazione giovane e l’arrivo dei mod, negli anni ’60, vi attirò il commercio di vestiario alternativo. Negli anni ’70 l’industria del sesso sembrava sul punto di schiacciare il composito panorama socio-culturale di Soho, ma l’intervento pubblico riuscì a ridimensionarne decisamente e definitivamente le ambizioni. A questo punto parte un processo discontinuo e graduale di riqualificazione urbana che poggia su alcuni punti forti dell’identità del luogo. L’industria dei media che stava esplodendo negli anni ’80 e che assumeva i caratteristici tratti imprenditoriali dell’economia post-fordista, piccole imprese di nicchia che operavano in reti di produzione di servizi, trovò a Soho affitti ben più bassi che nel resto del West end londinese innescando un effetto a catena sorretto dalle esigenze di sinergie tra piccoli operatori che favo-
rivano un insediamento a grappoli. L’insediamento a Soho di piccole imprese e agenzie operanti nelle relazioni pubbliche, nella pubblicità, nell’industria cinematografica e televisiva, si accompagnava ad un rafforzamento della presenza omosessuale nel quartiere che si rendeva sempre più manifesta sino a costituire un elemento del marketing immobiliare. L’apertura di alcuni locali di nuova tendenza, che guardavano agli esempi di New York e San Francisco, rese sempre più esplicite le potenzialità di mercato dell’impianto di una comunità gay fino a promuovere la formazione di un’intera infrastruttura commerciale che divenne uno degli elementi del rilancio economico del quartiere.
Queste trasformazioni del quartiere furono accompagnate da profonde modificazioni identitarie del genere maschile. Negli anni ’70 esisteva una sorta di icona gay nel comportamento e nel look, essa non assorbiva certamente l’intera esperienza gay, ma in qualche modo ne era la versione pubblica. Con gli anni ’80 si assiste ad una progressiva disintegrazione di questa immagine e alla creazione di un nuovo ambiente culturale contraddistinto da modelli di consumo fortemente contaminati e perciò di non facile identificazione. È l’ambiente dei club, soprattutto, con le sue contaminazioni musicali provenienti dalla scena bianca e da quella nera (trash anni ’70, fimk, ska, soni, hip hop, reggae veloce) e l’emergere della musica house che attraverso la guida delle nuove tecnologie digitali condensava in modo originale entrambe le matrici, ad aprire un inedito spazio di contatto tra le subculture. Ben presto anche l’abbigliamento seguì lo stesso destino e cessò di es-
sere veicolo di precise identità sessuali. Ambienti omosessuali ed eterosessuali finirono col perdere i loro contorni in un nuovo linguaggio estetico dell’identità maschile cui corrispondevano nuove modalità di consumo. È in questo contesto che il consumo disegnava nuovi spazi nella fabbrica del quotidiano (De Certeau).
In conclusione, Mort cerca di affrontare il tema dell’identità maschile ricorrendo ad alcune esperienze di vita di giovani maschi che abitano a Soho. Da queste interviste emergono pratiche di consumo porose, dove gli oggetti concorrono a definire un universo simbolico privo di identità coerentemente definite. Se gli intervistati disegnano nessi consapevoli tra le loro prati-
che di consumo e i significati che queste costruiscono, sembra invece mancare una chiara identità di riferimento. In questo senso il distacco dalle subculture giovanili degli anni ’60 e ’70 sembra effettivamente netto, così come l’autonomia del momento del consumo nel disegno delle identità.
. Con tutto ciò Mort non pretende di aver individuato una nuova situazione, ma una rottura delle dinamiche della omosocialità destinata a sopravvivere alla congiuntura economica nella quale si sono prodotte. Proprio dalle sue interviste, del resto, emerge la persistenza di più tradizionali identità che occasionalmente riemergono per ripristinare la loro autorità sulle relazioni sociali.
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