Recenti pubblicazioni di storia delle eresie

Item

Title
Recenti pubblicazioni di storia delle eresie
Creator
Davide Bigalli
Date Issued
1972-04-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
12
issue
3
page start
395
page end
407
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
LES DÉVIATIONS RELIGIEUSES ET LE SAVOIR MÉDICAL In Hérésies et sociétés dans l'Europe pré-industrielle 11e–18e siècles: Communications et débats du Colloque de Royaumont, edited by Jacques Le Goff, 19-30. Berlin, Boston, De Gruyter Mouton, 1968
Rights
Studi Storici © 1972 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20231101092039/https://www.jstor.org/stable/20564001?searchText=Foucault&saml_data=eyJzYW1sVG9rZW4iOiJmMDc4MTkwMS01Y2RmLTQyZGQtOGNlOC01YzM1MGRlZmEyZjAiLCJpbnN0aXR1dGlvbklkcyI6WyJlNDE3YzhkNS0wMWU2LTQ3NjEtYmUwNS03MjQ4NmQ2OGJlZDMiXX0
Subject
exclusion (of individuals and groups)
confinement
pathological
normalization
extracted text
Recenti pubblicazioni di storia delle eresie *
1. Al termine dell’incontro di Royaumont dedicato a «Eresie e società», Georges Duby individua come caratteri distintivi di una più approfondita definizione e sistemazione del fenomeno ereticale, la sua perennità e ubiquità (p. 397); l’acquisizione cioè, dell’eresia come momento costitutivo della società e della cultura europee per un ampio periodo della loro storia, che va significativamente dalle inquietudini della riforma gregoriana all’emergere compiuto del modo di produzione capitalistico, alla diffusione del pensiero rivoluzionario borghese e all’erompere di nuove contraddizioni sociali: alle profonde modificazioni quindi che decretano la fine del cristianesimo come ideologia dominante (Jacques Le Goff, Introduction, pp. 3-4). Dalla consapevolezza di questo rapporto derivano i temi e i livelli della ricerca: in primo luogo, natura, genesi e meccanismi del fatto ereticale, in quanto opzione sia individuale (è il caso dell’eresiarca) sia collettiva (il gruppo settario), rilevati tramite l’impiego di criteri euristici delle scienze psicologiche — dalla fisiopsicologia allo studio del mentale collettivo. Ancora, l’eresia a confronto con una propria storia, con la tradizione cioè, i contenuti e le forme culturali del cristianesimo che intende negare o ripristinare, in cui si riconosce o che combatte. Oggetto dell’indagine diviene poi l’eresia come fenomeno storico e sociale specifico: si pone allora il problema del suo essere realtà sociale, della sua diffusione, dei ceti che vi si riconoscono e la sostengono, del suo inserimento nell’ambito dei rapporti fra città e campagna, fra cultura popolare e cultura dei dotti. Il programma di ricerca si conclude sui processi di assimilazione e interpenetrazione con la contrapposta realtà dell’ortodossia, o in terreni diversi da quello religioso — la filosofia, l’arte — o come ambigua e anomala ortodossia, nella mistica. Da questo quadro complessivo deve infine risultare una nuova definizione del ruolo dell’eresia nella società, del suo significato storico. A volerlo collocare in una prospettiva di storia della storiografia ereticale, il colloquio di Royaumont si pone alla conclusione del periodo di ricerche che in Italia si può ricondurre schematicamente ai nomi di Dondaine da una parte, di Morghen e Manselli dall’altra. Se in effetti la questione dell’origine
* Hérésies et sociétés dans rEurope pré-industrielle. lle-18e siècles (Communications et débats du Colloque de Royaumont présentés par Jacques Le Goff), E.P.H.E.-VIe Section, « Civilisations et sociétés, 10 », Mouton, Paris-La Haye, 1968, pp. 484. z
Tadeusz Manteuffel, Naissance d’une hérésie. Les adeptes de la pauvreté volontaire au moyen àge, traduit du polonais par Anna Posner, E.P.H.E.-VP Section, « Civilisations et sociétés, 6 », Mouton, Paris-La Haye, 1970, pp. 116.



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Davide Bigalli
dell’eresia non può dirsi compiutamente risolta, comunque i lavori dei due ultimi studiosi hanno portato a una decisa svalutazione della rappresentazione dell’eresia come fenomeno complessivamente esogeno alla società cristiana d’Occidente, come « espressione di una tradizione dottrinale, riaffiorata nel Medioevo da antichi movimenti filosofico-religiosi » (R. Morghen, Medioevo cristiano, Bari 1968, p. 198). Ma proprio lo sviluppo di questa discussione ha portato a sottolineare i momenti di continuità con la tradizione scritturale: ad accentuare quindi, nella misura in cui l’eresia è vista come ritorno e rilettura delle fonti evangeliche, l’aspetto ecclesiologico del problema. La chiesa come corpo di tensioni, certo; ma — ed è qui forse uno degli aspetti più interessanti dell’incontro di Royau-mont — si pone un’ulteriore questione: riconoscere le tensioni reali della società cristiana d’Occidente, rintracciarne quello che É. Poulat definisce lo « schema des tensions » (p. 103), che sorgono da strutture e si pongono a livelli non risolvibili nell’ambito ecclesiale, e che anzi la chiesa stessa individua come estranei — terreno di scontro o di missione. È quindi una nozione storico-sociologica .— l’Europa preindustriale — che segna l’ambito dei lavori di Royaumont: nozione indubbiamente generica e per molti versi insoddisfacente (basti pensare al fatto che accomuna fenomeni come l’eresia medievale e il pensiero riformato, oppure al problema di eresie in ambito non cristiano), ma che tuttavia coincide con il periodo di reale predominio della fede e del pensiero cristiani. Non a caso, nella relazione di Gershom Scholem, la lunga vicenda dell’eresia si conclude con il ricordo del nichilista giudeo che, sotto il nome di Junius Frey, moriva ghigliottinato come seguace di Danton (« La métamorphose du messianisme hérétique des sabbatiens en nihilisme religieux au 18e siècle », p. 389. Vedi anche G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano 1965, p. 427). Mentre alcuni degli aspetti più dichiaratamente messianici della stessa setta sembrano rivivere nelle utopie sansimoniane (p. 391).
Un’ulteriore posizione è rappresentata dagli studi ispirati al « materialismo storico », cui si accenna qui in occasione della parziale traduzione del saggio di Ernst Werner e Martin Erbstòsser, Sozial-religibse Bewegungen im Mittelalter (Movimenti socio-religiosi nel Medioevo, in L'eresia medievale, a cura di O. Capitani, Bologna 1971). La vasta produzione dello stesso Werner, le fondamentali ricerche di Dimiter Angelov, ripropongono la questione delle origini dell’eresia in Occidente e dei suoi rapporti con il cristianesimo slavo e bizantino; superando la contrapposizione fra auto- ed esogenesi, individuano da un lato un processo di crescita e diffusione del patrimonio dottrinale, un’effettiva circolazione di motivi religiosi da Oriente a Occidente; e dall’altro, indicano nel contesto della società europea le ragioni dello sviluppo delle suggestioni religiose mutuate da Bisanzio e dal paese slavo in compiute affermazioni e movimenti ereticali. Viene così implicitamente colto il limite riduttivo di una serie di impostazioni — da Morghen a Delaruelle — che tendono a risolvere contrasti e lacerazioni nel mondo medievale in espressioni religiose o ecclesiali radicate nella fondamentale bipolarità del cristianesimo. D’altra parte, però, la semplificazione cui va incontro la concezione storica marxista nelle formulazioni di Werner ed Erbstòsser, riportata alla sola teoria della lotta di classe, conduce ad alcune discutibili posizioni: in primo luogo, il rapporto struttura-sovrastruttura si risolve nel rapporto fra realtà sociali e loro espressione ideologica, nei termini di un meccanico rispecchiamento, di un déguisement religioso degli interessi concreti e contrapposti. Ancora, l’individuazione di classi differenziate e divergenti, enucleata dal più generale contesto del pensiero di Marx, permane uno degli elementi accettati anche da studiosi




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che a questo pensiero non si richiamano poi complessivamente: è allora significativa la sottolineata coincidenza con alcune formulazioni di Volpe (cfr. E. Werner-M. Erbstòsser, Movimenti socio-religiosi nel Medioevo, in L'eresia medievale, cit., p. 196), la cui accentuazione della base di classe dell’eresia medievale, diretta polemicamente contro sistemazioni prevalentemente dottrinali e religiose, muoveva da motivi ben lontani dal marxismo (cfr. G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana. Secoli XI-XIV, Firenze 1961, p. XIII). Da questa impostazione rimane così limitata una problematica fondamentale della ricerca marxista: la dialettica e la dinamica delle classi medievali in quanto articolate su una specifica organizzazione economica, su un particolare modo di produzione. In assenza della definizione di una serie di forme di mediazione — espressione delle operazioni e della produzione materiali; sostrato delle formulazioni ideologiche — permangono da un lato le classi sociali, dall’altro i complessi dottrinali, assunti via via dalle varie forze in presenza e piegati a significarne gli interessi contrastanti. Si rischia in tal modo di riproporre a questo livello il rapporto fra una struttura dottrinale — per Werner ed Erbstòsser, lo gnosticismo; per Al. Klibanov, a Royaumont, la concezione della dignità dell’uomo (« Le problème de la souveraineté de l’homme dans les conceptions des hérétiques russes à la fin du 1? et au début du 16e siècle ») — e le formulazioni contingenti e parziali, nel corso della storia.
Ritornando ora a un’analisi più puntuale degli atti di Royaumont, occorre rilevare come, degli argomenti più sopra indicati, alcuni abbiano trovato relativamente poco spazio nell’incontro. È il caso del rapporto eresia-filosofia che, inquadrato nella più vasta problematica dell’eresia popolare, degli indotti, e dell’eresia colta, non vi può però trovare una soluzione esaustiva. Ma è anche la questione delle influenze del pensiero ereticale sull’arte, oggetto della comunicazione di Pierre Francastel (Art et hérésie). Su una serie di esempi, da Margaritone d’Arezzo a Hieronymus Bosch, a Philippe de Champaigne (ma su quest’ultimo, con conclusioni divergenti da quelle di Francastel, vedi L. Marin, Signe et représentation: Philippe de Champaigne et Port-Royal, «Annales E.S.C.», XXV, 1970,1), lo studioso sviluppa la tesi per cui « aucune des grandes hérésies n’a laissé un art qui s’iden-tifie avec elle » (p. 33), salvo alcune modificazioni episodiche nell’universo estetico dell’epoca e dell’ambiente.
Così, le radici medico-psicologiche del fatto ereticale vengono discusse da Michel Foucault («Les déviations religieuses et le savoir medicai») sotto il solo aspetto della possessione demoniaca; a partire dal dibattito di Molitor, Weyer, Sprenger, Erasto e, più tardi, Jean Bodin, si coglie come la scienza medica dei secoli XV-XVI, non organizzata sulle moderne categorie di normale e patologico, rimane all’interno di una totalità, « le système du transgressif » (p. 19), in cui la presenza diabolica è elemento reale di valutazione. Dove l’anormalità, e quindi la colpa, risiede nell’accettazione dell’universo illusorio fornito dalla potenza maligna: « les sorcières doivent ètre punies, non pas tant pour les choses qu’elles font... que pour leur apostasie ou révolte de l’obéissance de Dieu » (Erastus, Dialogues touchant le pouvoir des sorcières, cit., p. 20. Cfr. p. 24).
Sempre nell’ambito di una definizione tipologica si colloca la relazione di Marie-Dominique Chenu (Orthodoxie et hérésie. Le point de vue du théologien). Rilevando come tarde e spurie le unioni di eresia e magia, di eresia e usura (p. 13, n. 1), Chenu conduce il suo discorso a partire dalla versione, codificata tra gli altri dal Grossatesta nel secolo XIII, di aipeaiQ -haeresis con « scelta ». Scelta all’interno della fède e scelta di fede, « fait... constitutif de l’acte personnel



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lui-méme » (p. 11). Ma anche scelta di una verità parziale verso l’« unite objective », che per questo suo carattere di fondamentalità è alla base dell’altro elemento costitutivo del fatto ereticale, della sua durata nel tempo e della sua volontà di diffusione, la pertinacia. Questa visione si attaglia a una concezione dell’Occidente medievale come comunità universale fondata sul consensus di tutti i i fedeli (cfr. H.-L Marrou, Uhéritage de la chrétienté); ma entra in contraddizione con una concezione più sociologicamente sfumata e differenziata, dove — come rileva Le Goff (p. 16) — alla professione ereticale si accompagna il rifiuto degli atti costituenti la società feudale (il giuramento), il rigetto dei suoi valori fondamentali. Aldilà quindi della rivolta contro il mondo, che avverte Henri-Charles Puech (cfr. p. 57), si coglie allora la volontà di rottura con un mondo determinato, con ben specifiche forme sociali. L’emergere poi di fenomeni ereticali in ambienti né cristiani (si vedano a questo proposito la già citata relazione di Scholem e A. Abel, « Nature et cause de l’angoisse et du refus dans trois hérésies musulmanes: le kharidjisme, la mu’tazila, le batinisme »), né organizzati su strutture affini alle chiese cristiane, come anche le esperienze spirituali indicate da Foucault, o infine casi di dissidenza religiosa — dal mozarabismo alle tendenze genericamente (e impropriamente) definite « giudaizzanti » (I.S. Revah, « L’hérésie marrane dans l’Europe catholique du 15e au 18e siede »), fanno risaltare due ordini di esigenze. Da un lato, una più ampia e articolata definizione di eresia; dall’altro, la preoccupazione di una costante presenza del contesto storico e sociale in cui il fenomeno stesso si inscrive — a evitarne la dissoluzione in un modello euristicamente debole.
Indicazioni in questo senso sembrano venire dalla relazione di A. Gieysztor dedicata ai movimenti di apostasia nell’Europa centrale e slava (« Mouvements para-hérétiques en Europe centrale et orientale du 9e au lle siècle: apostasies »). Nella misura in cui il processo di cristianizzazione si accompagna solidarmente all’introduzione di nuovi rapporti sociali e politici, fino alla costituzione di un apparato statale, l’apostasia massiccia, come ritorno a forme di religiosità pagana o a pratiche di magia, è espressione della protesta e del malessere dei ceti sconvolti e danneggiati dalla nuova realtà: si hanno così apostasie delle classi signorili in Ungheria e nei paesi scandinavi, o apostasie a base contadina in Polonia e in Russia. E qui basti ricordare come ancora nel secolo XIII la reazione della nobiltà slava alla colonizzazione germanica, sostenuta dagli ordini militari, si traduca in alleanze con le popolazioni pagane del Baltico (cfr. M.G.H. Eppont II 65, n. 91; ibid., 66, n. 92. Si consenta il rinvio anche a D. Bigalli, I Tartari e l'Apocalisse, Firenze 1971, pp. 42-5). Per Gieysztor questi fenomeni di « para-eresia » precedono il compiuto sviluppo delle condizioni che permettono il radicarsi dell’eresia strie tu sensu: il predominio del modello sociale e religioso del feudalesimo e della sua chiesa, i processi di concentrazione urbana e differenziazione sociale. A considerazioni analoghe perviene Dimiter Angelov nel suo studio sul bogomilismo (Aper^u sur la nature et l’bistoire du bogomilisme en Bulgarie). La stessa struttura gerarchica, la distinzione fra « perfetti » e semplici adepti, viene ricondotta a realtà differenziate: l’ideologia di una cerchia ristretta di eruditi, « les vrais disciples du... pope Bogomil », eredi di una scienza teologica in cui rivivono le dottrine dualistiche dei pauliciani e dei massaliani, non riesce a trasfondersi in una corposa realtà sociale. Mentre il derivato atteggiamento anticlericale si piega a espressione dell’insofferenza delle masse contadine nei confronti del sistema feudale, a cui il clero cristiano fornisce strutture e giustificazioni ideologiche. Sottolineando le « contradictions entre les dogmes et leur dévelop-




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pement dans la vie... entre les sectes et les mouvements de masse » (p. 77), Angelov fa risaltare come, nel XIV secolo, bizantino, l’apparato dottrinale bogo-militico si adatti alla realtà sociale dei nuovi strati subalterni e indigenti degli agglomerati urbani.
La discussione sul bogomilismo riporta direttamente al problema dell’eresia nell’Occidente medievale. Aldilà dei contributi di Raffaello Morghen (Problèmes sur l’origine de l’hérésie au moyen-dge), di J. Becquet (Érémitisme et hérésie au moyen àge) ed Étienne Delaruelle (Dévotion populaire et hérésie au moyen àge), per Christine Thouzellier (Tradition et résurgence dans l’hérésie médiévale. Con-sidérations) lo sviluppo dell’eresia nei secoli XI e XII è consegnato a una dialettica che vede articolarsi alle nuove esigenze, al « facteur temps », elementi spirituali che trascorrono i secoli per tradursi in un progetto di sintesi armonica del momento temporale, sociale, e del momento religioso. Nella crisi delle strutture ecclesiali aperta dalla riforma gregoriana si sviluppa così una serie di movimenti che ripropongono una tradizione di evangelismo radicale costantemente riformulata e riformalizzata, ed entrano in conflitto con il codificato ordine sociale e religioso (è il caso dei petrobrusiani, di Tanchelm ed Eude di Stella). E insieme si assiste al ritorno delle proposizioni bogomilitiche, che sostanziano l’instaurazione di chiese in cui le esigenze ascetiche e anticlericali si risolvono nel dualismo anticristiano dei catari. Già nella discussione però, Cinzio Violante rileva nella tesi della Thouzellier l’assenza di tutta una gamma, di fattori — dal folklore alla tradizione filosofica classica, da reminiscenze di cultura pagana alla magia — che indicano come riduttiva la scelta privilegiata delle crisi e dei processi di riforma ecclesiastica (p. 118).
Allo stesso Violante è dovuta una delle relazioni più importanti dell’incontro (Hérésies urbaines et hérésies rurales en Italie du lle au 13* siede. Ora anche in L’eresia medievale, cit.), che — con quelle di Raoul Manselli (Les hérétiques dans la société italienne du 13e siede), di Philippe Wolfl (Ville et campagne dans l’hérésie cathare) e di Josef Macek (Villes et campagnes dans le hussitisme) — è rivolta a considerare il fenomeno ereticale in rapporto al contesto storico. Per Violante, l’eresia si pone come opzione individuale, ma assieme come espressione di un ambiente culturale e spirituale, come fatto sociale che egli indica collegato al rapporto città-campagna. Con la crisi della grande proprietà terriera laica ed ecclesiastica, e con la crisi delle forme di mercato da questa sostenute, si apre un processo di mobilità dalla campagna ai centri urbani, da parte di servi libertatem anhelantes, di mercanti, di proprietari terrieri dissestati e legati all’ambiente borghese delle città. Questa crisi, rallentata dalla riorganizzazione promossa dalla riforma e dallo sviluppo dell’economia monetaria, conduce a una differenziata stratificazione sociale — e quindi a nuove forme di lotta politica nelle città — e all’instaurarsi di diversi rapporti nelle campagne (la mezzadria), nel quadro di una specializzazione che vede nella città e nel contado gli elementi di un solo complesso economico e sociale. Come fin dal secolo X dalla campagna erano venuti i processi economici in seguito maturati in ambiente urbano, così l’eresia si manifesta inizialmente nel contado (Liutardo di Chàlons, gli eretici di Monforte), per divenire con i moti patarinici, « typiquement citadins », elemento delle lotte delle classi medie urbane contro i vecchi centri e forme di potere — e quindi dei fermenti che accompagnano l’instaurarsi dei comuni. Questo rapporto speculare pare al Violante generalizzabile, come dimostrano le vicende del catarismo: dove i rustici non trovavano che scarse potenzialità di rinnovamento sociale, al contrario del « vigoreux et puissant essor de



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l’économie citadine, artisanale, commerciale et bancaire » (p. 185), favorito dall’abbandono della condanna cristiana della ricchezza, dell’usura, dei processi di accumulazione dei capitali. In questa direzione pare andare anche il carattere itinerante dei perfetti, attagliato alle caratteristiche professionali dei nuovi ceti artigiani, mercantili e intellettuali. Ancora, il moto degli apostolici sembra inserirsi nella crisi di sovrappopolazione delle campagne e nei conseguenti processi di espulsione, che costituiscono strati di contadini sradicati e mal integrati alla realtà urbana. Mentre ai tempi di Dolcino si ritrovano nel movimento membri delle « classes artisanales ou méme de... bourgeoisie urbaine » (p. 192). Al termine della sua ampia e puntuale rassegna, Violante afferma tuttavia l’eresia come fenomeno eminentemente religioso, dove i fattori economici e sociali sono significativi sul solo piano della diffusione e del successo della propaganda settaria.
Strettamente collegate alle questioni finora discusse, le relazioni di Herbert Grundmann (cui si deve anche l’imponente Bibliographie des études récentes (après 1900) sur les bérésies médiévales) e di Gordon Leff. Per Grundmann (Hérésies savantes et bérésies populaires au moyen àge), la distinzione fra eresia colta e popolare non risulta rigorosamente attagliata alla società medievale, divisa invece fra chi possiede la conoscenza diretta del patrimonio culturale e chi invece lo recepisce in forme mediate (si pensi, nell’eresia stessa, agli auditores), fra clerici e laici. La formulazione del pensiero eterodosso quindi, o interessa il ristretto ambito dei teologi e dei filosofi — e vi rimane confinata — oppure trapassa in propaganda e solo allora coglie gli ambiti più vasti del mondo laico, dove si assiste però a un autonomo processo di differenziazione dalle prime definizioni dell’eresiarca. Ma dal discorso di Grundmann risultano appiattiti alcuni nodi problematici di non poco conto: rilevato infatti il processo di diflusione delle idee dagli strati intellettuali ai laici, rimangono da determinare, nell’analisi storica concreta, i motivi congiunturali che favoriscono (o ostacolano) il divenir propaganda di dottrine sorte in ambito di teologi e filosofi. E insieme — e proprio nel quadro rilevato dal Grundmann — diviene centrale la definizione del ruolo degli intellettuali, intesi come strato sociale, in cui si riflettono e si esprimono crisi e tensioni del mondo medievale. A evitare di ricondurre l’inquietudine di uomini come Abelardo, Gilberto della Porrée, Sigieri di Brabante in un ambito di astratte polemiche universitarie, al paolino sapere plus quam oportet sapere (Rm 12,3. Cfr. p. 209. Vedi anche l’intervento di Le Goff, p. 216).
Più attento a una problematica di questo genere è Gordon Lefl (Hérésie savante et bérésie populaire dans le bas moyen dge), che ritiene la distinzione fra un’eterodossia dottrinaria, generalmente condannata come errore filosofico, e un’altra — in cui la prima rivive semplificata —, anatemizzata come sovversione. Lungo il XIII secolo maturano le condizioni di una convergenza fra le esigenze dei dotti e dei ceti popolari: da una parte, la coercizione operata dalla chiesa sulle tendenze evangeliche e pauperistiche con la proibizione di nuovi ordini, accompagnata dalla crescente insoddisfazione verso quelli già esistenti, all’urgenza di una definizione dell’istituto ecclesiale di fronte alle nuove realtà sociali e statuali; dall’altra, la crisi intellettuale — sancita dalla condanna del 1277 — e quindi il fallimento del tentativo della scolastica domenicana e francescana di collegare fede e filosofia. Si vengono così a costituire gli elementi di una critica ai valori della società medievale, che da Ockham a Wyclifl, alle dichiarazioni egualitarie dei contadini inglesi ribelli nel 1381, esprimono il malessere della società europea, di cui l’eresia è « l’expression la plus extréme » (p. 223).
Ad aspetti particolari dell’eresia nel basso Medioevo sono rivolti i testi di




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Gyòrgy Székely (Le mouvement des flagellants au 14e siècle, son caractère et ses causes) e di Cesare Vasoli (Dne secte hérétique fiorentine à la fin du 15e siècle: les « Oints »). Ma con le comunicazioni complementari di Arno Borst (La transmission de l’hérésie au moyen age) e di Robert Mandrou (La transmission de l’hérésie à l’époque moderne), si affronta la questione del passaggio dall’eresia medievale a quella moderna. Questione peraltro toccata solo sotto questa particolare angolatura. I processi di diffusione e le condizioni di permanenza della dottrina eretica sono, per Borst, organicamente articolati sui quadri sociali del mondo medievale, di cui recepiscono le modificazioni e le crisi. In tal senso, se è ampiamente presente la circolazione fra dottrine contemporanee, molto meno incisiva è la filiazione da una forma eretica a un’altra posteriore: queste derivazioni risultano essere generalmente strumenti polemici di parte ortodossa (cfr. H. Grundmann, « Oportet et haereses esse ». Il problema dell’eresia rispecchiato nell’esegesi biblica medievale, L’eresia medievale, cit.), per colpire con vecchi anatemi nuove dissidenze. Una forma intermedia è la trasmissione limitata da una generazione di settari a un’altra. E a questo proposito, molto più fondamentale di quanto accenni Borst è la funzione svolta dal mondo femminile: a questo, in una società mercantile — si pensi al catarismo fiorentino o bolognese — era totalmente confidata l’educazione dei figli. A sottolineare questo aspetto valgono anche le ricerche di Gottfried Koch (Frauenfrage und Ketzertum im Mittelalter. Die Frauenfrage im Rahmen des Katharismus und des Waldensertums und ihre sozialen Wurzeln. 12.-14. Jahrhundert, Berlin 1962): dove l’adesione all’eresia, per gli stimoli che una convinzione e una pratica eterodosse comportano, si traduce in un’efficace promozione sociale delle donne, nella formulazione di forme di vita associata libere dagli schemi del mondo monastico. Un ulteriore elemento — sottolineato da Bronislaw Geremek e da Mandrou (pp. 278-9) — è la mobilità delle professioni, l’importanza assunta per la circolazione delle idee dalle vie di traffico e dai punti nodali in queste: a indicare, nel mondo dei girovaghi dei secoli XIV e XV, l’aprirsi degli aspetti significativi della nuova società europea.
Ma è l’invenzione della stampa che comporta nel secolo XVI, con una modificazione sostanziale delle forme di diffusione del pensiero, la rottura dello schema « settario » dell’eresia medievale. Si tratti di imponenti opere dottrinarie, delle scritture stesse, oppure di libelli, volantini e manifesti a fini immediatamente polemici, la stampa assicura alla propaganda da un lato più vasti orizzonti geografici, dall’altro la puntualizzazione e la permanenza della dottrina nel tempo. Ne viene così esaltata la partecipazione di massa al rinnovamento religioso, di più strati sociali contemporaneamente.
L’ampiezza dei temi suggeriti da Mandrou rivela tuttavia la carenza forse più grave dell’incontro di Royaumont: l’assenza di un’analisi altrettanto diffusa e puntuale del trapasso dal mondo religioso medievale a quello moderno, dalla Riforma all’Illuminismo. Questa cesura fra i due campi di indagine ha impedito, rileva Duby, un esauriente confronto, di concezioni e metodologie, fra medievalisti e storici moderni (p. 398). La lacuna è infatti solo parzialmente colmata dalle stimolanti riflessioni di Alphonse Dupront (Réflexions sur l’hérésie moderne), che coglie il trapasso nella « promotion progressive de l’hérésie en confession et de confession en église » (p. 291), nella trasformazione dell’eretico in ministro di una chiesa, diversa dalla cattolica, ma altrettanto positiva. Dalla pluralità delle chiese, dalla disintegrazione dell’unità, il cristianesimo perde il suo carattere totalizzante, il suo essere christianitas. Ma anche l’eresia abbandona l’aspetto di



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realtà polarmente contrapposta, il suo schema « settario » si amplia e si dissolve sul terreno della quantità, della realizzazione di massa. Si disperde la sua natura di vicenda religiosa collettivamente vissuta, per ripiegare nell’affermazione della coscienza individuale. Nella crisi del cristiano moderno, la fede diviene « une nostalgie et une espérance » dell’eterno (p. 292), e insieme accompagna la scoperta di un tempo nuovo, dell’esistenza presente individuale e collettiva, distinta da storia e tradizione. Con la crisi della christianitas, la formalizzazione totalizzante è, per Leszek Kolakowski (p. 301), lo stato moderno, « coexistence d’indif-férence ». Nella misura in cui si sviluppa un processo di desacralizzazione di vasti settori del mondo, si apre un impianto problematico di ampio respiro — dal ritorno del magico e del demoniaco all’affermarsi del « libero pensiero ».
La società occidentale moderna rende l’eresia « inutile ou impossible »: ed è nell’ambito del pensiero eterodosso che si profilano alcune componenti dell’ideologia europea dei secoli XVI, XVII e XVIII. Per Alberto Tenenti (Libertinisme et hérésie milieu du 16e siede, début du 17e siede), la Riforma e le guerre di religione rappresentano la congiuntura favorevole alla crescita e all’espansione dei germi anticristiani presenti da sempre nella cultura europea: dal materialismo epicureo e lucreziano all’evemerismo dei dotti, dall’estraneità al culto, al suo dispregio e alla blasfemia. Si concreta un diffuso atteggiamento spirituale (che coinvolge numerosi strati sociali) di sostanziale distacco dalla lotta religiosa in corso, in nome di pratiche e convinzioni che vanno dal nicodemismo, dal « libertinismo spirituale » a posizioni definite dai polemisti contemporanei come acristiane e atee. Alla metà del XVI secolo a questo rifiuto degli accesi aspetti anticlericali si accompagna l’esigenza di una comprensione razionale e umana dei contenuti religiosi. Si vengono così delineando due forme di libertinismo. L’una, legata alla sconfitta dell’anabattismo, accentua l’attesa escatologica nel regno dello Spirito e insieme — indifferente a ogni culto e confessione — recupera l’esperienza settaria dei secoli precedenti. L’altra forma, tipica dei « philosophes », irrimediabilmente lontani dall’universo della christianitas medievale, trova espressione nel-YHeptaplomeres di Bodin, dove la profonda modificazione etica e religiosa, intervenuta dopo il 1570, si contrappone ai dogmi delle religioni positive, convenienti « aux chrestiens et aux ignorans » (Colloquium Heptaplomeres, ed. R. Chauviré, Paris 1914, p. 177. Cit. a p. 311). Tra queste due posizioni — la prima rivolta a un recupero del passato mistico e settario, l’altra già tesa a prefigurare aspetti della cultura illuministica — si colloca l’esperienza di Charron, di cui Tenenti rivendica la centralità nella delineazione del successivo pensiero non cristiano. Accettando il portato della teologia negativa, l’assoluta incommensurabilità di Dio e dell’uomo, Charron libera il saggio da ogni pretesa divina delle religioni positive. Di fronte al valore relativo del culto, di ogni culto, Charron esalta allora la pratica nicodemitica, mentre il criterio assoluto di giudizio rimane la « raison universelle » che diviene, per l’« homme de bien » (p. 319) — nell’Europa dilacerata dai contrasti di religioni — oggetto di fede e di speranza. .
Mentre Goldmann ripropone le tesi sul giansenismo espresse in Le dieu caché, e O. Lutaud sottolinea gli aspetti millenaristici ed escatologici nell’ideologia del New Model cromwelliano (« Entre rationalisme et millénarisme au cours de la revolution d’Angleterre »), Leszek Kolakowski esamina il destino di alcune tendenze del calvinismo olandese nel tardo Seicento (« L’hérésie mystique et l’hérésie rationaliste dans le calvinisme néerlandais de la fin du 17e siècle »), come applicazione di un modello dinamico generale. Da un moto di riforma — fondato su una situazione ecclesiale determinata — emerge una controriforma




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che tende ad appropriarsi di forme ed elementi del rinnovamento; ma l’« ipertrofica » reazione dell’organizzazione rende autonome le tendenze che si son volute costringere e inquadrare, fino allo scisma e all’eresia, e la conclusiva eliminazione delle stesse realtà sorte nella fase di appropriazione. Di fronte a una reazione mistica e di sapore erasmiano verso il rigorismo e il clericalismo calvinisti, si forma una tendenza (Voètius) che accentua il valore della fede contro la religio fino alla radicale svalutazione del mondo, per salvare infine la funzione normativa dell’istituto ecclesiale, comunità di santi, in piena autonomia dal potere politico e statuale. Contro i problemi sollevati dal razionalismo si pone invece il cocceianesimo, che accoglie numerosi portati della moderna esegesi biblica, ma insieme propugna un ideale di chiesa non istituzionalizzata, i cui rapporti visibili si rivelano semplici adiaphora: questa chiesa puramente morale, totalmente sacralizzata, affida i suoi aspetti temporali, estranei alla dottrina, al nome laico della politica, dove si compenetrano strutture ecclesiali e strutture dello Stato. Ma infine le mediazioni tentate da queste « versions de la Contre-Réforme calviniste » (p. 377) non reggono, e l’una — la voètiana — si rinchiude sempre più nelle forme della setta millenaristica, mentre l’altra si risolve nel più ampio alveo del libertinismo di impronta spinoziana. Estranee entrambe alle strutture del calvinismo come religione positiva. Matura così l’impossibilità dell’eresia, cui si possono ormai applicare, generalizzate, le parole di Scholem, rivolte alla radicale e nichilistica esperienza dei sabbatiani: « l’idée prosaique du progrès va remplacer celle de la délivrance, et la nouvelle échelle des valeurs de lumière et de réforme, celle de la vision d’un renversement generai et d’un cataclysme » (p. 389).
2. Presente con una relazione all’incontro di Royaumont, Tadeusz Man-teufiel ha raccolto nel 1963 i risultati della sua ricerca in un volume (Narodziny herezji, Warszawa 1963) che delinea la storia delle concezioni e dei moti paupe-ristici dalla riforma gregoriana al secolo XIV, lungo l’arco del cristianesimo medievale. Un cristianesimo in cui riprendono vigore la problematica e l’interpretazione dei dati scritturali volti a sottolineare le differenze sociali e di ricchezza, aldilà delle sistemazioni che avevano ricevuto in epoca patristica — da una parte, nell’affermazione tertullianea per cui « nihil enim nostrum, quoniam Dei omnia » (Tertulliani, Liber de patientia, PL I 1261); e dall’altra nel superamento, ad opera di Agostino, di ogni lettura sociologica delle realtà umane, a favore di sovrasensi spirituali, di una finalizzazione a destini sovraterreni (Fecit Deus pauperem, ut probet hominem. In Psalmum CXXIV, PL XXXVII 1650).
Manteuffel sottolinea come tuttavia il precetto evangelico della povertà quale via salutis, nella riforma gregoriana, se è patrimonio dei nuovi centri spirituali dell’Occidente (da Cluny a Gorz a Hirsau), si presenta però anche come elemento polemico nei confronti di un complesso sociale più differenziato, dove la richiesta del distacco del clero dalle realtà terrene si unisce alla lotta contro il nicolaismo e la simonia, per colpire la saldatura fra apparato ecclesiastico locale e feudalità, la base economica e materiale cioè degli strati di piccola nobiltà sancita dalla constitutio de feudis del 1037. Un « exemple classique », (p. 14) è fornito appunto dalle vicende della Pataria milanese: dove il programma riformatore di Anseimo da Baggio e Pier Damiani accoglie e contempera le esigenze dei ceti urbani subalterni, ma ne piega altresì l’anticlericalismo a un attacco ai privilegi della chiesa ambrosiana, in nome della preminenza di Roma, a cui deve



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far capo tutta la struttura ecclesiale. In questo senso la Pataria, con l’ascesa al trono pontificio dello stesso Anseimo, unisce alla polemica antisimoniaca e anti-nicolaitica una critica radicale del culto e della liturgia ambrosiani, in cui riconosce una superficiale cristianizzazione dell’antico sostrato religioso pagano. A questo proposito, nella misura in cui si viene individuando, nel cristianesimo medievale, una realtà difierenziata e affatto omogeneamente diffusa — e per zone geografiche e per stratificazioni sociali — sembra meritare una maggiore attenzione quanto invece è solo brevemente accennato da Manteuffel: come cioè il processo di cristianizzazione — ripristino del dettato e delle norme evangelici o, ancora, critica delle persistenti realtà « pagane » — si accompagna alla crescita di strati sociali emergenti, tesi a imporre una propria egemonia, economica politica culturale. In questa prospettiva, la difesa di antiche realtà spirituali — i riti della chiesa ambrosiana — da parte della feudalità, del clero e della popolazione rurale, assume significative analogie con altre situazioni dell’Occidente (utili indicazioni metodologiche su questo sovrapporsi, e scontrarsi di forme culturali sono contenute in A. Jourdan-Lombard, Du problème de la continuité: Y a-t-ìl une protobis toire urbaine en France?, « Annales E.S.C. », XXV, 1970, 4).
Nell’Europa della « seconda età feudale », uscita dalla crisi dell’assetto carolingio, le tendenze riformatrici e pauperistiche rinsaldate e diffuse dalla dottrina e dalla pratica dei predicatori itineranti, dall’esempio — frutto delle crociate — delle comunità d’Oriente, vengono coinvolte e tendono a risolversi nel più generale processo di ristrutturazione agraria e di ripopolamento. Il rifiuto della proprietà individuale diviene allora stimolo alla costituzione di più complesse ed efficienti organizzazioni economiche: è la contraddizione appunto che si presenta nell’ordine di Cìteaux, dove il divieto di riscuotere rendite porta alla necessità di stabilire un’economia di autoconsumo, tramite l’appropriazione di un unico e peculiare « instrument de travail — la terre » (p. 30), proprio in una struttura sociale in cui questa è « fonte d’ogni ricchezza e d’ogni potere » (J. Le Goff, Il Basso Medioevo, Milano 1967, p. 14). Lungo il processo di valorizzazione, e con la costituzione di un surplus produttivo, il monastero doveva divenire centro di una rete di scambi, sempre più accentuatamente mercantili e monetari.
Seppure attento a questi esiti del pauperismo riformatore del secolo XI, Manteuffel trascura però l’ambito del mondo urbano, e in particolare dei ceti produttivi cittadini. Risulta così efficacemente delineata la contraddizione fra le realizzazioni benedettine, cistercensi e premonstratensi, e le vicende di eremiti e asceti, quali Bernardo di Thiron e Stefano di Muret — che dal comune patrimonio dottrinale pervengono invece all’identità di paupertas e vita di elemosine. Ma ricondurre l’esperienza di Enrico di Losanna nei soli termini del divario fra esigenze e motivazioni evangeliche e risultati della riforma, volti ad assicurare la ristrutturazione e la liberazione della chiesa dal potere dei laici, significa appiattire un ambito problematico — le città come nuclei sociali emergenti — ed elidere alcune peculiarità del moto enriciano stesso, dagli strati sociali coinvolti (i tessitori di Linguadoca) alla stessa eterodossia — dove vengono mutuati dai petro-brusiani elementi dottrinali avversi alla concezione del peccato originale e del battesimo. Questa stessa curvatura riduttiva si presenta ancor più evidente nella analisi delle dottrine di Arnaldo da Brescia e del moto arnaldista. Dagli inizi come « contemptus mundi vehemens predicator » (Johannis Sarisberiensis, Historia Pontificalis, MGH, SS XX 537), Arnaldo perviene in Roma, in solidarietà con il populus e i milites avversi alla feudalità pontificia dei consules e dei capitanei, a propugnare un ritorno alle istituzioni politiche precristiane, che par presentire




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Cola di Rienzo e le petrarchesche utopie restauratrici (« ...sedem imperii fontem libertatis Romam... », Johannis Sarisberiensis, Historia Pontificalis, MGH, SS XX 538. « ...senatoriam dignitatem equestremque ordinem renovare ad instar antiquorum volens », Othonis Frisingensis, Gesta Friderici Imperatoris, MGH, SS XX 366). Aldilà del piegarsi dell’anticlericalismo arnaldiano ai motivi programmatici dei suoi alleati romani (pp. 47-8), il suo progetto rivela una continuità profonda con l’iniziale richiesta del ritorno dei benefici ecclesiastici ai laici: frutto di un’assoluta pauperizzazione della chiesa, diviene allora l’attribuzione al temporale, nella forma della respublica comunale, di strutture, proprietà e poteri suoi propri. Un’attenzione maggiore doveva altresì esser portata al rapporto con Pietro Abelardo: e non solo nel senso di indicare una dipendenza dottrinale e intellettuale, ma anche per illuminare una diretta partecipazione ai centri emergenti dell’« avvenire intellettuale dell’Occidente ». E infatti, proprio nei testi di Giovanni di Salisbury troviamo indicata la saldatura fra una condotta di vita informata ai princìpi pauperistici e la pratica intellettuale della nuova cultura urbana e universitaria: « auditores non habuit [Arnaldus] nisi pauperes et qui ostiatim elemosinas publice mendicabant » (Johannis Sarisberiensis, Historia Pontificalis f MGH, SS XX 537), si dice appunto della sua scuola parigina.
Con l’influenza dell’arnaldismo sugli enriciani di Francia, e soprattutto con Pietro Valdo, il moto pauperistico assume una curvatura nettamente urbana. Nel valdismo la polemica si risolve in un più vasto contesto: l’anticlericalismo si libera dalla immediata contrapposizione alla condotta di vita di un clero corrotto e inadeguato ai propri compiti, dall’esemplarismo di pratiche individuali di povertà — del resto concesse dallo stesso papa Alessandro III. La tarda distinzione fra credentes e perfecti — dove ai soli ultimi è dovuto « servare castitatem et non habere proprium... et vivere de elemosinis » (Bernard Gui, Manuel de Vinqui-siteur, ed. G. Mollat, Paris 1926, I, p. 50) — indica abbastanza chiaramente il distacco dalla spiritualità gregoriana, il ridursi del « contemptus mundi » a fatto elitario, l’articolarsi del moto ereticale a una realtà sociale complessa, in cui non è più questione di destini individuali, ma di interi strati e comunità sociali.
Nello sviluppo dell’evangelismo pauperistico, una posizione centrale assume il francescanesimo, e per l’esemplarità della sintesi in cui il Povero di Assisi accolse e innovò gli elementi, dottrinali e pratici, della tradizione; e per l’esemplarità della curvatura a cui l’esperienza spirituale dei minori venne piegata, nell’ambito e per gli interessi dell’istituto ecclesiale. Già l’accettazione da parte di Innocenzo III della nuova realtà mendicante le toglie tuttavia alcuni aspetti di autonomia e polemica — tipici e radicati nell’origine laica del movimento. Così è concessa la facoltà di predicare, ma di sole questioni morali, senza trascorrere nella dogmatica; e insieme è ribadito il carattere sacerdotale deWevangelizare, con la concessione del diaconato a Francesco e l’obbligo della tonsura. Con la regola del 1220-21 viene rimossa la struttura primitiva, ancora legata alla tradizione dei predicatori itineranti, per un’organizzazione incentrata sui capitoli e sui ministri. Entra contemporaneamente in crisi la forma originaria della paupertas: negli scritti di Bonaventura in difesa della regola del 1223, la povertà si evidenzia come un rapporto con le cose, i beni: da un lato nettamente contrapposta alla proprietà {dominium}, dall’altro risolta nell’wjw. Si vanifica così l’originaria intenzione del Povero di Assisi, fondata sul lavoro manuale e la sua ricompensa (« prò labore... accipere omnia necessaria », H. Boehmer, Analekten zur Geschichte des Franciscus von Assisi, Tùbingen-Leipzig 1904, p. 89), in nome della vita spirituale e apostolica, fondata sull’^^ pauper di beni prodotti dalla lontana attività del



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mondo dei laici (« ...talis mendicatio, laudabilis est, quae fit prò Christo imitando », Bonaventurae, Opera Omnia, Quaracchi 1891, V, p. 141).
Manteuffel segue poi attentamente gli sviluppi del dissidio interno al francescanesimo, dall’incontro con le attese chiliastiche apocalittiche (Pietro di Giovanni Olivi), fino alle decisioni di Giovanni XXII per eliminare ogni parvenza, anche formale, di povertà nell’ordine, e la conseguente adesione dei settori riformatori alla politica imperiale nella prima metà del secolo XIV.
Viene invece trascurato un elemento che sembra, nella definizione della paupertas francescana, altrettanto fondamentale del rifiuto della proprietà, e centrale nella polemica che contrappone la tradizione del fondatore alla sistemazione bonaventuriana. « Et fratres, qui sciunt laborare, laborent » (H. Boeh-mer, Analekten, cit., p. 7), aveva esortato Francesco, che concepiva appunto doni e offerte come remunerazione « prò labore ». Oltre l’istituzionalizzazione dell’ordine, oltre le stesse correzioni, in senso dottrinale e scolastico, della paupertas, il Povero di Assisi coglieva nell’interdizione del lavoro manuale la più radicale alterazione del carattere non clericale della sua opera. Laddove proprio in questo la curia di Roma aveva individuato il fondamento irriducibilmente laico dell’impresa francescana: nella saldatura, come pratica di vita, del processo di sacralizzazione del mondo — dATevangelizare — con le condizioni materiali dei nuovi ceti produttivi, della nuova società. E l’opera di Bonaventura — proprio contro le ribadite affermazioni nel testamento del fondatore (« Et ego manibus meis laborabam, et volo laborare. Et omnes alii fratres firmiter volo, quod laborent de laboritio », H. Boehmer, Analekten, cit., p. 36) — è volta appunto a riportare la realtà mendicante entro lo schema della fondamentale divisione del lavoro, come intimamente spirituale e intellettuale. La distinzione fra dominium e usus, se da un lato si presenta come formalizzazione teorica della povertà, dall’altro però separa l’esistenza dell’uomo da un rapporto immediato con un’attività manuale, per inserirla in un più vasto ambito di scambio: « unus homo potest operati prò alio... ideo non oportet sic omnes astringi universaliter ad manualem operationem » (Bonaventurae, Opera Omnia, cit., p. 162). Dove la ribadita superiorità del lavoro intellettuale vanifica definitivamente il progetto di Francesco: « studium sapientiae cum vigilantia praedica-tionis manualem laborem piene recompensat » (Bonaventurae, Apologia pauperum, Opera Omnia, Vili, p. 320). In questa prospettiva, la costituzione dei mendicanti come una nuova categoria intelletuale radicata nel contesto urbano, a differenza delle precedenti realtà religiose, doveva suscitare la reazione degli intellettuali universitari, tradizionalmente legati allo sviluppo delle città. E non a caso la polemica di Guglielmo di Saint-Amour si appunta sulla qualità del lavoro intellettuale dei mendicanti — anomalo rispetto all’attività sacralizzante del clero regolare e rispetto alla vita monastica e contemplativa — e sull’equità della sua conversione in mezzi di sussistenza: « non [sunt] Evangelistae, aut dispensa-tores Sacramentorum; tamen vivere volunt de Evangelio, non de labore manuum » (Guillielmi De Sancto Amore, Tractatus brevis de periculis novissimorum tem-porum ex scripturis sumptus, Opera Omnia, Constantiae 1632, p. 60).
Con la distruzione del movimento degli apostolici nel 1307, con il rinchiudersi del valdismo in una struttura gerarchica, in cui ai perfecti era fatto divieto di ogni attività pratica (« ... non laborant manibus suis postquam sunt facti perfecti », Bernard Gui, Manuel de Vinquisiteur, cit., p. 52) si conclude la vicenda del pauperismo di impronta gregoriana, dove la scelta della povertà quale via salutis era soprattutto l’elezione della vita di elemosina. Se il ripresentarsi




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nel valdismo del secolo XIV di una struttura ecclesiale ne permetterà la sopravvivenza e la futura consonanza con l’esperienza religiosa della Riforma, il movimento degli apostolici, da Segarelli a Dolcino, volgerà invece a una saldatura del rifiuto radicale della proprietà — fino a negare il matrimonio, come suggerisce Manteuffel, in quanto « manifestation... du droit de propriété » (p. 77) — con attese chiliastiche la cui realizzazione è ormai confidata, come nella dissidenza francescana, all’autorità imperiale e laica. Ma è lo sviluppo economico e sociale dell’Europa del secolo XIV che porta invece la dissidenza religiosa a privilegiare la risoluzione dell’evangelismo pauperistico nella pratica del lavoro manuale. Da un lato, il malessere degli strati artigiani e contadini, esclusi dal riassetto della società del Trecento, si sostanzia di attese apocalittiche — in un ambito dalla dissidenza francescana alla dichiarata eterodossia del Libero Spirito — e al cui compimento la salvezza è intesa solo per chi, a differenza della nobiltà e della borghesia, abbia operato in povertà e spirito di carità: sorgono così le confraternite dei begardi, comunità autosufiìcienti di liberi produttori, il cui surplus è rivolto a soddisfare i bisogni dei poveri nei centri urbani. D’altro lato, la stessa congiuntura demografica, che vede aumentare in tutti gli strati sociali il numero delle donne, destinate a rimanere nubili, pone il problema delle curiae beghinarum, le strutture cioè in cui accogliere in ritiro operoso le borghesi e le contadine, escluse dai conventi aperti alla sola nobiltà. Ma ormai, la saldatura fra il pauperismo radicale e la realtà, economica e sociale, che nel lavoro manuale trae la base materiale della propria esistenza, trascende la dialettica puramente religiosa di eresia e ortodossia, per imporre « au mouvement de renouveau moral la necessité de s’attaquer également à la réforme sociale » (p. 99).
A conclusione dell’indagine di un processo che, partendo dalle affermazioni dottrinali della patristica, perviene dalla riforma della chiesa all’eterodossia e all’eresia, fino a sostanziare i moti sociali e religiosi dell’età moderna, Manteuffel individua alcuni schemi permanenti lungo i secoli. Da un lato, infatti, il carattere anomalo di un’ideologia religiosa o di una pratica di vita non viene individuato sul criterio dei suoi sostanziali elementi di dottrina, bensì piuttosto questi vengono riconosciuti come tali « en fonction... de l’époque et des circonstances » (p. 101). D’altro lato ancora, il processo di centralizzazione e l’emergere della preminenza romana si accompagnano all’elaborazione di un apparato spirituale omogeneo e coerente applicato alle diverse realtà, sociali politiche religiose: donde quindi una più rigida definizione dell’ortodossia, e l’individuazione e il rifiuto crescenti di ogni forma anomala di spiritualità. Diventa allora cruciale il momento della pertinacia, laddove la volontà soggettiva degli eretici si salda all’impossibilità storica di sottrarre ormai la controversia dottrinale al mondo contraddittorio degli uomini e delle classi, di fronte a una chiesa che si vuole sempre più totalitaria, organizzatrice dell’Occidente cristiano.