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Title
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Marxismo e storia antica. Note sulla storiografia marxista in Italia
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Creator
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Mario Mazza
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Date Issued
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1976-04-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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17
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issue
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2
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page start
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95
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page end
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124
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Studi Storici © 1976 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20231101111508/https://www.jstor.org/stable/20564424?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1976%26ed%3D1976%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Af62d087b7765b14451fb8a89a6e2755c
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Subject
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Marx and Marxism
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power
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extracted text
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NOTE SULLA STORIOGRAFIA MARXISTA IN ITALIA
Mario Mazza
1. Nella storiografia occidentale sul mondo antico ci sono stati, fino a non molto tempo fa, piu modi di fare i conti con il marxismo. Il primo, e certamente il meno faticoso, è stato quello di ignorarlo, semplicemente e completamente — ed è stato anche il modo seguito dalla maggioranza degli studiosi, che tutto sommato hanno preferito battere le vie conosciute e non discostarsi dai metodi tradizionali di fare storia. Un altro, adottato da studiosi anche seriamente impegnati nella riflessione teorica, è stato di ritenere il marxismo quasi completamente assorbito nella tradizione storiografica occidentale; si pensi alla definizione che George Lichtheim, in un libro assai acuto, dava del marxismo come « thè caput mortuum of a gigantic intellectual construction whose living essence has been appropriated by thè historical consciousness of thè modem world » h E questi si possono ancora considerare atteggiamenti non ostili, se non favorevoli; in realtà, l’avversione per il marxismo, congiunta ad una limitata conoscenza dei testi marxiani, e dei problemi teorici da essi sottesi, ha rappresentato un atteggiamento piuttosto diffuso fra gli studiosi del mondo antico2. L’accusa di ideologismo e di apriorismo e, tutto sommato, di antistoricismo è stata non poche volte lanciata contro opere e contro studiosi con intenti che sono apparsi più terroristici che scientifici; e le discussioni si sono spesso chiuse là dove avrebbero dovuto cominciare — con un leale ed aperto confronto delle rispettive posizioni teoriche.
Le cose sembrano ora mettersi in un modo diverso; c’è indubbiamente un più vivo interesse per il marxismo nella storia antica, ed in genere nell’ambito dello studio dell’antichità classica. Il fenomeno è ormai attestato dalle riviste che, com’è noto, costituiscono gli indicatori più sensibili della temperatura scientifica. Il numero speciale della rivista ameri-
1 G. Lichtheim, Marxism, 19642, p. 406 (trad. it. Bologna, 1971, p. 632).
2 L’osservazione è di D. Lanza, M. Vegetti, « Quaderni di Storia », 2, luglio-die. 1975, p. 35, n. 2. Tra i tanti, un esempio recente di tale atteggiamento nei confronti del marxismo in K. Von Fritz, Grundprobleme der Geschichte der antiken Wissen-schaft, Berlin-N. York, 1971 (su cui si vedano le osservazioni di M. Vegetti, Von FFritz tra antico e moderno, « Riv. Crit. St. Filos », 1972, pp. 401-408).
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cana « Arethusa » su Marxism and thè Classics3 rivela l’interesse che si sente per l’argomento in ambienti tradizionalmente refrattari al marxismo, come quelli della filologia classica anglosassone. In Francia, in un ambiente culturale nel quale invece il marxismo ha sempre trovato largo spazio, il gruppo di Storia Antica dell’Università di Besan^on, sotto la leadership di Pierre Lévéque, ha iniziato a pubblicare i « Dialogues d’histoire ancienne », una rivista di chiara ispirazione marxista, che già nel titolo si rifà espressamente agli italiani « Dialoghi d’Archeologia », fondati da Ranuccio Bianchi Bandinelli — c’era anzi un progetto, mentre viveva ancora Bandinelli, di stretta collaborazione tra le due riviste, la più giovane francese volendo costituire il pendant dell’italiana4. Un giovane e valoroso filologo dell’Università di Bari, Luciano Canfora, ha edito i primi tre numeri dei « Quaderni di storia » — una nuova rivista che già nel titolo « ecumenico » intende contrapporsi alle chiusure specialistiche e talora settarie, di certa filologia classica, spesso sorda alle più giuste istanze della cultura storica, specie moderna5. C’è insomma reale attenzione ed interesse per il marxismo, nell’attuale ricerca storica sul mondo antico. Con la consueta tempestività Arnaldo Momigliano ha avvertito la congiuntura, nelle colonne del « Times Literary Supplement » discutendo di questo « marxising in antiquity » 6.
Lo scopo che ci prefiggiamo in questo intervento non è certo di analizzare partitamente i singoli contributi presentati in queste nuove pubblicazioni, ma di chiarire alcuni punti della complessa vicenda del marxismo nella storiografia italiana sul mondo antico e di indicarne alcune delle attuali linee di tendenza. Tuttavia, alcuni dei contributi presentati nelle riviste sopra menzionate meritano di essere segnalati — anche perché riescono ad essere in qualche modo indicativi delle tendenze di ricerca e delle impostazioni teoriche degli ambienti culturali donde provengono. Risulta ad esempio evidente il pragmatismo tutto anglosassone, attento più alle cose che alle teorie, dei contributori marxisti al fascicolo speciale di « Arethusa ». Tuttavia, di notevole rilievo metodologico — e di cristallina chiarezza — è il saggio di G.E.M. de Ste. Croix su Karl Marx and thè History of Classical antiquity1 — peraltro uno dei pochi marxisti negli ambienti oxoniensi di storia antica. Significativamente de Ste. Croix insiste sulla centralità, nell’analisi marxiana, del concetto di lotta di classe — e di classe, da intendere « in dose connexion with his [di Marx] fundamental concept of thè ”relations of productions”: thè social relations into which men enter in thè process of production, which find legai expression to a
3 «Arethusa», Vili, 1975, fase. I.
4 Come mi informò privatamente Ranuccio Bianchi Bandinelli, mostrandomi appunto una lettera di Leveque in cui si proponeva tale collaborazione.
5 II programma della rivista è costituto da un estratto «anticlassicistico» e « welt-geschichtlich » della voce Histoire di Voltaire, daLVEncyclopédie.
6 A. Momigliano, Marxising in antiquity, « The Times Literary Supplement », oct. 31 1975, n. 1291.
7 «Arethusa», cit., pp. 7-41.
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large degree either as property relations or as labour relations »8 — intervenendo con chiarezza di idee nell’ambito di una discussione ormai piuttosto avanzata tra gli studiosi occidentali di storia antica (si cfr. i saggi di Ch. Parain, di J.-P. Vernant, di P. Vidal-Naquet, etc.)9 e acutamente discutendo da questo punto di vista la recente e controvertibile The Ancient Econorny di M. L Finley 10. Ancor piu giustamente de Ste. Croix ribadisce l’importanza di analizzare non in astratto la cosiddetta base economica, ma i rapporti di produzione, reagendo cosi a certe impostazioni correnti nella storiografia inglese di ispirazione marxista degli anni immediatamente precedenti e seguenti la seconda guerra mondiale — ad esser chiamati in causa sono i noti lavori di Gordon Childe di George Thomson, di Benjamin Farrington, che hanno goduto di una certa diffusione in Italia. L’analisi storica marxista, ribadisce de Ste. Croix in contrasto con Finley, deve tendere soprattutto a spiegare, e non semplicemente a descrivere, i processi di trasformazione della società antica11. Questa analisi dev’essere condotta in termini economici, sulla base di quelli che Marx ha definito i rapporti di produzione (Produktionsverhàltnisse) ; e la dinamica della società antica si spiega in termini di lotta di classe — « class... essentially a relationship, is above all thè collective social expres-sion of thè fact of exploitation » 12 —; ciò che non rappresenta un atteggiamento storiografico anacronistico, ma il modo fondamentale di cogliere la dinamica reale del processo storico e di pensare in corretti termini marxisti. Il saggio di de Ste. Croix appare molto agguerrito, anche teoricamente; indicativa dell’attenzione con cui si guarda alla produzione marxista appare nello stesso fascicolo la documentata rassegna di R.I. Frank, Marxism and Ancient History, assai utile nella parte relativa all’applicazione dell’analisi marxista a specifici periodi della storia antica — in particolare modo per quanto concerne il problema della « crisi » del III secolo d.C. e la disintegrazione dell’impero romano d’Occidente 13.
Da sofisticazione ed insieme da eclettismo metodologico appaiono invece caratterizzati alcuni dei saggi più significativi dei « Dialogues d’histoire an-
8 G. E. M. de Ste. Croix, art. cit., p. 16.
9 Ch. Parain, Les caractères spécifiques de la lutte des classes dans l’Antiquité clas-sique, « La Pensée », 108, 1963, pp. 3-26; J.-P. Vernant Remarques sur la lutte de classe dans la Grece ancienne, « Éirene », 4, 1965, pp. 5-19 (ora in Mythe et so-ciété en Grèce ancienne, Paris, 1974, pp. 17-29); P. Vidal-Naquet, Les esclaves grecs étaient-ils une classe?, « Raison Pres. » 6, 1968, pp. 103-112; e la Lecture dello stesso G.E.M. de Ste. Croix, The Class Struggle in thè Ancient Greek World, J. H. Gray Mem. Lectures, Cambridge, 1973.
10 G.E.M. de Ste. Croix, art. cit., pp. 20 sgg: The Ancient Econorny (1973) di M. I. Finley è stata tradotto in italiano presso Laterza (L’economia degli antichi e dei moderni, Bari-Roma, 1974); sul libro, si v. l’importante recensione di M. W. Frederiksen, Theory, Evidence and thè Ancient Econorny, « Journ. Rom. St. », 1975, pp. 164-171.
11 G.E.M. de Ste. Croix, art. cit., p. 31.
12 G.E.M. de Ste. Croix, art. cit., p. 26.
13 R. I. Frank, Marxism and Ancient History, « Arethusa », cit., pp. 43-58 (cfr. partic. pp. 53 sgg.).
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cienne ». Dei problemi di un’archeologia non fondata su criteri di classificazione mutuati dalle scienze naturalistiche, o di natura assolutamente formale, bensì pensata come indagine su una « civilisation archéologique », e dunque volta a riconoscere le interazioni tra differenti gruppi di elementi, come cultura materiale, economia, società, religione etc., muovono le Reflexions théoriques sur la protohistoire, di J.P. Millotte 14. Più che alla metodica di Gordon Childe, il saggio di Millotte si richiama, e a nostro parere giustamente, ai teorici della « nuova archeologia » ai Bin-ford, ai Clarke, agli Schnapp 15: il concetto di « civilisation archéologique » non è per lui definito soltanto dai prodotti dell’industria umana, come si riscontra negli archeologi, anche marxisti, di scuola tradizionale, ma dall’analisi dei rapporti sociali, dei rapporti sociali di produzione 16. Assai interessante, nel ricorso alle tecniche di analisi del linguaggio politicoideologico portate avanti dal gruppo della Robin 17, è il bell’articolo della Clavel-Lévéque su Les Gaules et les Gaulois: pour une analyse du fonction-nement de la Géographie de Strabon — tentativo di analisi strutturalisti-ca, come recita il sottotitolo, della carica ideologica del racconto strabo-niano sugli antichi celti18. Contrasta con la sofisticazione dei precedenti articoli — e testimonia dell’eclettismo della rivista — il saggio di B. Bravo su una lettera inscritta su una lamina di piombo e databile agli inizi del V secolo a.C. (dunque forse l’esempio più antico di lettera conosciuto nel mondo greco)19; studio tradizionale nell’impianto ma dottissimo e ricchissimo di interessanti osservazioni di ordine economico (sul commercio marittimo in epoca arcaica, sugli strati sociali che lo esercitavano, sui rapporti tra le poleis greche e le comunità indigene del litorale pontico etc.).
Il rapporto con l’archeologia sembra costituire, per quanto risulta almeno
14 J. P. Millotte, Réflexions théoriques sur la protohistoire, « Dialogues d’histoire ancienne » I, 1975, p. I.
15 S. R. Binford e L. R. Binford, a cura di, New Perspectives in Archaeology, Chicago, 1968 (l’articolo di L. R. Binford, Archaeological Perspectives, che è considerato il « manifesto » del gruppo definito, a torto o a ragione, la scuola di Binford, è alle pp. 5-32); D. L. Clarke, Analytical Archaeology, London, 1969; S. Cleu-ziou, J. P. Demoule, A. e J. Schnapp, Renouveau des méthodes et théorie de l’ar-chéologie, « Annales ESC», 28, 1973, pp. 35-51; si v. anche M. I. Finley, Archaeology and History, «Daedalus» 1971, pp. 168-186 (ora in The Use and Abuse of History, London, 1975, pp. 87-101).
16 J.P. Millotte, art. cit., pp. 14 sgg. Sul fondamento di sofisticate tecniche di analisi è redatto il saggio di M. M. Mactoux, Analyse factorielle et religion grecque, ibid., pp. 237-265, i cui risultati e la cui metodologia lo scrivente non è in grado di valutare, dato l’uso delle matematiche superiori che vi è fatto.
17 Cfr. in generale R. Robin, Histoire et linguistique, Paris, 1973; C. P. Prévost, Litterature, politique, idéologie, Paris, 1973 (si v. anche l’acuto saggio di L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’Etat, « La Pensée », 151, 1970, pp. 21-33.
18 M. Clavel - Leveque, Les Gaules et les Gaulois: pour une analyse du fonction-nement de la Géographie de Strabon. Essai d’analyse de la charge idéologique du recit strabonien, « Dialogues d’histoire ancienne », cit., pp. 75-93.
19 B. Bravò, Une lettre sur piombe de Berezan. Colonisation et modes de contacs dans le Pont, ibid., pp. III-187.
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da questo primo numero, uno degli assi portanti nell’impostazione metodologica della rivista francese. Ciò può significare un privilegiamento dell’indagine a livello strutturale, ed un’attenzione rivolta particolarmente ai fatti di ordine strutturale, piuttosto che ai fenomeni della sovrastruttura. Ci si troverebbe così, tutto considerato, all’interno della tradizione di un certo marxismo francese, diverso da quello dell’« École de Paris »20 Il marxismo proposto dai « Quaderni di Storia » appare di altro genere: i contributori di estrazione marxista mostrano di preferire temi di storia della cultura, ed in genere indagini di ordine sovrastrutturale. In questo quadro rientra l’importante articolo di I. Cervelli, su Droysen dopo il 1848 ed il concetto di Cesarismo21. In tale saggio, certamente uno dei più pregevoli di questi primi tre fascicoli, il grande storico ottocentesco è esaminato nel suo rapporto con la politica tedesca dopo il ’48 ed è mostrata la genesi, dalle controversie ideologico-politiche di quel periodo, del concetto di cesarismo — che, come giustamente rileva Cervelli, costituirà uno dei temi fondamentali della visione storica droyseniana22. Ma soprattutto interessante, sul piano di un’analisi marxista, risulta il saggio di D. Lanza e di M. Vegetti su L'ideologia della città; in esso si affronta il tema del costituirsi storicamente della figura ideologica della « città » fra il VI ed il IV secolo a.C. ed il « consumo » e l’« esportazione » che ne son fatte, tramite le grandi istituzioni educative greche nei secoli seguenti — il che costituisce anche un aspetto della genesi del « classicismo »M. A spunti e suggestioni importanti sul piano storico-culturale dà luogo la discussione, promossa nel terzo fascicolo, ed ancora in corso, su II classicismo nell’età dell’imperialismo — con interessanti interventi di Antonio La Penna (Le vie dell’anticlassicismo), dello stesso Canfora {Classicismo e fascismo), di K. Bòhme {Kriegsdienst mit der Feder), di E. Flores (Norden a Berlino e Leo a Gottinga) di G. Mastromarco sul neutralismo di Pasquali e di De Sanctis — e di altri24.
Va rilevato che questi saggi discendono da una ben definita situazione culturale. Anche se provengono da uno specifico ambiente marxista, non rappresentano ovviamente tutto il marxismo italiano — pur nella storia antica. Esistono, come vedremo appresso, altre situazioni e altre tendenze. Nel già citato articolo del TLS Momigliano ha definito tipica dell’attuale intelligentsia marxista italiana (è termine da lui usato) « ...thè wide intel-lectual horizons, thè mix ture of sophistication and naivety and thè sense of a mission ». È un giudizio questo che nasce da valutazioni di ordine
20 II termine in M. de Certeau, « Annales ESC », 1972, pp. 1317 sgg (si pensa a Barthes, Foucault, Greimas, la Kristeva e, soprattutto, a Lacan).
21 I. Cervelli, Droysen dopo il 1848 e il concetto di Cesarismo, «Quaderni di Storia », I, 1975, pp. 15-56.
22 L Cervelli, art. cit., pp. 39 sgg.
23 D. Lanza - M. Vegetti, L’ideologia della città, « Quaderni di Storia », 2, 1975, pp. 1-37 (cfr. partic. pp. 33 sgg.).
24 II classicismo nell’età dell’imperialismo, « Quaderni di storia », 3, 1976.
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storiografico e che va quindi meditato, prima di essere accettato o rifiutato. Poiché il marxismo italiano, nella storia antica, ha avuto una sua specifica vicenda, che non va assolutamente trascurata o sottovalutata, può essere utile ripercorrerne alcune delle fasi principali, chiarendone i nodi problematici, ed esporne gli attuali risultati ed intenti.
2 . Alberto Asor Rosa ha giustamente insistito, nel recentissimo volume einaudiano sulla cultura italiana dall’Unità ad oggi sulla posizione « assolutamente centrale » che, nel dibattito culturale degli anni ’90, assume la questione del socialismo e del marxismo26. Su questo problema si confrontarono, in uno sforzo di ripensamento e di rinnovamento, le forze più vive della cultura dell’epoca — dal pensiero socialista e marxista alle correnti più spregiudicate del pensiero borghese — « attirate », precisa ancora Asor Rosa, dalla riproposta che il socialismo faceva in termini nuovi della questione del potere e dello sviluppo economico-politico27. Tale giudizio resta sostanzialmente valido anche per un ambito strettamente specialistico, come quello della storia antica: anche in questo le forze più vive, quali quelle rappresentate da un Ettore decotti, da un Corrado Barbagallo, da un Giuseppe Salvioli, da un Guido Porzio si confrontano, indubbiamente a vario titolo e con varie impostazioni, con il socialismo — con il materialismo storico, per riprendere i termini della specifica interpretazione del marxismo da loro adottata.
La vicenda culturale di questi uomini si può considerare esemplare del carattere estremamente aspro ed intollerante che lo scontro di classe assunse in Italia alla fine del secolo, quando la borghesia italiana si mosse a ricostituire il nuovo blocco egemonico28. Pur costituendo elementi di punta nello stanco panorama della storia antica italiana di quella fine-secolo, essi furono sconfitti ed emarginati. Una più ampia considerazione della lotta politica e culturale di quegli anni, e che non si fermi soltanto alle vicende interne della storiografia sul mondo antico, contribuisce certamente a chiarire le ragioni oggettive di questa emarginazione; a relegarli in posizione marginale non fu tanto il fatto che, come pur è stato detto, le loro opere non sarebbero riuscite a superare il vaglio di una rigorosa filologia, quanto piuttosto la durezza e la virulenza della reazione ideali-stico-cattolica, che nel campo della storia antica costituì l’espressione
25 A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d'Italia, IV, DairUnità a oggi, t. 2, Torino, 1975, pp. 821-1564.
26 A. Asor Rosa, op. cit., pp. 1000 sgg. (part. p. 1007); cfr. anche G. Are, Economia e politica neWItalia liberale (1890-1915), Bologna, 1974, pp. 43 sgg (e partic. p. 47) e A. Macchioro, Studi di storia del pensiero economico, Milano, 1970, pp. 476-560, per l’inserimento nel quadro europeo; oltre, naturalmente, le classiche opere di E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano, 1964, e di E. Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani, (1875-1895) Milano, 1961 e II marxismo e l'Internazionale, Roma, 1972.
27 A. Asor Rosa, op. cit., p. 1007.
28 Cfr. da ultimo U. Levra, Il colpo di Stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1966, Milano, 1975, (partic. pp. 370 sgg., partic. p. 378 sgg.).
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ideologica della riorganizzazione della borghesia contro le punte intellettuali avanzate del movimento operaio. In tal senso questi studiosi subirono la stessa sorte della cultura socialista — solo che l’anticiparono, trovandosi nel settore in cui tale cultura era oggettivamente più debole. Non è da trascurare il fatto che analoghi fenomeni di emarginazione si verificarono nella cultura universitaria tedesca — anch’essa espressione, ed ancor più omogenea, della classe dirigente lanciata verso l’avventura imperialistica 29.
Esistevano certamente delle differenze, che è bene rilevare, tra gli studiosi che abbiamo sopra ricordato. Se il socialismo, il pensiero socialista in genere — e quindi anche il marxismo — costituiva il reagente o, meglio, l’asse attorno a cui facevano ruotare la loro attività e teoretica e pratica — ed in questo senso anticipavano in qualche modo il tipo che poi sarà detto dell’« intellettuale impegnato » — i punti di partenza culturali, le esperienze teoretiche, le impostazioni di ricerca erano parecchio diverse e conducevano pertanto a risultati sostanzialmente disomogenei. Non bisogna lasciarsi intrappolare nella tesi, costruita sostanzialmente per ragioni polemiche dagli avversari, della loro comune appartenenza ad una « scuola » storiografica, ad un gruppo specificamente definito. Se ci fu qualche tendenza ad unificarsi attorno alla « Nuova Rivista Storica », fondata dal Barbagallo nel 1917, ciò avvenne, (e piuttosto tardi), per per una certa tendenza « sincretistica » del Barbagallo30 — che aveva il gusto e l’interesse per operazioni culturali di questo genere — sia per il significato che venne assumendo la « NRS » nel panorama delle riviste storiche italiane durante il fascismo — punto cioè di coagulo e di raccolta di forze intellettuali di varia estrazione e tendenza, ma in linea generale anticlassicistica, antidealistica (ed anche antisabaudistica)31. Non si può certamente considerare funzione del tutto trascurabile, o addirittura biasimevole, questa della « NRS », se si considera che il fascismo si fece carico, nella sostanza, di essere il gestore privilegiato del classicismo, dell’idealismo gen-tiliano, del sabaudismo storiografico (di cui anche la « Rivista Storica Italiana », ad un certo momento, dovette farsi veicolo). Certamente a collaborare alla «NRS» si possono trovare dei «dilettanti», degli irregolari, e qualche contributo non è esattamente al livello di quelli di altri collaboratori; ma non bisogna sottovalutare l’incoercibile tendenza dell’intellettuale italiano, da un canto a stare sempre coperto nella propria parrocchia e nel proprio gruppo (sicché certi oppositori preferirono il silenzio o la collaborazione con le abituali riviste), sia ad accodarsi al carro del vincitore — si pensi alla collaborazione di certi studiosi con le « carte in regola » all’inefEabile « Historia » diretta da Arnaldo Mussolini! La « NRS » ebbe certamente la debolezza di accogliere con troppa indulgenza
29 Cfr. K. Ringer, The German Mandarins, London-N. Y., 1973.
Cfr. P. Treves, «NRS», 1964, pp. 257 sgg (v. anche infra, n. 37).
31 Cfr. La redazione, Il nostro programma, « NRS », 1917, pp. I sgg; G. Martini, Cinquantanni, « NRS » 1967, pp. 13-14; I. Cervelli, G. Volpe e la cultura italiana ed europea fra Otto e Novecento, « La Cultura », 1970, pp. 278 sgg.
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chiunque parlasse male di Wilamowitz, di Croce e di Gentile, degli storiografi ufficiali! Ma non era poi tanto grave, considerate le posizioni francamente reazionarie — e talora « golpiste », come risulta dall’intervento nel cosiddetto « Kapp-Luttwiz-Putsch »32 — di Wilamowitz, seguito negli atteggiamenti più politicamente equivoci, dai tanti filologi e storici antichi ossequienti al regime, considerate le ambigue posizioni di tanti crociani e l’appoggio inesausto al regime fornito da tanti « pensatori » crocio-genti-liani; considerata infine l’agiografia sabaudo-fascista di tanti storici di corte, capeggiati dal Volpe, dal Fedele — se non talora da De Vecchi di Val Cismon.
Tra questi studiosi, Ettore Ciccotti fu certamente il miglior conoscitore del marxismo teorico33 — e il più coerente nell’applicarlo allo studio della storia antica. Certamente il suo marxismo risente degli equivoci teorici della Seconda Internazionale, partecipa di quell’atmosfera culturale e sorge su un background intellettuale evoluzionistico e positivistico; ma è anche quello comune ai socialisti della sua epoca, si muove sullo stesso terreno. Il tramonto della schiavitù nel mondo antico (1899) è certamente un importante libro di storia marxista — come tale fu riconosciuto dagli studiosi stranieri, anche da Kautsky34, e fu tradotto, fatto piuttosto raro per i libri italiani di storia antica in quell’epoca, in più lingue straniere. Quel che importa però rilevare è che il Tramonto della schiavitù non costituì il punto di partenza nell’attività storiografica di Ciccotti, bensì piuttosto il punto più alto di una felice stagione iniziatasi con il suo insegnamento a Milano e con la contemporanea militanza nel partito socialista. Da serio socialista, Ciccotti non disgiungeva la teoria dall’azione politica concreta: la sua attività di militante e l’acrimonia dei colleghi accademici gli fece perdere, durante i tragici avvenimenti del ’98, la sua posizione accademica33 — che recuperò solo più tardi, nella scomodissima e perifericissima sede di Messina. La sacra alleanza dell’interessato perbenismo dei colleghi accademici di Ciccotti, preoccupati dello « scandalo » del « professore socialista » che nelle bettole e nelle piazze
32 Cfr. i documenti pubblicati da L. Canfora, «Quaderni di storia» 3, 1976, cit., pp. 69 sgg e K. Bòhme, Kriegsdienst mit der Feder, ibid., pp. 49-68.
33 Sul Ciccotti marxista, sia consentito rimandare ad una nostra Introduzione alla riedizione del Tramonto della schiavitù nel mondo antico di prossima pubblicazione presso Laterza. Si cfr. intanto F. Natale, « Nuova Rivista Storica » 1958, pp. 33 sgg., pp. 271 sgg. (bibl. crit. a pp. 290-1); P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli, 1961, pp. 221 sgg; Id., 21 commemorazione di Ettore Ciccotti, « Athenaeum », 1963, pp. 356 sgg; S. Mazzarino, « De Homine » 1964, pp. 76 sgg.; I. Cervelli, « La cultura », 1970, pp. 271 sgg; E. Lepore in Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo, a cura di L. De Rosa, I, Napoli 1970, pp. 8 sgg.; A. Signorelli, « Sic. Gymn. » 1974, pp. 185 sgg. (che attende ad una monografia su Ettore Ciccotti).
34 K. Kautsky, «Die neue Zeit », 29, 1910-1911, II, pp. 713-725.
35 Sulla vicenda, cfr. P. Treves, « Athenaeum » 1963, cit., pp. 358 sgg; per la campagna del celebre linguista Graziadio Isaia Ascoli in difesa del « professore socialista » cfr. P. Treves, L’idea di Roma, cit., p. 241-42 e S. Timpanaro, «Rivista storica italiana», 1962, pp. 788-91.
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predicava il verbo socialista, con il filologismo pretestuosamente imparziale del cattolico-spiritualista Gaetano De Sanctis riuscì all’emarginazione del marxista Ciccotti dalla vita scientifica e culturale italiana36.
Anche la carriera accademica di Corrado Barbagallo37 fu non poco complicata dall’adesione, proclamata ma non altrettanto giustificata teoreticamente, al materialismo storico. Bisogna intendersi su quello che appunto il Barbagallo riteneva materialismo storico — e che non era, se riteniamo, com’è giusto, il materialismo storico una denominazione, sia pur datata, della concezione marxista della storia. Barbagallo fu certamente un democratico, un socialista, forse influenzato, nei primissimi anni, da quel genius loci dell’ateneo catanese che fu il troppo rumoroso, ma sostanzialmente sfortunato e « bonaccione » Mario Rapisardi, fu sodale di quella ben diversamente profonda personalità e culturale e politica che fu Concetto Marchesi; si è sempre seriamente occupato delle dottrine marxiste e del materialismo storico — ma chiunque legga nella Prefazione a Pel materialismo storico (Roma, 1899) gli scopi che appunto il Barbagallo in questo saggio si prefiggeva («I. Combattere le restrizioni storiografiche imposte al materialismo storico dal Croce e dal Labriola. 2. Fissare più rigorosamente di quello che si è fatto le sue derivazioni dall’hegelianismo, negargli i titoli a concezione filosofica e rintuzzare le critiche mossegli come tali. 3. Additarlo quale complesso di canoni direttivi delle scienze sociali »)M, chiunque consulti le varie redazioni dello scritto II materialismo storico39, non dura fatica ad accorgersi che egli si muove nel cerchio di una problematica interna al dibattito culturale italiano dell’epoca sulle scienze sociali e sui loro rapporti con la storiografia, che il suo approccio al materialismo storico era tutto positivistico e sociologico, in contrasto con la lezione labrioliana40, e che in definitiva egli restava estraneo al marxismo (al materialismo storico marx-engelsiano)41.
Se dunque il materialismo storico del Barbagallo teoreticamente non era
36 Sul significato politico degli avvenimenti del ’98, cfr. il già citato libro di U. Levra, Il colpo di stato della borghesia, pp. 121 sgg.; pp. 185 sgg, pp. 370 sgg; Id., Repressione e progetti reazionari dopo i tumulti del 1898 « Riv. St. Contemp. » 1975, pp. 11-66; (si v. anche L. Vinari, « Studi Storici », 1967, pp. 535 sgg. e F. De Felice, «Studi Storici» 1969, pp. 114-190). Sull’atteggiamento politico di De Sanctis v. il recentissimo libro di S. Accame, Gaetano De Sanctis fra cultura e politica, Firenze, 1975.
37 Su Corrado Barbagallo, F. Natale, « NRS » 1958, cit., pp. 353-87, il fondamentale saggio di P. Treves, Corrado Barbagallo, «NRS» 1964, pp. 11-34; 257-74 (che è una versione allargata della voce da lui curata per il Diz. Biogr. It. VI, Roma, 1964, pp. 26-33) e l’ampio lavoro di F. Di Battista, Storia economica e condizionamento sociale in Corrado Barbagallo in Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo, cit., I, 1970, pp. 37-115.
38 C. Barbagallo, Pel materialismo storico, Roma, 1899, p. 5.
39 Si tratta di un ciclo di lezioni tenute per l’Università popolare milanese (Il materialismo storico, Milano, Federazione italiana delle Biblioteche popolari, 1916, p. 129); poi riprese — con omissioni — in due articoli della «NRS» del 1924 e 1925, quindi riediti nel volume Attraverso i secoli, Milano 1939, pp. 9 sgg.
40 I. Cervelli, « La Cultura », 1970, cit., p. 267.
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che un canone d’interpretazione della storia (e poteva risolversi in un irrazionalismo meccanicistico, come avvenne negli anni della tarda maturità), e politicamente un generoso e combattivo socialismo, è anche vero però che la sua produzione storiografica sul mondo antico, proprio in virtù della composita ispirazione che la animava, per l’innegabile vivacità e polemicità con cui è composta, presenta caratteri di vitalità e di originalità che la contraddistinguono nel panorama piuttosto incolore della storiografia antichistica dell’epoca. La memoria su II senatusconsultum ulti-mum (Roma, 1900), la monografia su Le relazioni politiche di Roma con l’Egitto dalle origini al 50 a.C. (Roma, 1901) — che, pur nel quadro di una storia diplomatica e di politica estera, tentava di avviare una discussione sui moventi psicologici ed economico-politici della politica estera di Roma — il bel libro su La fine della Grecia antica (Bari, 1905), poi rifuso nei due volumi de II tramonto di una civiltà e la fine della Grecia antica, (Firenze, 1924) in cui affrontava il tema, caro a studiosi a lui vicini (si pensi al Ciccotti), della fine della civiltà, della «crisi»42 — ebbene, erano queste opere in cui si tentava di uscire dalle secche di un filologismo senza nerbo e senza problemi, e si cercava di indicare una prospettiva di rinnovamento storiografico.
Il « fenomeno Ferrerò »43 (G. Mosca, La riforma sociale, IV, 1897, p. 1018) comincia ormai a trovare la giusta collocazione ed interpretazione. Da critici e da difensori è stato rivendicato al materialismo storico 44 — ma Ferrerò non mostrò mai esitazione alcuna nel respingere
41 I. Cervelli, art. cit., p. 276. Sul « Lorianesimo » di Barbagallo (e di Ferrerò) cfr. A. Gramsci, Quaderni del Carcere, Torino, 1975, p. 22, 2326, 505, 506, 1848.
42 Su questo aspetto della storiografia del Barbagallo, sul problema della Dekaden-zidee in Ferrerò, Barbagallo, Ciccotti, cfr. le giuste osservazioni del Di Battista, art. cit., pp. H sgg, p. 79 (e l’articolo di G. Santonastaso citato alla, nota successiva). ;
43 Su Guglielmo Ferrerò, si cfr. F. Natale, « NRS » 1958, cit. pp. 257-271 (e la bibliografia ivi ricordata) e da ultimo AA.VV., Guglielmo Ferrerò, Histoire et Poli-tique au XX siede, « Cah. V. Pareto », 9, 1966 (si cfr. partic. L. Salvatorelli, Uoeuvre éthico-historique de Guglielmo Ferrerò, pp. 11-18 e P. Treves, Ferrerò dans son temps et le nótre, pp. 19-43; sul già accennato tema della decadenza, E. Garin, G. Ferrerò, A. Tilgher et la crise européenne, pp. 53-62 e G. Santonastaso, La notion de décadence chez les penseurs politiques de VItalie au. XX siècle: Ferrerò, Orlando, Pareto, Mosca, p. 63-82). Sul problema del «Cesarismo», cfr. M. Simonetti, Georges Sorel e Guglielmo Ferrerò fra « Cesarismo » borghese e socialismo (con 27 lettere inedite di Sorel a Ferrerò 1896-1921), «Il Pensiero Politico», 1972, pp. 102-151.
44 Cfr. R. Serra, Grandezza e decadenza di Roma di G. Ferrerò, in Scritti a cura di G. De Robertis e A. Grilli, II, Firenze 1938, pp. 539 sgg., che ha parlato di un progressivo allontanamento, nel corso dell’opera, dal materialismo storico (p. 562); C. Barbagallo, Lf opera storica di G. Ferrerò e i suoi critici, Milano, 1911, pp. 55 sgg., pp. 61 sgg. e II materialismo storico, cit., pp. 61-71 (si sarebbe trattato di una sorta di «materialismo storico inconsapevole...»). In funzione polemica fu ribadita dal Croce, nelle note pagine della Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, 193O2, pp. 149-155, pp. 232-33 (giudizi pubbl. per la prima volta ne « La Critica » del 1920), giudizio cui replicava vivacemente Ferrerò sulle pagine de «La Ronda», riportate in appendice a G. e L. Ferrerò, La Palingenesi di Roma, Milano, 1924,
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tale collocazione. In realtà Ferrerò e la sua opera sono assolutamente esemplari dell’atmosfera culturale degli anni a cavallo del nostro secolo. Grandezza e decadenza di Roma non è l’opera di uno storico antico « professionale », ma quella di un politico e di un sociologo che riflette sui casi della storia, sulla decadenza degli Stati e delle costituzioni, sulla fenomenologia di questa decadenza. Anche se non è da pensare che il rapporto con Barbagallo — che, come è noto lo ammirava molto e lo difese contro i detrattori45, a rischio della propria carriera accademica — fosse puramente tattico, strumentale, non è che, in ogni caso, Ferrerò avesse veramente molto in comune con i Ciccotti, i Barbagallo, i Porzio che, tutto sommato, erano storici « professionisti ». Ferrerò, che fu anche genero del maestro della psicologia criminale, di Cesare Lombroso46, aveva tuttavia piu familiari i problemi della sociologia, della psicologia delle massej i problemi di teoria politica, che quelli proposti dal Capitale41. Grandezza e decadenza di Roma ebbe indubbiamente grande successo43, specie presso il cosiddetto pubblico colto; ma, una volta collocata all’interno della pur varia corrente del « materialismo storico », consentì interpretazioni piuttosto singolari di quello che era veramente il marxismo, ed il materialismo storico, nella storiografia italiana. La critica devastatrice di Gaetano De Sanctis trovò un facile bersaglio nell’opera di Ferrerò; in pagine durissime di quel libro di guerra che fu il Per la scienza dell'antichità Ferrerò, Ciccotti e compagni furono accomunati nella inappellabile condanna del materialismo storico49.
Come abbiamo detto all’inizio, non è giustificato parlare di una « scuola » marxista, in cui far rientrare uomini come Ciccotti, Barbagallo, Ferrerò, Saivioli (uno studioso di storia del diritto, che si mosse all’interno di una problematica che per parecchi versi si accostava al materialismo storico, quale è quella dibattuta nell’importante II capitalismo antico 50 — e che in ogni caso fu un militante socialista) ; ciò è smentito sia dalle collocazioni personali dei singoli studiosi, sia dalla stessa diver-
pp. 141 sgg. (sui « giornalisti d’oltralpe » assertori del materialismo storico di Ferrerò, si vedano le pagine 155-159); per la discussione seguitane con il Barbagallo, cfr. « NRS », 1924, pp. 534-35 (recensione del Barbagallo) e « NRS », 1925, pp. 446-49 (risposta del Ferrerò).
Per un interessante confronto con la storiografia di Lamprecht (« It is thè lan-guage as well as thè spirit of Lamprecht ») cfr. P. G. Gooch, History and Historians in thè Nineteentb Century, London 1952 2, pp. 473-475.
45 C. Barbagallo, Lf opera storica di Guglielmo Ferrerò e i suoi critici, Milano, 1911.
46 Sul Lombroso e su importanti aspetti della cultura positivista in Italia, si veda il recentissimo libro del Bulferetti, Cesare Lombroso, Torino, 1975.
47 P. Treves, « Cah. V. Pareto » cit., pp. 35 sgg; G. Busino, ibid., pp. 193 sgg.
48 P. G. Gooch, op. cit., p. 473 (« No work since Mommsen aroused such world-wide interest as Ferrero’s ’Greatness and Decline of Rome’ »).
49 G. De Sanctis, Per la scienza dell"antichità, Torino, 1909, pp. 231 sgg.
50 Prima edizione in francese: Le capitalisme dans le monde antique, 1906 (poi rifatta per i tipi di Laterza, Bari, 1929). Sul Salvioli attende ad una ricerca M. Simonetti, nel quadro di un lavoro di prossima pubblicazione su Storiografia e società in Italia nella crisi imperialista (1911-1915).
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sità delle loro posizioni teoretiche. Tuttavia, si possono rilevare caratteri comuni, che li distinguono dal complesso degli studiosi di storia antica dell’epoca e ne rappresentano la caratteristica positiva. In primo luogo, l’impegno politico, che per loro non significò schizofrenia spirituale, ma al contrario fu garanzia di vita intellettuale, dialettica feconda tra prassi e teoria. Ancora, la cultura non limitata specialisticamente, non ristretta al proprio campicello scientifico: questi studiosi, appunto perché in loro la scienza era organicamente legata alla vita, alla politica, mostravano interessi altrettanto vivi e decisi sia per la storia contemporanea e per quella della loro terra — la storia del Mezzogiorno, come in Ciccotti ed in Barbagallo — sia per le scienze che potevano aiutare ad una piu piena comprensione storica, per la psicologia sociale, la sociologia, l’economia etc. Infine, questi studiosi avevano una cultura non limitata geograficamente, non chiusa nel quadro nazionale; l’internazionalismo era per Ferrerò un fatto di vocazione personale, di gusto; per Ciccotti, marxista e primo divulgatore in Italia, a livello scientifico, dei testi fondamentali della letteratura socialista51, nasceva dalla scelta politica. In ogni caso, non erano dei provinciali: Barbagallo teneva rapporti con il gruppo della « Revue de Synthèse historique », con il gruppo di H. Berr, Salvioli corrispondeva con tedeschi come Sombart e Kautsky. Nonostante certe loro deficienze tecniche, che poterono farli apparire antiquati a critici ingenerosi e prevenuti, in realtà guardavano avanti, più lontano dei loro oppositori, seguaci di un metodo che era già antiquato nelle università straniere donde lo importavano. Essi furono sconfitti, perché anche la società italiana, dopo la svolta del secolo, subì un generale processo di involuzione, sotto l’incalzare di una borghesia incapace di allinearsi, se non nella difesa dei privilegi, a quella degli altri paesi.
3 . Non è certamente il caso di andare sulle tracce del marxismo, nella storiografia del ventennio fascista. Del resto, di parecchio di ciò che fu scritto, durante quel periodo, praestat tacere. Prima o dopo bisognerà fare i conti con quella storiografia — un tentativo, seppur circoscritto ad una delle manifestazioni più macroscopiche nel già citato fascicolo dei « Quaderni di Storia », che discute del Classicismo nell’età delVimperialismo. In realtà, quel che di serio si scrisse allora provenne da due scuole i cui maestri si opponevano, con diversa ma non opposta motivazione, al fascismo: Gaetano De Sanctis, il cui cattolicesimo spiritualista ed intransigente non si conciliava con le pretese egemoniche della cultura fascista52, e Plinio Fraccaro il cui liberalismo affondava le radici nel-
51 Ciccotti curò la pubblicazione in dispense delle Opere di Marx, Engels, Lassalle — e Mehring — per l’editore Mongini, Roma, a partire dal 1899; raccolte poi in otto volumi, furono diffuse, dal 1914 in poi, dalla Società Editrice «Avanti!»: si cfr. G. M. Bravo, Marx e Engels in lingua italiana, 1848-1960, Milano, 1962. pp. 19 passim.
52 I Ricordi della mia vita del De Sanctis, recentemente editi a cura di S. Accame, Firenze, 1970, sembrano appunto confermare questa determinazione desanctisiana
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Yhumus democratica e libertaria della cultura risorgimentale53.
Tuttavia, è chiaro che con De Sanctis e con la sua scuola fu la cultura cattolica ed idealistica a gestire l’opposizione ideologica al fascismo — in realtà, agli aspetti più vistosamente arbitrari e beceri di quella pseudocultura — ma non furono certamente affrontati i nodi teorici e tematici che erano stati prospettati dalla storiografia marxista della generazione precedente (e di cui tentava farsi carico, con risultati conseguenti alla etereogenità teoretica e politica dei componenti, il gruppo che faceva capo alla «Nuova Rivista Storica»). D’altro canto gli interessi di storia amministrativa e sociale, di storia agraria, presenti certamente nell’insegnamento di Plinio Fraccaro, si resero espliciti, per opera dei suoi allievi — in particolare A. Passerini, Gianfranco Tibiletti, Emilio Gabba, A. Bernardi — solo dopo la seconda guerra mondiale, e anche in questo caso per l’urgenza dei nuovi problemi; durante il fascismo, il sostanziate isolamento in cui Fraccaro si indusse a svolgere il suo magistero non consenti di realizzare sensibili risultati. Il silenzio per alcuni fu un obbligo, per altri una scelta. Pochi studiosi si impegnarono in discussioni di livello realmente storico: il De Sanctis, Barbagallo, Ferrabino — il Ferrabino della prima fase — e Momigliano. « Quasi tutto il resto di questo periodo si svolge sul piano della erudizione più o meno combinata con le preoccupazioni politiche », ha scritto uno dei protagonisti della vicenda, appunto il Momigliano ^ (ed ha amaramente aggiunto: « Il vero male fatto dal fascismo agli studi di storia antica non sta nelle sciocchezze che si dissero, ma nei pensieri che non furono più pensati»55). Anche i celebri saggi di Concetto Marchesi su Seneca (1920), su Tacito (1924), i due famosissimi volumi della Storia della letteratura latina (I, 1925; II, 1927) poterono essere letti in chiave di opposizione e di democrazia da chi, negli anni della dittatura, conservava il sapore della libertà; ma al di là di questo sentimento, e del senso profondo della « storicità » e del valore « umano » di una civiltà letteraria come quella romana impe-( anche a proposito del famoso rifiuto di prestare giuramento, che lo condusse alla privazione della cattedra). Sull’impegno politico del De Sanctis si cfr. il recentissimo lavoro di S. Accame, Gaetano De Sanctis fra cultura e politica, Firenze, 1975, (e, sul punto specifico del non interventismo di De Sanctis, G. Mastromarco, Il neutralismo di Pasquali e De Sanctis, «Quaderni di Storia», 3, 1976, dt., pp. 115-137, partic. pp. 119 sgg; pp. 131 sgg).
53 II mommsenismo di Fraccaro mi sembra possa farsi rientrare in questa atmosfera. Sul Fraccaro si cfr. G. Tibiletti, « Athenaeum », 1959, IX-XXI (e Praelec-tiones Patavinae, Padova 1972); E. Gabba, «RSI», 1960, pp. 398-402; A. Momigliano, « Rend. Acc. dei Lincei » Classe di Se. mor. e filol., S. Vili, XV, 1960, pp. 361-67 (Terzo Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, t. II, Roma, 1966, pp. 827-835; non ho potuto vedere il lavoro di A. Bernardi, Plinio Fraccaro, Pavia, 1959 e, in altra redazione, Bassano del Grappa, 1960, citato dal Momigliano).
54 A. Momigliano, Gli studi italiani di storia greca e romana dal 1895 al 1939 in Cinquantanni di vita intellettuale italiana, 1896-1946. Scritti in onore di 3. Croce, I, 1950, pp. 84-106 Contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1955, pp. 275297; la citazione a p. 291.
55 Ibid., p. 296.
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riale, non proponevano certamente una metodologia marxista della ricerca letteraria56.
In effetti, il caso Marchesi è indicativo. Marchesi è stato certamente, per le vecchie e per le nuove generazioni emerse dal turbine della guerra, un maestro di vita morale ed intellettuale. Bisogna tuttavia riconoscere che il suo comuniSmo era più nutrito di populismo e di socialismo umanitario che dello studio dei classici del marxismo e dei teorici marxisti della letteratura. Egli fu certamente uno studioso di grande acume critico, un uomo di cultura « erede di un’antica tradizione gloriosa e risoluto a difenderla ed a trasmetterla, ma consapevole delle difficoltà e dei pericoli che la salvaguardia di tale retaggio comporta »57; ed in quanto tale potè proporsi come punto di riferimento a studiosi e ad uomini di cultura. Ma la sua formazione e la sua cultura erano « datate », appartenevano più al mondo del socialismo umanitario di fine Ottocento e, per certa problematica, allo storicismo idealistico, che al mondo del socialismo scientifico. In questo senso egli era più preparato a recepire Gramsci —r- ma anche, per spiegabile opposizione, 2danov o Aragon — che Lukàcs o, poniamo, Galvano della Volpe. Il militante in realtà riusciva ad accettare con più facilità ciò cui riluttava lo studioso di letteratura e l’uomo di cultura.
Questo può ritenersi un esempio, specifico, ma sostanzialmente valido, delle difficoltà e delle contraddizioni in cui si muoveva il marxismo degli anni cinquanta. Se Nicola Badaloni ha saputo darci un profilo esaustivo del marxismo degli anni sessanta58, non sono né pochi né facili i problemi che si pongono agli studiosi che tentino di presentare un bilancio, men che provvisorio e non tutto giuocato sul filo dell’ideologia, del quindicennio immediatamente precedente59. È assai difficile valutare, ancor oggi, certe
56 I limiti del marxismo di Concetto Marchesi riconosceva il discepolo, amico e biografo G. Campagna nella biografia del maestro, pubblicata postuma e completata da Ezio Franceschini (Concedo Marchesi, Sapri, Ediz. Centro Libr., 1963; si cfr. la recensione di A. La Penna, «Belfagor», 1964, pp. 1201-21, fondamentale per intendere il «marxismo» del Marchesi). Assai importante il Ritratto critico di Concetto Marchesi. Nel. decennale della sua morte, di P. Treves, «NRS», 1968, pp. 116-146 (con l’interessante definizione di Marchesi «letterato», letterato italiano — che tuttavia non mi sentirei di accettare completamente); si cfr. inoltre: E. Franceschini, « Rend. Acc. dei Lincei », Classe di Se. mor. e filol., S. Vili, XVI, 1961, PP- 61 sgg.; P. Ferrarino, « Atti e Mem. Acc. Padova », 1936-7, voi. LXIX, pt. I, pp. LII-LXXVII; G. Campagna, «Belfagor», 1958, pp. 680-703 (ristampato nel volume sopra menzionato); N. Terzaghi, «Atene e Roma», 1957, PP- 126-128. Dà piu di quanto prometta il titolo il saggio di S. Pricoco, Concetto Marchesi e la letteratura paleocristiana, « Studi in mem. di Carmelo Sgroi », Torino, Bottega d’Erasmo, 1966, pp. 577-591.
57 P. Treves, art. cit., p. 140.
58 N. Badaloni, Il marxismo italiano degli anni sessanta, Roma, 1971. Si cfr. anche i vari contributi raccolti in Istituto Gramsci, Il marxismo italiano degli anni sessanta e. la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Roma, 1972 e F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia (1958-1971). I dibattiti e le inchieste su «Rinascita» e il « Contemporaneo », Bari, 1973.
59 Si cfr., per una prima valutazione, F. Diaz, La storiografia di indirizzo marxista
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situazioni culturali che furono risolte più sul versante della prassi politica che su quello della teoria — si pensi, ad es., al caso di Vittorini e del « Politecnico ». Né i problemi si presentano più facili per quanto concerne la storiografia. Come abbiamo già detto, nella storia antica la presenza cattolica ed idealistica, con la scuola di De Sanctis, rimase sempre preponderante; e la scuola pavese di Fraccaro ebbe allora il suo periodo di massima fioritura. Non si ebbe però dibattito metodologico; non si verificò, presso gli storici antichi, qualcosa di analogo a quello che si ebbe presso i colleghi modernisti, alla discussione metodologica sulla storia del movimento operaio, aperta da Saitta su « Movimento operaio »60 e continuata con gli interventi di Santarelli e di Villari61, di Valiani, Vicario e Zapperi62 (e con la nota « lettera al direttore » di Tassinari, Za-nardo, Zapperi, R. De Felice e Melograni63, nonché con la « letterina » di D. Cantimori a Manacorda e Muscetta, a commento del X Congresso Internazionale di Scienze Storiche64), che costituì un momento cruciale nella definizione dei compiti di una storiografia marxista65. Niente di tutto ciò; si poteva certamente guardare con interesse agli storici marxisti della « prima ora » come Ciccotti e Barbagallo66 — che cominciano proprio adesso a diventare « casi » storiografici —: ma vi si guardava per interesse storiografico, per intendere piuttosto le ragioni della loro minima penetrazione, non per riprendere i loro metodi e problemi. La storiografia italiana sul mondo antico restava nella sostanza tutta idealistica, anche quando, in qualche caso isolato, si aveva la militanza, o il fiancheggiamento, nelle organizzazioni della classe operaia.
Risulta perciò abbastanza comprensibile che, in tale situazione, i contributi in Italia negli ultimi quindici anni, « Riv. Crit. St. Filos. », 1961, pp. 331-353 e, Id., Indirizzi storiografici e metodologici tra il 1945 e il 1965 in AA.VV., La storiografia italiana negli ultimi venti anni, Milano, 1970, pp. 1016-1089 (ora n F. Diaz, Per una storia illuministica, Napoli, 1973, risp. pp. 35-64 e pp. 65-88). Per un periodo piu circoscritto offre utili informazioni la rassegna di N. Matteucci, La cultura italiana e il marxismo dal 1945 al 1961, « Riv. Filos. », 1953, pp. 61-85. Per un bilancio degli studi sul movimento operaio, cfr. la bibliografia cit. in G. Bosio, Iniziative e correnti negli studi di storia del movimento operaio, 1945-1962, in II 1955; indicativo delle discussioni di quegli anni anche il saggio della Salvaco, Sviluppi della storiografia marxista in Italia, « Ragionamenti », 1957, n. 9, pp. 183-189. Si veda anche, per un’analisi del ruolo giuocato da Delio Caintimori, S. Sechi, Delio Cantimori e la storiografia marxista in Italia, in Movimento operaio e storiografia marxista, Bari, 1974, pp. 261-316.
60 A. Saitta, « Movimento operaio », genn.-febbr. 1955, pp. 117-120 (nella rubrica Pro e contra). Cfr. l'Epilogo provvisorio, ibid., settembre-ottobre, 1955, pp. 780-86. 61 Ibid., marzo-aprile 1955, pp. 294-302.
62 Ibid., maggio-agosto 1955, pp. 667-674.
63 Ibid., gennaio-giugno 1956, pp. 312-320.
64 D. Cantimori, Epiloghi congressuali, « Società », 1955, n. 5 (ora in Studi di storia, Torino, 1959, pp. 830-849). cfr. anche la risposta al « quintetto » di Napoli in «Movimento operaio», gennaio-giugno 1956, pp. 320-335.
65 Si cfr. su questo punto S. Sechi, Movimento operaio e storiografia marxista, cit., pp. 283 sgg.
66 Si cfr. S. Mazzarino, « De Homine », 1964, cit., passim (e Storia romana e storiografia moderna, Napoli, 1954).
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forse piu importanti ed originali, da parte marxista, venissero da uno studioso formatosi in maniera assolutamente autonoma e che era completamente estraneo, per le complesse vicende della sua militanza antifascista, agli ambienti accademici ufficiali, vale a dire Emilio Sereni. Non c’è dubbio che i suoi studi sulle comunità dell’Italia antica, sul paesaggio agrario italiano, sulla terminologia botanica dell’area mediterranea in età preclassica e classica, costituiscono alcuni dei momenti più originali e creativi della ricerca italiana sul mondo antico, negli anni cinquanta. Sarebbe forse fuor di luogo soffermarsi sulla ricchezza e complessità della personalità di Sereni — uno dei più prestigiosi dirigenti del PCI nel dopoguerra, e insieme storico dell’economia agraria italiana, teorico del marxismo e stupefacente conoscitore di lingue vive e morte —; quel che preme qui mettere in rilievo è che appunto non dall’for/^ conclusus della disciplina professionale poterono uscire gli elementi di novità e di avanzamento nella ricerca. Certamente, Sereni ha contribuito all’impostazione della linea teorica del PCI, negli anni immediatamente successivi alla conclusione della guerra e prima dell’VIII Congresso — negli anni in cui, anche in Italia, lo zdanovismo e il Diamat costituivano parte integrante dell’ideologia ufficiale marxista-leninista; certamente, gli anni di formazione alla scuola di economia agraria di Portici e, soprattutto, gli anni difficili di Mosca hanno lasciato, nella sua produzione storiografica, elementi di economicismo e certe impostazioni proprie al materialismo dialettico allora dominante nel marxismo sovietico dell’epoca stalinista; è certamente riconoscibile nel suo marxismo, una sopravvalutazione del ruolo delle forze produttive e degli aspetti tecnici e tecnologici, nei confronti dei rapporti di produzione, che induce a considerare in certo senso « datata » questa sua produzione storiografica67. E non sono neppure da trascurare certi interventi nella politica culturale del PCI, ed in genere nel dibattito culturale dell’epoca68, che sembrano
67 Va però riconosciuto che tali osservazioni sono valide solamente per una certa fase della sua produzione scientifica. In realtà, è merito di Sereni aver ripreso e reimpostato in questi ultimi anni il dibattito sul concetto di « formazione eco-nomico-sociale », la cui rilevanza teorica, ai fini di una storiografia marxista non è il caso, in questa sede, di ricordare; si cfr. E. Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria « di formazione economico-sociale », « Critica marxista », 1970, quaderno n. 4 (Lenin teorico e dirigente rivoluzionario), pp. 29-79. Questo saggio, tradotto in « La Pensée », n. 159, sett.-ott. 1971, ha dato origine ad un dibattito organizzato dal CERM, con interventi di Chr. Glucksmann, R. Gallissot, G. Dhoquois, J. Texier, Ph. Herzog, P. Gruet, G. Labica, M. Godelier (gli stessi interventi, eccettuato quello di Godelier, erano già stati pubblicati in « Critica marxista », luglio-agosto 1971, pp. 84-138). Per gli interventi italiani nella discussione, cfr. infra n. 116.
68 A titolo d’esempio, si v. il saggio Gramsci e la scienza d'avanguardia, « Società », 1947, pp. 1-30, in cui Sereni cerca di allineare Gramsci sulle posizioni dello zdanovismo e del materialismo dialettico, nella sua versione ufficiale sovietica, (saggio raccolto, insieme ad altri interventi, in Scienza, marxismo, cultura, Roma, 1949; per analoghi tentativi, in quel periodo, si cfr. M. Aloisi, Gramsci, la scienza e la natura come storia, «Società», 1950, pp. 385-410). Sul ruolo svolto da Sereni nel dibattito culturale dell’epoca, si cfr. la testimonianza di M. Rago, La battaglia di
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muoversi sulla linea di un’ufficialità forse fin troppo consapevole del ruolo politico che essa, in quanto tale, doveva assumere; sembrano inoltre da ricondurre a Sereni certe scelte editoriali, nel campo della storia antica, che introducevano nel dibattito storiografico italiano opere le cui premesse teoriche ed i cui risultati concreti apparivano in larga parte scontati o perlomeno, non facilmente assimilabili alle linee di tendenza della storiografia italiana. Ma va anche riconosciuto che la produzione di Sereni è l’unica che, in un panorama dominato dalla storia etico-politica o da tradizionalistici tentativi di storia sociale, introducesse con vigore i temi della storia economica in senso dichiaratamente e specificamente marxista.
Come ha scritto Eugenio Garin, dopo l’ultima guerra « l’opera di Gramsci fu l’acquisto maggiore della cultura italiana, quasi una conquista inattesa »69, Ma a profittarne, tra gli studiosi del mondo antico, non furono gli storici in senso stretto, bensì soprattutto gli storici della cultura, gli studiosi della letteratura, della filosofia, di storia delle religioni. Le ragioni profonde del fenomeno, che vanno al di là delle vicende personali dei singoli studiosi, riescono in qualche modo, seppur non troppo agevolmente, ad individuarsi. È appunto alla metà degli anni cinquanta che va imponendosi — per le ragioni che sono a tutti note e che non è il caso di ripetere in questa sede — una lettura specifica di Gramsci, prevalentemente condotta da studiosi di letteratura, che doveva risolversi nel riconoscimento della « linea » De Sanctis-Croce-Gramsci e nell’adozione di quel concetto di « nazional-popolare » che doveva generare non pochi equivoci nel dibattito culturale dell’epoca — e che ora sembra giustamente abbandonato in cambio di una più aderente interpretazione della vicenda reale della nostra cultura, a partire dall’unità70. In ogni caso, la storiografia gramsciana, letta in quella chiave e riferita soprattutto alla vicenda degli intellettuali e sul loro rapporto con la società civile, risultava poco congeniale agli studiosi di storia antica, allora prevalentemente impegnati in ricostruzioni puntuali di questo o di quell’episodio
Vittorini nella politica culturale della sinistra italiana, « Il Menabò », n. 10, 1967, p. 115, e, in generale, A. Guiducci, Dallo zdanovismo allo strutturalismo, Milano, 1967, p. 9 sgg; R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e rideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Roma, Ediz. di Ideologie, 1971, pp. 83 sgg. pp. 91 sgg.
69 E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, 1974, p. 337 (nella Postilla: Per una nuova lettura).
70 II problema meriterebbe certamente una piu ampia discussione, che investirebbe punti fondamentali della storia culturale del secondo dopo guerra. Si cfr., per una prima approssimazione, A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, 1965 (che ora va confrontato con le sue attuali posizioni in Storia d'Italia, cit., pp. 1604 sgg); C. Cases, Osservazioni su Gramsci e la fine del nazionale popolare, « Rendiconti », nn. 17-18, 1968; R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l'ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, cit., pp. 83 sgg. con una punta di estremismo che rischia di falsare i termini reali della questione). Acute osservazioni, come sempre, nei tanti lavori di A. M. Cirese, tra i quali citeremo, 'per economia di spazio, la recente raccolta di saggi Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Torino, 1976.
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di storia politica, o in discussioni sul valore di questa o di quella fonte — laddove favoriva invece l’approccio degli studiosi di storia delle sovrastrutture, della storia culturale in senso lato. Dall’esperienza gramsciana ci sembra sia stata fecondata, almeno inizialmente, la ricerca di Antonio La Penna, uno degli studiosi marxisti più intellettualmente rigorosi, e più filologicamente attrezzati, della generazione maturatasi negli anni del secondo dopoguerra. I lavori di La Penna su Sallustio, sui poeti e prosatori della prima età imperiale, sull’ideologia del principato augusteo, costituiscono senz’alcun dubbio acquisizioni fondamentali della recente indagine sulla cultura romana; il suo marxismo « critico » gli permette di conseguire risultati tanto più validi quanto meno sottoposti alle strettoie del dogmatismo: esso è dal La Penna usato come uno strumento d’indagine flessibile ed articolato, non come un rigido schema interpretativo, che si sovrappone ai fatti. D’altra parte, l’itinerario intellettuale di La Penna è certamente complesso, assai più complesso di quello di molti colleghi studiosi di letterature classiche: partito da posizioni diverse da quelle crociane generalmente adottate dagli studiosi della sua generazione, egli sembra ora esperire le possibilità di un marxismo « critico » come abbiamo detto, estraneo allo storicismo — da lui considerato « la facciata intellettuale del trasformismo politico di sinistra » — ed in cui la dialettica riprenda il suo reale ruolo dinamico; ed in tale percorso, l’esperienza gramsciana non sembra avere giuocato un ruolo del tutto incidentale.
Gramsci ha costituito un momento importante anche nel pensiero etnologico di Ernesto De Martino: il saggio demartiniano Intorno a una storia del mondo popolare subalterno (1949) segna l’inizio di un interesse di De Martino per un ambito etnologico specifico, e la delimitazione di un concreto spazio d’indagine per la sua ricerca sul campo71. (Com’è noto, questo concetto di mondo popolare subalterno sarà ampiamente dibattuto ed utilizzato negli studi di etnologia e tradizioni popolari72.)
Sulle orme di Gramsci e sulla base della sua adesione al socialismo, De Martino compirà quella scoperta delle masse subalterne meridionali che per lui, intellettuale cittadino, costituirà l’esperienza vitale del dopoguerra, indirizzando tutta la produzione scientifica posteriore. Come ha osser-
71 II saggio fu pubblicato in « Società » 1949, pp. 422 sgg.; per il significato della svolta di quegli anni, cfr. G. Galasso, Ernesto De Martino, in Croce, Granisci e altri storici, Milano, 1969, pp. 222-335, partic. pp. 241 sgg., pp. 282 sgg. (dissentiamo dalle conclusioni di questo pur assai importante saggio di Galasso, nel quale l’itinerario scientifico di De Martino — ed in genere tutta la sua opera — è visto nella prospettiva di un « ritorno a Croce », allo storicismo; per una valutazione opposta, si v. la recente Introduzione di C. Cases a II mondo magico, Torino, 1973, VII-XLVII). Su De Martino, si cfr. il profilo di A. Binazzi, «Belfagor», 1969, pp. 678-93, che ne analizza la formazione e le prime opere.
72 Si cfr. in generale A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, 1972, e, dello stesso, Scritti su Gramsci e le culture subalterne, in Intellettuali, folklore, istinto di classe, cit., pp. 142 sgg.
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vato Cesare Cases, nell’acutissima prefazione alla riedizione boringheria-na de II mondo magico:
I residui moderni del mondo magico, che nel libro omonimo venivano sempre astrattamente accennati come tali, si calavano ora in una realtà sociologica ben concreta e indagabile, che al contempo le indicazioni di Gramsci e Togliatti ponevano al centro del processo di rinnovamento in Italia. Il pianto funebre in Morte e pianto rituale [nel mondo antico], la magia lucana in Sud e magia, il tarantismo pugliese nella Terra del rimorso permisero a De Martino di condurre ricerche etnografiche sul campo, inserendole in un vastissimo arco culturale diacronico senza perdere di vista le istanze del presente73.
4 . L’itinerario intellettuale di Ranuccio Bianchi Bandinelli74 ripete sostanzialmente, nelle tappe fondamentali, il cammino percorso da tanti intellettuali democratici italiani del Novecento — ma, nella sua linearità e chiarezza, risulta in certo qual modo esemplare75. Esso indica il senso in cui si è mossa la cultura democratica italiana, in questo secolo — un ideale percorso, le cui tappe principali costituiscono anche punti di convergenza con i momenti più alti e significativi della cultura europea. Certamente, la vicenda intellettuale di Bianchi Bandinelli è scandita fondamentalmente su quella italiana, ma con anticipi significativi. Si è forse considerato troppo poco il respiro europeo della sua cultura, che gli ha consentito svolte e superamenti più rapidi e precoci rispetto ai suoi contemporanei — e costituì una delle ragioni non secondarie del suo fascino e prestigio intellettuale. Pur radicato nella tradizione culturale italiana, egli fu uomo europeo, come lo furono i De Sanctis, gli Spaventa, i Croce, prima della Grande Guerra, come seppero esserlo, nonostante le soffocanti chiusure provinciali dell’Italietta fascista e strapaesana, gli Chabod, i Cantimori, i Venturi — come insomma lo furono tutti i grandi intellettuali italiani.
Spirito europeo, dunque, Bianchi Bandinelli, e spirito eminentemente razionale, di una razionalità non logica ed astratta, ma volta a cogliere la
73 C. Cases, Introduzione, cit., p. XXXVII.
74 Per una valutazione critica di Bianchi Bandinelli è fondamentale il saggio di A. La Penna, Ranuccio Bianchi Bandinelli: dalla storicità dell’arte al marxismo, pubblicato in «Il Contemporaneo», n. 52, 1962, pp. 11-30, in occasione della pubblicazione di Archeologia e cultura, Napoli, 1961, e ripubblicato, con Aggiunta, come commemorazione, in « Belfagor », 1975, pp. 617-649; si v. inoltre il Ritratto critico del Bandinelli delineato da F. Coarelli, di prossima pubblicazione su « Belfagor » — che ho potuto vedere in dattiloscritto e di cui qui ringrazio vivamente l’autore. Sugli scritti giovanili di Bianchi Bandinelli si veda A. Carandini, « Prospettiva», I, 1975, pp. 6 sgg; si veda anche N. Bonacasa, Ricordo di R. Bianchi Bandinelli, Ist. di Arch. Univ. di Palermo, 1975. Dei necrologi e degli articoli di occasione apparsi sulla stampa quotidiana e settimanale, non sembra il caso di dare menzione in questa sede; ricordo solamente, perché ripubblicato a parte in AA.VV., Per Ranuccio Bianchi Bandinelli, Firenze, 1966, i necrologi di R. Barzanti, U. Cerroni, A. Carandini, e la commemorazione di G. Napolitano. S’intende che, per comprendere l’itinerario intellettuale di Bianchi Bandinelli, sono fondamentali i suoi scritti pubblicati in Dal diario di un borghese e altri scritti, Milano, 19622, da cui citeremo. [V. ora P. E. Arias, Ranuccio Bianchi Baudinelli in Quattro archeologi del nostro secolo, Pisa, 1976, pp. 65-100 e 105 sgg.].
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complessità e tortuosità dell’agire umano — volta insomma a cogliere la storia, la realtà della storia. In ciò sta la sostanza del suo storicismo, che gli fece prima accettare il crocianesimo, contro la genericità e piattezza di certa critica impressionistica, nella storia dell’arte antica76, e gli fa abbandonare l’idealismo crociano, quando si accorge che esso era divenuto astratto verbo nell’uso di certi critici che si autodefinivano crociani; e soprattutto, quando avverte che Croce «... quelli che sono i nostri problemi piu vivi, non li sente; e noi non possiamo persuaderci che essi non siano esistenti solo perché negati da lui. E noi dobbiamo trovare una soluzione ai nostri problemi, che non possono essere i suoi, perché anche la sua personalità è storicamente circoscritta »77 ; e quando intende i limiti teoretici dell’idealismo crociano, sia sul piano estetico che sul piano storico generale (« Ma quel far consistere l’arte in quel punto, in quello che esprime il grido quasi inconscio dell’individualità dell’artista, mi sembra non una soluzione definitiva e totale, ma solo l’estrema conseguenza della posizione del romanticismo, che esasperò quella valorizzazione dell’individuo nella quale si fa consistere la maggior gloria dell’umanesimo... »78; e piu avanti: «... Ma mi sembra che si corra il pericolo di creare, con l’immanentismo della storia, un nuovo mito che torna ad allontanare la storia dal realistico contatto con gli avvenimenti umani... »79).
Motivi dunque razionali e « storicistici », nel senso più pieno della parola, stanno alla base dell’abbandono del crocianesimo, da parte di Bianchi Bandinelli, e della sua successiva adesione al comuniSmo ed al marxismo. È la storia, la realtà storica e la necessità di comprenderla razionalmente, ad informare le esigenze teoretiche di Bianchi Bandinelli, non un’astratta metodologia critica con la quale far tornare i conti alle sue indagini sulla storia dell’arte antica. In ciò sta il suo profondo storicismo. Noi siamo troppo spesso abituati a prendere in considerazione, trattando di un intellettuale italiano, soltanto lo storicismo idealistico crociano. In realtà, Bianchi Bandinelli, per superare la piattezza metodica e le aporie della critica puramente filologica80, seppe scoprire lo storicismo dei Wickhoff e dei Riegl81 — ché di storicismo in questo caso pur si
75 Si cfr. su questo punto A. La Penna, art. cit., pp. 630 sgg. che però giustamente richiama anche le fratture, avvertendo ancor più giustamente, che «... senza fratture non si arriva al marxismo ».
76 Dal diario di un borghese, cit., p. 61 (21 marzo 1937); si cfr. anche le riflessioni postume in Introduzione all’archeologia, Bari, 1976, pp. 127 sgg.
77 Dal diario di un borghese, cit., p. 61.
78 Dal diario di un borghese, cit., pp. 79 sgg. (26 luglio 1941; annotazioni fondamentali per comprendere il superamento bandinelliano dell’estetica crociana, le cause profonde del suo rifiuto). Si cfr. le acute ossercazioni di A. La Penna, art. cit., pp. 626 sgg.
79 Dal diario di un borghese, cit., p. 80.
80 Sulle prime esperienze culturali di Bianchi Bandinelli, sul filologismo che caratterizzava gli studi dell’epoca, ha acute osservazioni F. Coarelli, art. cit., passim; sui primi lavori scientifici, A. Carandini, «Prospettiva», 1975, cit., pp. 7 sgg.
81 Sarebbe superfluo insistere sull’importanza di questa corrente critica nella for-
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trattava, della Hohe des Historismus (H. von Srbik) ^ in quel contesto culturale europeo che gli fu sempre familiare83 —; laddove, pei intendere l’opera d’arte nella sua specificità, egli si mosse sul versante dello storicismo crociano. C’erano indubbiamente contraddizioni teoretiche, in questi tentativi di Bianchi Bandinelli di uscire dalle secche del filolo-gismo. Le due correnti dello storicismo che abbiamo indicato battevano vie sostanzialmente aporetiche e che non potevano convergere: come infatti conciliare la storia della cultura, la Kulturgeschichte o Geistesges-chichte che costituiva la meta finale dei critici della scuola di Vienna (Wickhoff, Riegl, M. Dvorak)84, i problemi di tradizione di stili, di culture artistiche poste dalla loro ricerca con l’interesse per l’originale personalità dell’artista, che pur aveva costituito una delle esigenze di fondo del crocianesimo bandinelliano? È appunto per uscire da quest’impasse che Bianchi Bandinelli, individuati i limiti dell’una e dell’altra corrente, si rivolge alla storia, alla storia reale degli individui nella società — delle strutture economiche e sociali e politiche — in cui l’artista vive ed opera. È questa la via per la quale si scardinano le sue originarie premesse teoriche crociane; approfondendo l’esigenza di storicizzare l’arte, si giunge ad una contraddizione con le basi dell’estetica crociana85. L’incontro con il marxismo, di cui però Bianchi Bandinelli ha tenuto sempre a rivendicare l’aspetto politico, prima che metodologico-teoretico, si realizza appunto sul terreno di questa crisi e sulle premesse di queste sue esigenze di completa storicizzazione. Come ha osservato A. La Penna: « ... la ricerca della condizionatezza... di ogni manifestazione artistica porta al superamento dell’estetica crociana e dell’idealismo in genere, giacché porta ad unire sempre più strettamente il tessuto connettivo della cultura artistica con i massimi artisti e a concepire in maniera non romantica intuizione e personalità... L’opera di Bianchi Bandinelli... è tutta percorsa dal bisogno di inserire (ma non di costringere) le ricerche mozione culturale di Bianchi Bandinelli: si cfr., per il consenso e dissenso da questa scuola, specialmente Archeologia e cultura, cit., pp. 28 sgg, p. 190; pp. 256 sgg.; Storicità dell"art e classica, Bari, 19733, pp. 28 sgg.; Introduzione all'archeologia, cit., pp. 110 sgg. (si cfr. anche le osservazioni di La Penna, art. cit., pp. 620 sgg.). Diffusa, ma più difficile da precisare, l’influenza di Bernhard Schweitzer (si cfr. l'Introduzione di Bianchi Bandinelli a Alla ricerca di Fidia, Milano, 1967).
82 H. von Srbik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus bis zur Ge-genwart, II, Mùnchen-Salzburg, 1951, pp. 245 sgg. (sulla Wiener kunstgeschichtli-che Schule, cfr. pp. 304 sgg.).
83 Giuste osservazioni di F. Coarelli, nelle pagine iniziali del Ritratto critico ricordato a nota 74.
84 Si cfr. Archeologia e cultura, cit., pp. 234 sgg. e Introduzione all'archeologia, cit., pp. 110 sgg, con la bibliografia ivi menzionata; per una valutazione « interna » della scuola, cfr. J. von Schlosser, Die Wiener Schule der Kunstgeschichte, «Mittei-lungen d. òsterr. Inst. f. Geschichtsforschung » 13 Erg.-Bd. 1934; l'Einleitung di H. Sedlmayr ai Gesammelte Aufsàtze di A. Riegl, Augsburg, 1939 (Die Quintessenza der Lehren Rieglsi; Id., Geschichte u. Kunstgeschichte « Mitteilungen d. òsterr. Inst. f. Geschichtsforschung» 1936, pp. 185 sgg. (sullo stesso tema si veda anche M. Dvorak, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, in Ges. Schr., I, Mùnchen, 1924).
85 Così giustamente A. La Penna, art. cit., p. 628.
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singole in una concezione generale della storia e in una metodologia »86. Storicità deWarte classica (1943, 19532, 19733), Archeologia e cultura (1961), Archeologia come scienza storica (1973) 87, sono titoli che scandiscono momenti cruciali della sua ricerca e che Bianchi Bandinelli sentiva come i piu consoni alla sua visione teoretica, come quelli che appieno esprimevano la sua esigenza di completa storicizzazione (« È nella comprensione storica, infatti, che si identifica la cultura » ebbe a scrivere di recente in un luogo della sua opera). Come molti degli intellettuali che maturarono negli anni del primo dopoguerra, passando attraverso l’esperienza dello storicismo idealistico crociano, egli sentì il marxismo fondamentalmente come storicismo — contribuendo alla costituzione di quella linea De Sanctis-Croce-Gramsci, cui abbiamo accennato. Non è certamente agevole trovare in Bianchi Bandinelli teorizzazioni marxistiche88, né tantomeno echi del dibattito teorico in cui era impegnato il marxismo italiano negli anni in cui egli rivestì impegni e cariche ufficiali nel PCI, ed in cui la sua presenza fu particolarmente viva; egli non sembra accettare il Diamat corrente a quell’epoca, diffida di certe troppo rigide teorizzazioni di Lukàcs (pur mostrando ammirazione per la sua opera), non sembra interessato al lavoro teorico che Galvano della Volpe e la sua scuola andavano svolgendo per la costruzione di una estetica marxista, né sembra preoccupato da mode o tendenze strutturalistiche. Ripetiamo, per lui marxismo è storicismo, inteso come comprensione piena e totale della realtà storica. Spiegare storicamente è ricostruire induttivamente il blocco storico, per Bianchi Bandinelli; che è operazione da compiere con estrema cautela, ed attenzione, poiché non è mai facile cogliere i rapporti tra struttura economica e sovrastruttura. Come appunto egli avverte: « ... Non vi sono formule; ma vi è, invece, la realtà di un nuovo piano storico, vi è una visione unitaria del mondo e della storia, come base e indicazione direttrice di una ricerca complessa, minuta, che sappia affondarsi nel particolare e isolarlo, pur avendo sempre dinanzi il problema generale e arrivare poi alla sintesi storica e al giudizio storico generale, tenendo presente tutti i dettagli posti in evidenza »89. La storia dell’arte non può essere una somma di giudizi sulle singole personalità di artisti, né la ricostruzione, più o meno azzeccata, del gusto figurativo (del Kunstwollen, secondo la « scuola viennese ») di una data epoca: è invece interpretazione storica della forma artistica, analisi del legame strettissimo che nell’arte antica « appare con estrema evidenza... fra l’opera d’arte e le premesse politiche e sociali che ne determinano e dirigono la creazione ». Ché anzi, con maggior
86 La Penna, 1. c.; si cfr. Archeologia e cultura, cit., pp. 23 sgg, pp. 30 sgg; p. 239 sgg; Introduzione all'archeologia, cit., pp. 129 sgg.
87 Conferenza tenuta all’Accademia nazionale dei Lincei e pubbl. nei « Rendiconti delle Adunanze solenni », voi. VII, fase. 9, Roma, 1973, pp. 717 sgg. e ripubblicata come Introduzione aWIntroduzione all'archeologia, cit., XIII-XXVII.
88 Cfr. le sue dichiarazioni in Dal Diario di un borghese, cit., p. 377.
89 Archeologia e cultura, cit., p. 38.
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aderenza alla realtà storica, non di « creazione » si dovrebbe parlare, ma di « produzione », di rapporto reale con la realtà sociale ed economica nel cui ambito l’artista opera e produce — laddove la concezione crociana « sembra presupporre una creazione artistica che non conosca limiti alla propria intuizione poetica » ". In conclusione, la storia dell’arte antica « ...consiste nel definire le singole opere nella loro storicità individuale e nel legarle con la storia della cultura, definendo il rapporto dell’opera d’arte con il suo determinato ”ambiente” ». La storia dell’arte non si risolve in una sociologia dell’opera d’arte, od in un capitolo di una storia sociologica: essa deve invece « conservare la propria autonomia, in quanto rimane centrata sulla lettura formale dell’opera d’arte, che sola può svelare, se saputa condurre, a quale interna dialettica fra l’artista e la sua opera questa deve il suo aspetto definitivo, entro un dato rapporto di produzione, e quale sia in definitiva, il suo contenuto »91. E metodo fondamentale, primario, degli storici dell’arte antica e degli archeologi, è la ricerca storica che « ...chiari[sce] il processo di creazione e produzione di una determinata opera di quel determinato tempo »92. Dall’interpretazione dell’opera d’arte, nella sua unicità e singolarità — nel suo « miracolo », come qualcuno forse amerebbe ancora dire — alla ricerca storica concreta sul processo della sua « creazione » e produzione: questo il cammino teoretico di Bianchi Bandinelli, questa la lezione di metodo critico che egli ha lasciato ai suoi scolari ed ai suoi continuatori. Poiché di una scuola di Bianchi Bandinelli, nel senso migliore della parola, si può ben parlare — nonostante egli non amasse tale termine e le situazioni spesso ascientifiche che esso sottende. Maestro per la naturale attitudine a comunicare i risultati della propria ricerca, a suscitare discussioni, a stimolare e nel contempo a rispettare la personalità di coloro che lo seguivano in una eccitante avventura intellettuale93 — « Ho infatti sempre sentito il bisogno di operare in modo da rendere questi studi elementi culturalmente attivi », ha lasciato scritto94 — Bianchi Bandinelli ha lasciato discepoli che sanno continuare e sviluppare, sempre in fecondo ma fermo dibattito con il maestro, le premesse implicite nella sua critica della tradizionale archeologia e storia dell’arte antica. Tra di loro, Andrea Carandini95, Mario Torelli96, Filippo
90 Introduzione all’archeologia, cit., p. 130.
91 Introduzione all’archeologia, cit., pp. 137-141. Il corsivo è mio.
92 Introduzione all’archeologia, cit. p. 145. Giustamente A. Carandini, nella sua recensione in « Rinascita » 1976, n. 16 (16 apr. 76) p. 32, fa rilevare l’approfondirsi dell’interesse di Bianchi Bandinelli, dalla metà degli anni ’60, per i problemi di ordine sociale e materiale della produzione — e della riproduzione dell’opera d’arte — in altri termini, per i problemi della « produzione materiale », per i rapporti reali di produzione.
93 Ha pagine suggestive su questo punto l’articolo di Coarelli, cit. alla nota 74.
94 Introduzione all’archeologia, cit., p. 129.
95 Andrea Carandini, autore di studi sul classicismo dell’età adrianea, sulla villa
romana di Piazza Armerina, direttore di una importante ricerca di scavo su Ostia
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Coarelli — per non citare che i più anziani della scuola — sembrano essersi fatto carico di portare avanti una metodologia marxista nell’indagine sul mondo antico; oltre ai lavori personali, strumento importantissimo all’uopo sono i « Dialoghi di Archeologia », la rivista sorta all’interno della scuola, dal fecondo rapporto, su un piano di parità, tra uno studioso al culmine della maturità intellettuale e scientifica, e giovani ansiosi di scuotere il clima torpido e conformista di certa archeologia accademica italiana98. Si tratta di personalità diverse, epperò complementari — a riprova della capacità di Bianchi Bandinelli ad adunare attorno a sé non pedissequi ripetitori delle proprie tesi, ma studiosi autonomi e vivi e la loro produzione scientifica comincia ad avere un posto non secondario nell’attuale panorama degli studi sul mondo antico.
5 . Sarebbe certamente compito assai arduo, ed in ogni caso sproporzionato al carattere del tutto frammentario delle presenti annotazioni, tentare di definire le posizioni teoriche degli studiosi, giovani e meno giovani, che sono partiti dal marxismo o che, per vari itinerari, ad esso sono approdati. Sarebbe interessante, ad es., analizzare distesamente le posizioni teoriche di una personalità ricca e complessa come quella di Ettore Lepore, da originarie esperienze di storia della cultura approdato antica, sembra forse il più attento ai problemi teorici che comporta la milizia del moderno archeologo « scientifico ». In tale ottica va considerato il suo recente libretto, appunto un « Dissenso » edito da De Donato, dal titolo indicativo di Archeologia e cultura materiale. Lavori senza gloria nell’antichità classica, Bari, 1975Ì il cui scopo dichiarato, intenzionalmente limitato come scelta di campo, sarebbe di « recare un contributo per lo studio delle forze produttive dei processi sociali di produzione dell’antichità classica, le quali racchiudono appunto sia le condizioni materiali che quelle sociali », p. II. Si cfr. Vibia Sabina. Funzione politica, iconografia e il problema del classicismo adrianeo, Firenze, 1969; « Dialoghi di Archeologia » I, 1967, pp. 93 sgg.; Seminario dell’Istituto di archeologia e storia dell’arte greca e romana dell’Università di Roma, « Studi miscellanei », 13, Ostia I, 1968; «Studi miscellanei» 16, Ostia II, 1971; «Studi miscellanei», 21, Ostia III, I-II, 1973. . .
96 Mario Torelli, abile epigrafista ed « antiquario » che pensa storicamente, sente più da vicino i problemi concreti di ricostruzione storica: indicativi dei suoi interessi i suoi recenti -lavori sull’economia e sulla società romana arcaica. Si cfr. Tre studi di storia etrusca, « Dialoghi di Archeologia », Vili, 1974-75, pp. 3-78; « Elogia Tarquiniensia » - Documenti epigrafici latini per la storia della Tarquinia etrusca e romana, (in corso di stampa).
97 Filippo Coarelli si muove con felicità di risultati e chiarezza di prospettiva nell’ambito dello storia più specificamente artistica, nel tentativo di chiarire da un punto di vista marxista i rapporti tra produzione artistica e società — tema questo, come abbiamo visto, squisitamente bandinelliano, come del resto sviluppi di tematiche bandinelliane perseguono i primi due studiosi.
98 Chiunque abbia qualche familiarità con gli scritti di Bianchi Bandinelli conosce bene il suo atteggiamento nei confronti òelYestablishment accademico — atteggiamento peraltro ricambiato largamente dalla maggioranza dei « cari colleghi ». Per l’impegna civile di Bianchi Bandinelli cfr. AA., BB. AA e B.C., L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, Bari, 1974. Le vicende che diedero origine ai «Dialoghi di Archeologia » ed al Gruppo degli Amici della Rivista sono ricordate, « a futura memoria », nel primo numero: cfr. « DdA », I, 1, 1967, pp. 3 sgg. pp. 130 sgg.
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al marxismo attraverso una simpatetica frequentazione delle scienze umane (sociologia, antropologia, psicologia storica etc.); o illustrare il lavoro che stanno attualmente svolgendo storici come D. Musti, C. Ampolo, N. Parise, o studiosi di diritti antichi, come L. Capogrossi Colognesi, M. Bretone, L. Labruna, F. Grelle, A. Schiavone, M. Brutti — per non ricordarne che alcuni, a caso. Ma non intendiamo certamente compiere un censimento delle forze intellettuali che si ispirano al marxismo, operanti nell’ambito della storia antica; quel che in questa sede ci interessa è piuttosto, come abbiamo già detto, di indicare alcuni dei nodi problematici nella vicenda storiografica del marxismo italiano e di accennare alcune delle linee in cui esso sembra ora muoversi. In ogni caso, un punto va nettamente ribadito, che esiste ormai una compatta presenza di studiosi marxisti nel campo della storia antica, e che essi si muovono, in posizione né subalterna né polemica, per una ricostruzione globale della storia del mondo antico, con gli strumenti offerti dalla metodologia marxista.
In posizione né subalterna né polemica. In effetti, uno dei motivi primari della vitalità e dell’incisività di questa storiografia marxista ci sembra debba riconoscersi nella sua sostanziale adesione alle linee fondamentali del dibattito culturale — che, com’è a tutti noto, ha visto l’egemonia del marxismo già alla metà degli anni sessanta — e, soprattutto, nella sua capacità di confrontarsi, non sterilmente, con le altre correnti storiografiche. È interessante osservare come gli studiosi di storia antica, forse perché meno impacciati da problemi di troppo immediata trasposizione della teoria in prassi politica, hanno incontrato difficoltà relativamente minori, rispetto ai colleghi studiosi di storia moderna e contemporanea99, nel compiere il passaggio da certo marxismo economicistico e adialettico, o troppo scopertamente storicistico, proprio agli anni cinquanta, al marxismo critico e teoricamente aggiornato degli anni ’60 e ’70, scaltrito e talora addirittura sofisticato dal confronto con le « scienze umane » — il fenomeno che ha costituito il processo di fondo della cultura italiana degli anni ’60 10°, e che Armanda Guiducci, nel titolo di un suo noto libro, ha polemicamente rappresentato come passaggio dallo « zdanovi-smo allo strutturalismo »101. Non poco influì anche l’introduzione dell’opera di Lukàcs, merito che va precipuamente ascritto a Cesare Cases 102. Di un indubbio rigore metodologico — o almeno, dell’aspirazione ad un tale rigore — appare indicativa la cautela con cui sono stati accolti, nel quadro dell’interesse sopra accennato per le « scienze umane », i lavori di J.-P. Vernant, di P. Vidal-Naquet, di M. Détienne, il cui originario
99 Cfr. G. Manacorda, I caratteri specifici della storiografia dell’età ■ contemporanea, in Rivoluzione borghese e socialismo, Roma, 1975, p. 387 (Intervento già pubbl, in « Quaderni storici », n. 20, 1972).
100 Cfr. A. Asor Rosa, La cultura..., cit., pp. 1631 sgg.; p. 1635.
101 A. Guiducci, Dallo zdanovismo (dio strutturalismo, Milano, 1967.
102 Così Asor Rosa, La cultura, cit., p. 1641. Su Lukàcs e la cultura marxista in Italia, cfr. R. Merolla, « Angelus novus », 15-18, 1969, pp. 1-66.
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marxismo si è ibridato con metodiche di antropologia culturale, di psicologia storica, di explicitions de textes, specifiche alla tradizione culturale francese, ma piuttosto estranei al marxismo italiano103. Non a caso la loro problematica è stata recepita, e non acriticamente, da studiosi di letterature classiche, ed in particolare, da Bruno Gentili e dalla sua scuola, cui va riconosciuto l’indubbio merito dello svecchiamento degli stantii schemi interpretativi di certa filologia classica italiana104. Ancora non a caso la tematica proposta da M.I. Finley, uno studioso di cui si sono tradotte in italiano molte opere, è stata considerata con molta circospezione, con la precisa consapevolezza dei presupposti « sostantivistici », polanyani, che la ispirano. La sua recente, e sicuramente importante Ancient Economy, tradotta in italiano da Laterza105, incontra non poche perplessità e riserve. Essa è considerata, e giustamente, come un opportuno correttivo alla ispirazione « modernistica » —; alla Meyer, Beloch, Rostovtzeff — che piu o meno esplicitamente ha sotteso, e continua a sottendere, gran parte della produzione storiografica sull’economia antica. Ma il dibattito sul sostantivismo è ormai impegnato, specie nei settori di punta degli orientalisti — che, tra l’altro, non si sono lasciati troppo sedurre dalle sirene di un dibattito sul « modo di produzione asiatico » impostato in chiave wittfogeliana 106. Si può, al limite, rimproverare un certo tradizionalismo ed una certa prudenza, agli studiosi marxisti italiani; ma non certamente un’eccessiva indulgenza per le mode « sostan-tivistiche » in auge presso altri ambienti culturali.
In realtà, i problemi teorico-pratici che comporta una ricostruzione marxista della storia economica e sociale del mondo antico sono in questo
103 Per una prima informazione sul lavoro di questi studiosi, si cfr. J-P. Darmon, Un cours nouveau dans les études greques, « La Critique », marzo 1970, pp. 265, 286 e l'Introduzione di B. Bravo a Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Torino, 1970 (Cfr. anche G. S. Kirk, Myth: Its Meaning and Function in Ancient and Other Cultures, Berkeley e Los Angeles, 1970). Ma l’argomento richiederebbe ulteriore approfondimento.
104 Molto del lavoro della scuola si può trovare nei « Quaderni urbinati di cultura classica» diretti appunto dal Gentili. Del Gentili, tra la molta recente produzione, si veda « Quad. Urb. di Cult. Class. », 2, 1966, pp. 37-63; ibid., 8, 1969, pp. 7-22; Lirica greca arcaica e tardo arcaica in « Introduzione allo studio della cultura classica », Milano, 1972; la Introduzione a E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it., Bari, 1973, V-XI; B. Gentili - G. Cerri, Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica, Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1975 e B. Gentili - E. Pasoli - M. Simonetti, Storia della letteratura latina, Roma-Bari, 1976, P.I (pp. 5-171).
105 M. I. Finley, L'economia degli antichi e dei moderni, Bari-Roma, 1974.
106 Nonostante la traduzione italiana di Orientai Despotism, preceduta da un’apposita Prefazione all'edizione italiana, in chiave anticomunista, dello stesso Wittfogel (K. A. Wittfogel, Il dispotismo orientale I-II, Firenze 1968). Per il dibattito italiano sul MPA si cfr., oltre l’informatissimo saggio di G. Sofri, Il modo di produzione asiatico, Torino 1969, le osservazioni di U. Melotti, Marx e il terzo mondo, Milano, 1972, pp. 81 sgg., con ricca bibliografia. Da ultimo, si cfr. l’antologia, a cura di D. Giori, Sul modo di produzione asiatico, Milano, 1975, con scritti di J. Chesneaux, S. De Santis, S. Divitcioglu, M. Godelier, Nguyen Long Bich, C. Parain, J. Suret- Canale e E. Varga.
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momento particolarmente presenti agli studiosi italiani. Se è vero, com’è vero, che le più note ricostruzioni della storia economica e sociale del mondo antico — da Meyer a Weber a Rostovtzeff, Frank, Heichelheim etc. — risultano fondate su presupposti teorici dell’economia « classica » 107, è un duplice compito quello che si propone allora ai marxisti italiani: da un canto, analizzare il formarsi della storiografia moderna sull’economia antica, chiarendone i momenti nodali — come il dibattito metodologico impostato negli ultimi anni del secolo scorso e donde emerse vincitrice la linea Meyer-Rostovtzeff, con quella weberiana come mediatrice 108; dall’altro, affrontare in concreto la ricostruzione storica, ponendo in linea pregiudiziale il problema della specificità delle strutture economiche e sociali del mondo antico, del loro reale funzionamento, del loro costituirsi in un sistema più o meno coerente — creare, in breve, un’« economia politica » del mondo antico, nell’eccezione specifica, marxiana, del termine, nel senso cioè usato da Marx nella sua Critica dell'economia politica; un tentativo, in altri termini, di cogliere la logica specifica dello sviluppo della formazione economico-sociale antica.
È questo il compito che si impone prioritariamente agli studiosi marxisti dell’antichità. È in realtà impossibile comprendere l’evoluzione stessa del mondo antico, la presenza di certe forme di lotta politico-sociale ad esso specifiche, senza elaborarne in maniera concomitante le basi di un’economia politica che ne proponga i quadri indispensabili109. Di ciò sono consapevoli i marxisti italiani ed in questo compito intendono assumersi un ruolo primario: poiché questa economia politica non si può definire all’infuori delle prospettive marxiste, dal momento che, tutto sommato, le ricostruzioni finora prospettate risultano fondate sull’applicazione estrinseca di categorie economiche desunte dall’economia politica moderna, dal riferire meccanicamente nell’antichità le analisi, compiute sul capitalismo moderno, non da un’analisi economica specifica al mondo antico.
Tutto ciò comporta ovviamente un impegno teorico sulle categorie marxiane di modo di produzione, di rapporti sociali di produzione, di formazione economico-sociale, e dei problemi della « transizione ». Com’è stato giustamente detto, la storia, per un marxista, è essenzialmente storia delle rotture e delle transizioni — uno dei motivi della freddezza con cui è stato accolto il quadro dell’economia antica proposto da Finley sta indubbiamente nella sua sostanziale staticità, come ha acutamente colto
107 Mi si permetta di rimandare alla mia Introduzione alla traduzione italiana di F. M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, Bari, 1972, pp. IX sgg, pp. XXI sgg.
108 M. Mazza, Introduzione, cit., pp. XLIV sgg (e partic. n. 74). Sulle posizioni mediatrici di Weber, si cfr. particolarmente H. W. Pearson, The Secular Debate on Economie Primitivism in Polanyi-Arensberg-Pearson, Trade and Market in thè Early Empires, N.Y., 19652, pp. 3 sgg. (si cfr. anche E. Lepore, « Studi Barbaglio », cit., pp. 18 sgg e S.C. Humphreys, « Ann. Se. Norm. Sup. Pisa », 1970, pp. 1 sgg.).
109 P. Leveque, « La Nouv. Critique », 60, 1973, p. 29.
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M. W. Frederiksen 110, laddove nella sua apertura ai problemi della transizione sta l’interesse suscitato dall’importante lavoro di Witold Kula su la Teoria economica del sistema feudaleni. Nel quadro delle esigenze sopra enunciate può farsi rientrare la discussione, non nuova, ma di recente riaperta (da E. Terray, da M. Godelier, da J. Chesneaux, da Cl. Meillassoux e da altri) sul « modo di produzione asiatico ». Nei termini in cui è stata acutamente impostata da P. Vidal-Naquet112, tale discussione serve, tra l’altro, a differenziare le troppe facili interpretazioni del mondo antico come società schiavistica, come esclusivamente rientrante all’interno della categoria di « modo di produzione schiavistico ». Appunto da questo difetto di analisi teorica sembrano viziate parecchie delle ricerche compiute da studiosi dei paesi socialisti e, soprattutto, quelle dei loro oppositori nei paesi capitalistici — si pensi in primo luogo, alla scuola di J. Vogt e di F. Kiechle 113. Ma appare soprattutto importante, in ordine alla costruzione di una teoria marxista dell’economia antica, il dibattito recentemente riproposto da Emilio Sereni nelle pagine di « Critica marxista » 114, sulla categoria di « formazione econo-mico-sociale » (o più correttamente, di « formazione economica della società », « òkonomische Gesellschaftsformation », nella più matura terminologia marxiana) e su quella di « modo di produzione » in generale — dibattito ripreso dagli studiosi marxisti del CERM115 ed ancora in corso di svolgimento 116. Appare sempre più evidente che « modo di produzione » e « formazione economica della società » rappresentano due categorie fondamentali per una teoria marxista dell’economia antica e che la loro articolazione costituisce uno dei problemi fondamentali che tale teoria è chiamata a risolvere. Non è certamente necessario insistere ancora sull’importanza dei risultati teorici di questo dibattito; da un canto essi
110 M. W. Frederiksen, Theory, Evidence and thè Ancient Economy, « Journ. Rom. St. », 1975, pp. 165-171, partic. p. 168.
111 Trad. it. Torino, 1970. Per l’interesse suscitato, si cfr. il dibattito in « Quaderni storici », 21, 1972, pp. 735-780 (interventi di E. Grendi e di Lepore).
112 P. Vidal Naquet, « Annales ESC », 1964, pp. 531-549.
113 Si cfr., ex gratta, J. Vogt, Sklaverei u. Humanitàt, Wiesbaden, 1965 e il discorso La schiavitù antica nella storiografia moderna, « Quaderni Urb. di Cult. Class. », 1974, pp. 7 sgg., e F. Kiechle, Sklavenarbeit u. technischer Fortschritt im romischen Reich, Wiesbaden, 1969 (si cfr. le mie osservazioni nella Prefazione a E. M. Staer-man - M. K. Trofimova, La schiavitù nellTtalia imperiale, trad. it., Roma, 1975, pp. XXXI-XXXII).
114 Si cfr. E. Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria di «formazione economico-so-ciale », « Critica marxista », 1970, quaderno n. 4, Lenin teorico e dirigente rivoluzionario, pp. 27-79. Per l’indicazione degli interventi francesi cfr. supra, n. 67.
115 Cfr. «La Pensée» n. 159, 1971.
116 Cfr. soprattutto C. Luporini, Marx secondo Marx, in Dialettica e materialismo, Roma, 1974, pp. 213-294 (ma scritto 1972); V. Gerratana, Ricerche di storia del marxismo, Roma, 1972, pp. 297-336 (già pubblicato in « Critica marxista » 1972, pp. 44-80); G. La Grassa, Modo di produzione, rapporti di produzione e formazione economico-sociale in Struttura economica e società, Roma, 1973, pp. 25-51; Id., Sul concetto di «formazione sociale di transizione», in Valore e formazione sociale, Roma, 1975, pp. 195-234.
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rendono possibile un’indagine sulla specificità delle strutture socioeconomiche antiche, dall’altro giustificano i confronti tra varie formazioni eco-nomico-sociali in cui predomina un certo modo di produzione — come ad es. le società fondate sul modo di produzione asiatico. Appunto da tale dibattito ha preso le mosse un gruppo di studio sul modo di produzione schiavistico, inizialmente promosso da poche persone — Capogrossi Colognesi, Schiavone, Musti, Brutti, Torelli, Carandini, lo scrivente e qualche altro — che si riuniva privatamente, ma che in seguito, allargatosi notevolmente per la partecipazione di numerosi studiosi di varie discipline, è stato ospitato dall’Istituto Gramsci, presso il quale si è successivamente istituzionalizzato.
L’indagine sul modo di produzione schiavistico, sulla sua genesi, sulla sua struttura e sui meccanismi del suo funzionamento, infine sulla sua dissoluzione e trasformazione (sulla « transizione » ad un altro modo di produzione) — e particolarmente nell’Italia centro-meridionale dalla fine del III sec. a.C. agli inizi del III sec. d.C. — costituisce dunque uno dei temi fondamentali di ricerca per gli studiosi marxisti italiani. Questo — che come abbiamo detto — costituisce un fondamentale problema per la costituzione di un’« economia politica » marxista del mondo antico — è ben diverso dal riconoscimento di elementi schiavili nella società antica greco-romana — o piu precisamente, nella formazione economico-sociale greco-romana. In realtà, c’è schiavitù e schiavitù, all’interno della società classica, ed in genere antica: c’è infatti la condizione del porcaro Eumeo, nella società patriarcale rappresentata nei poemi omerici, c’è la condizione disumana dei lavoratori degli ergastula, nelle proprietà a conduzione schiavile dell’età imperiale, quale si coglie in Columella. Ma anche dal punto di vista della teoria economica non sono la stessa cosa; la loro funzione, in linea teorica, è economicamente diversa. Diventa allora necessario proporsi domande come queste: come si è passati dalla schiavitù di tipo patriarcale alla schiavitù di massa? In quali zone si è realizzata quella schiavità di tipo « classico », che corrisponde allo stadio di pieno sviluppo dell’economia schiavile? Quali sono i rapporti che intercorrono tra l’imperialismo romano e lo sviluppo di uno schiavismo di massa — in breve, del modo di produzione schiavistico? Come si strutturano i rapporti di produzione in una società schiavistica? Come « funziona » il modo di produzione schiavistico? Quali sono i rapporti tra modo di produzione schiavistico « dominante », e i modi di produzione « residui » nell’ambito crono-geografico in cui esso si è costituito? E, correlativamente, qual è la trasformazione delle forme ideali, le dinamiche strutturali all’interno della cultura del blocco sociale egemone? Qual è la diffusione ed il reale ruolo economico della schiavitù nelle province delVimperium romanum? Quali infine furono le forze che condussero alla dissoluzione del modo di produzione schiavistico e come avvenne la transizione ad altri modi di produzione — e particolarmente, a quello feudale?
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Questi alcuni dei tanti interrogativi che, nel campo della storia antica, si pone la ricerca storica marxista in Italia. Alcuni di essi sono già stati posti da molto tempo, ma non si è saputo ancora darvi risposta. Altri sono nuovi: dalla ricerca seria e senza pregiudizi ideologici potranno avere risposta. Altri quesiti si aggiungeranno, nel corso dell’indagine, o si modificheranno L vecchi. Non importa; già nel titolo di un fondamentale saggio, Pierre Vilar ammonisce: « storia marxista, storia in costruzione » 117. Da evitare è sempre il dogmatismo — come anche l’empiria senza progetto, che accumula mattoni senza riuscire ad immaginarsi l’edificio per cui servono. Ricerca e teoria, per lo studioso marxista, devono procedere inscindibilmente uniti: non si può, né si deve perdere questo nesso, nella concreta ricerca storica. Né cieco empirismo, né astratto teoreticismo; per riprendere ancora Vilar: « Ad ogni livello la storia marxista è da fare, e si tratta della storia e basta » 118.
117 P. Vilar, Histoire marxiste, histoire en construction. Essai de dialogue avec Althusser, « Annales ESC », 1973, pp. 165 198 [tradotto in italiano in F. Braudel, a cura di, Problemi di metodo storico, Bari, 1973, pp. 546-602, donde si cita].
“* P. Vilar, 1. c., p. 602.