IMPRENDITORI E IMPRESE NELLA STORIOGRAFIA ECONOMICA FRANCESE

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Title
IMPRENDITORI E IMPRESE NELLA STORIOGRAFIA ECONOMICA FRANCESE
Creator
Aurelio Alaimo
Date Issued
1982-08-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
17
issue
50
page start
652
page end
676
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Rights
Quaderni storici © 1982 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20231101115927/https://www.jstor.org/stable/43777074?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1982%26ed%3D1982%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A4ceec478fffcf630d355d0dde57eba7c
Subject
Marx and Marxism
power
extracted text
IMPRENDITORI E IMPRESE
NELLA STORIOGRAFIA ECONOMICA FRANCESE
Aurelio Alaimo
Il patronat francese è stato maltusiano? Questo interrogativo dà il titolo ad una conferenza tenuta da Maurice Lévy-Leboyer nel 1973, all’Università John Hopkins di Baltimora ^ esso indica l’esigenza di confrontarsi con una nozione centrale della storiografia francese, quel maltusianismo economico che nel ventennio precedente costituisce una chiave di lettura delle vicende economiche della Francia. L’espressione «malthusianisme économique» è ambigua: «Si tratta in linee generali — scrive nel 1967 un convinto sostenitore di questo tipo di lettura, Alfred Sauvy — di ogni azione positiva che abbia lo scopo di distruggere o di limitare la produzione»2. L’ampiezza della definizione permette di includervi un vasto insieme di pratiche economiche: il protezionismo, l’aumento concertato dei prezzi, il timore del progresso tecnico, la cartellizzazione, le intese che hanno l’obiettivo di ridurre una produzione eccedente, sono considerati come alcune delle (errate) risposte maltusiane al problema di un livello dei consumi basso e irregolare.
La lettura della storia economica francese in termini di maltusianismo prende spunto dalla crisi degli anni ’30 e coinvolge nelle sue valutazioni negative le politiche economiche dei diversi governi, le strategie imprenditoriali, le opinioni di economisti e giornalisti. Ma queste valutazioni vanno oltre i ristretti confini di una storia economica della grande crisi, si fanno senso comune, esprimono una più diffusa convinzione sul comportamento troppo prudente di imprenditori e uomini politici poco avvezzi ai rischi e ai dinamismo dell’economia di mercato. È contro questa convinzione che sono dirette la conferenza di Lévy-Laboyer e una sua dettagliata ricerca sul patronat del XX secolo, apparsa qualche anno dopo3. Due lunghi articoli, due punti di riferimento per chi voglia riflettere sulle ricerche di storia imprenditoriale com-OUADERNI STORICI 50 / a. XVII, n. 2, agosto 1982




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piute in Francia negli ultimi anni. Il loro interesse risiede, tra le altre ragioni, nel fatto che entrambi affrontano questioni di vasto respiro, prendendo le mosse da singolle ricerche o cercando di stimolarne di nuove. L'obiettivo di fondo consiste proprio nel rispondere alla domanda liminare sul maltusianismo padronale, motivando con dati empirici la prevedibile risposta negativa.
Il primo dei due saggi, ai nostri fini il più importante, concerne soprattutto il XIX secolo. Lévy-Leboyer compie preliminarmente un rapido excursus storico sulle critiche tradizionalmente rivolte agli imprenditori e sulle loro motivazioni; quindi si impegna a smentire questo tipo di analisi indicando tre direzioni da percorrere. Anzitutto esorta a riconsiderare «les procedures patronales de gestion»: ciò alla luce di quei dati quantitativi di lungo periodo dai quali, al contrario di ciò che affermano i sostenitori del «ritardo» francese, esce un’immagine soddisfacente dello sviluppo economico. Successivamente mostra con alcuni esempi che la dimensione d’impresa non è sempre il criterio decisivo dell’efficacia. Infine indica quel tema che, mutuato dalla psicologia delle organizzazioni, costituisce il motivo ricorrente delle sue ricerche: la convinzione che modalità di gestione e dimensione d’impresa sono definite in larga misura dalle condizioni esterne all’impresa, sono tributarie dell'environnement4. L’approfondimento di questi punti conduce ad ima precisa conclusione: la struttura dualistica dell’economia francese, cioè quella divisione tra piccole e grandi imprese la cui formazione viene individuata alla fine del secolo scorso, si spiega in quanto forma di adattamento alle specifiche condizioni della tecnologia e del mercato, non sulla base di una politica imprenditoriale statica e poco aggressiva. Questa struttura è compatibile con quel rinnovamento di uomini e mentalità che avrebbe cominciato ad avviarsi dopo il 1860: rinnovamento che ha permesso agli imprenditori di dare un efficace contributo alla crescita economica5.
Le riflessioni di Lévy-Leboyer poggiano su ricerche e documentazioni già esistenti, più che su un’elaborazione originale. Questo elemento mi sembra importante perché accentua il valore «revisionista» che assumono le sue posizioni non soltanto rispetto alle ipotesi sul maltusianismo, ma anche rispetto a quelle concezioni della storiografia economica anglosassone centrate sull'idea di un «ritardo» dello sviluppo economico francese6. Il revisionismo programmatico della riflessione d’insieme prende corpo qualche anno dopo nella ricerca specifica sugli imprenditori del XX secolo. L’obiettivo di questa ricerca sembra essere prima di tutto negativo: «Il problema posto era quello dell’immobilità



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sociale, del non rinnovamento del patronat, malgrado i progressi della grande industria. Questa ipotesi non regge»7. Ciò che viene mostrata, per contro, è l’importanza crescente assunta in questo secolo dalle qualità individuali e dall'esperienza dei dirigenti, più che dall’appartenenza a un gruppo sociale. Questo mutamento è reso necessario dalia stessa riorganizzazione del mercato all'inizio del secolo. Lévy-Leboyer prende in esame soprattutto caratteristiche sociali e profili biografici degli imprenditori, con imo studio molto accurato sui cui dettagli non è il caso di soffermarsi. Il lavoro sulle fonti è molto approfondito; l'autore ha ritenuto necessario fare un importante sforzo per ridefinire il materiale stesso sul quale lavorare, in una sorta di primo bilancio che vuol chiudere definitivamente con le vecchie impostazioni e indicare le nuove strade8.
Alcuni dei temi incontrati finora si ritrovano anche in qualche ricerca di impianto sociologico, politico o giornalistico9. Questi lavori ci allontanano molto dagli obiettivi di una riflessione interessata in modo particolare alla storiografia economica; ma bisogna almeno notare che uno dei più importanti studi sull'imprenditorialità francese del XIX secolo appartiene al gruppo degli studi sociologici ed è stato portato a termine da un sociologo italiano, Alberto Melucci10. L'oggetto della sua ricerca, che abbraccia il periodo 1830-1914, è dato dall'ideologia imprenditoriale analizzata attraverso una gran mole di fonti (documenti e periodici associativi, scritti e discorsi padronali, dizionari biografici, ecc.). L'obiettivo è interamente sociologico: un tentativo di elaborare «un modello generale di interpretazione dell'ideologia padronale come ideologia di classe»11.
Questi elementi assegnano alla ricerca di Melucci una posizione particolare nel panorama francese. La sua approfondita analisi, che utilizza le categorie elaborate da Alain Touraine, poggia al contempo su una documentazione d'epoca di grande interesse e, quel che più conta, finora trascurata dalla storiografia specificamente economica. Certo, quegli aspetti della ricerca di Melucci che più strettamente riguardano la storia economica suscitano molte perplessità, perché ripropongono in modo acritico e un po' moralistico alcune valutazioni negative che già avevano caratterizzato le ricerche anglosassoni. Le prime parti riprendono ad esempio la vecchia immagine di un patronat individualista, socialmente isolato, legato aH'impresa familiare; o ancora, le pagine dedicate al protezionismo insistono sulla visione monolitica della convergenza tra ceti agrari ed industriali e liquidano così i trent'anni di libero scambio del Secondo Impero




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come una parentesi, una semplice «incrinatura» nel blocco degli interessi padronali12. Tuttavia, anche se questi aspetti possono contribuire a spiegare il debole impatto che il lavoro ha avuto tra gli storici, non devono far trascurare la grande quantità di informazioni che troviamo sui conflitti tra ingegneri e padroni, sul potere padronale in fabbrica, sulla razionalità tecnica e la resistenza alle innovazioni. Il lavoro di Melucci resta in definitiva, malgrado l'interesse per l'ideologia, l'unico tentativo di una riconsiderazione complessiva delle «pratiche» padronali nella prima fase dello sviluppo industriale francese.
Su questo terreno (imprenditori e industrializzazione), insieme a Melucci si possono rilevare poche interessanti eccezioni. Fa storia a sé l'importante thèse di Pierre Cayez, interamente dedicata all'industrializzazione di Lione: qui importa ricordarla perché la sua analisi è impostata proprio sul tema della decisione imprenditoriale («Qui investit, pergoit, décide?»)13. Sul piano delle sintesi d'insieme, bisogna invece ricordare un utile e ricchissimo volumetto di Louis Bergeron e alcune parti di un lavoro altrettanto interessante ma assai anteriore di Guy Palmade14. Queste sintesi di storia imprenditoriale ci danno un utile panorama degli studi esistenti e ci aiutano così a capire quali sono le questioni più importanti affrontate dalla ricerca storica. A questo scopo, Bergeron e Palmade utilizzano tra l'altro alcune preziose ricerche, compiute negli anni '50, che studiano un caso regionale o l'evoluzione di famiglie e dinastie industriali nel XIX secolo. Si tratta quasi sempre dei frutti di un impegno isolato, privi di unità di intenti e metodologie: il terreno comune è dato dall'aver privilegiato come oggetto della ricerca l'impresa familiare del settore tessile, cioè di quel settore in cui la struttura industriale permette e favorisce ima capillare frammentazione dell'imprenditorialità « minore ».
Questa scelta ha reso necessario affrontare imo degli aspetti di un problema centrale per la comprensione di un processo di industrializzazione: il classico problema che Marx già definiva, seppure con altri riferimenti cronologici, «genesi del capitalista industriale»; che diventa, più in particolare, il problema delle «due vie» attraverso cui può effettuarsi il passaggio al capitalismo industriale (anche se l'ispirazione di quegli storici aveva ben poco di marxiano...)15. Si veda la ricerca di Francois Dornic sull'attività della famiglia Cohin: vi si ritrova un classico esempio del passaggio da un'attività commerciale alla produzione, attraverso rincontro del négociant e déll’usinier. Nell'impresa che si viene così a formare, Dornic individua un tipo di fabbricazione,



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dominato dal capitale commerciale, che si pone a metà tra l'antico lavoro a domicilio e la fabbrica moderna16. Dall'esempio alla sintesi: negli stessi anni Claude Fohlen introduce la sua nota thèse con un tentativo di visione d'insieme sul patronat tessile del Secondo Impero, sulla varietà delle sue origini e l'omogeneità di alcune sue caratteristiche17.
Questo negli anni '50; in questi ultimi anni, l'atomizzazione e rindividualismo presenti nelle piccole imprese tessili sembrano suscitare una ben minare attrazione. È certamente vero che il piccolo imprenditore e il suo originario capitale commerciale non esauriscono il problema della genesi del capitalista industriale, specie quando cominciano ad entrare in gioco nello sviluppo industriale anche altri settori. Tuttavia il problema del vecchio négociant, della destinazione del suo capitale, presenta il grande interesse di quei nodi storiografici in cui si incrociano questioni sociali, economiche, antropologiche. Bergeron ne mostra con chiarezza i termini, e vaie la pena di riportare per intero la citazione, quando parla delle strutture sociali del capitalismo francese: «ima solida armatura di négociants [...] si trova preparata ad accogliere i nuovi sviluppi dell'economia industriale e bancaria, o ad assicurare la modernizzazione delle industrie rurali disperse nella fase in cui possono ancora resistere alla concentrazione. Alle porte della crescita moderna questo tipo di capitalismo è, davvero, Janus bifrons. Ci si può aspettare, secondo i casi, di vederlo fuggire verso la società rentière e aristocratizzarsi o, all'inverso, fondare le dinastie della rivoluzione industriale secondo il modello francese della diffusione larga e della frammentarietà del capitale e dell'impresa» 18.
A questo irrisolto problema storiografico occorre aggiungere un risvolto teorico non irrilevante. Credo che in questa occasione si possa evitare la delicata questione terminologica e assumere, tacitamente e per comodità empirica, la definizione di imprenditore in quanto decision-maker19. Ma il problema si pone diversamente quando si parla di una fase di industrializzazione: in questo contesto l'imprenditore è tale prima di tutto perché intraprende un'attività economica, nel nostro caso industriale; la crea. Ciò non significa necessariamente che si debba far discendere, dalla constatazione di un dato formale, l'accettazione della concezione schumpeteriana nella quale l'imprenditore appare come il motore dello sviluppo economico. Resta però da compiere l'analisi del ruolo della «componente imprenditoriale con i suoi margini di iniziativa, di scelte, di capacità di sfruttamento delle occasioni» 2°; quel tipo di analisi che anche in Francia, come nella




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situazione italiana cui si riferiva Cafagna, incontra scarso successo.
Questa carenza di ricerche francesi sull'imprenditorialità riguarda pure le fasi successive allo sviluppo industriale del XIX secolo, quando le questioni da affrontare e i personaggi mutano radicalmente. Il problema anzi si approfondisce, per la tradizionale reticenza della storiografia francese a studiare i periodi più recenti. Anche qui bisogna parlare più che altro di eccezioni. Le ricerche di Aimée Moutet sulla diffusione del taylorismo e sulla razionalizzazione nell'industria francese prima e dopo la guerra mondiale21, si inseriscono all'interno di ima riflessione che abbraccia in realtà un periodo più ampio. L'avvio di una profonda trasformazione dell'industria francese si può far datare dagli anni successivi al 1880; a cavallo dei due secoli matura così un mutamento basato su un nuovo sviluppo dell’innovazione tecnologica e sulla razionalizzazione organizzativa22. La ricerca storica mostra il ruolo centrale giocato dalla nuova figura degli ingegneri; questi, secondo Aimée Moutet, forti della veste oggettiva e scientista data al loro sapere tecnico, riescono ad imporre i propri sistemi sia agli operai, sia ai dirigenti ancora legati ai vecchi metodi23.
Ci troviamo così di fronte ad un’importante modificazione delle strategie e delle figure imprenditoriali (non più i vecchi patrons isolati, ma gruppi dirigenti), che meriterebbe di essere meglio analizzata inquadrandola all’interno di ciò che avviene nello stesso periodo in tutti i paesi industrializzati. Neil secondo degli articoli qui citati, Aimée Moutet indica alcuni aspetti di questa modificazione propri alla specifica esperienza francese di razionalizzazione. Di particolare interesse sono le considerazioni intorno alla confusione diffusa tra gli imprenditori in materia di organizzazione della produzione: Aimée Moutet mostra che il problema essenziale, pure per quegli imprenditori maggiormente sensibili alle innovazioni del taylorismo e del fordismo, è quello della crescita della produttività. La «razionalizzazione» finisce così per identificarsi con la meccanizzazione e con la diffusione di nuovi procedimenti produttivi; l’organizzazione d’impresa sembra ridursi ad un puro problema di produttività delle macchine e della forza lavoro24.
Le osservazioni di Aimée Moutet rinviano ad una più generale riflessione sulla politica imprenditoriale. Secondo le concordi affermazioni dei più ampi fra i lavori finora ricordati, la politica nei riguardi della forza lavoro costituisce costantemente una delle più importanti preoccupazioni imprenditoriali, almeno a



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partire dal periodo successivo al Secondo Impero25. Politiche sociali e meccanismi di controllo e sorveglianza si alternano o si intrecciano, dando luogo a forme di potere tra loro molto diverse ma accomunate quasi sempre dalla copertura di un paternalismo di fondo; questo atteggiamento paternalista caratterizza in vario modo le relazioni industriali di molte imprese francesi almeno fino al secondo dopoguerra26. Ciò contribuisce ad alimentale un interesse specifico della ricerca storica per l'analisi dei diversi aspetti del potere padronale: intorno a questi problemi si sviluppa così quel che è forse Punico gruppo di ricerche di storia imprenditoriale caratterizzate da un minimo di omogeneità27.
Abbandonato questo terreno, il quadro conferma e accentua la sua frammentarietà. Pochi altri studi sono frutto di interessi diversi, talvolta attratti dalla singolarità di figure imprenditoriali di spicco, più che da una considerazione deH’imprenditore in quanto capo d'impresa. Penso in particolare all'interesse politico che presentano figure come Ernest Mercier e Auguste Detoeuf aH’interno di ima riflessione sulla tecnocrazia francese tra le due guerre 28. Oppure vi sono alcuni tentativi di organizzare progetti e lavori isolati in un'ispirazione di fondo unitaria. È forse il caso del Cahier dedicato agli imprenditori della seconda industrializzazione, già citato all’inizio. L'impressione che si trae dalla sua lettura, prescindendo dall'indubbia ricchezza dei contributi singolarmente considerati, è quella di una frammentarietà delle ricerche ricomposta soltanto dalla esteriorità di una tavola rotonda.
Tuttavia alcune problematiche comuni, anche se non costituiscono un tessuto unitario, sono individuabili in quei lavori che affrontano il classico tema del rapporto tra proprietà e direzione dell’impresa. Le questioni già indicate nelle ricerche sulla «razionalizzazione» sono qui riprese in forma già più organica. Il mutamento del sistema industriale, quel che si è convenuto chiamare la seconda rivoluzione industriale, procede di pari passo con il mutare della struttura d'impresa e con lo svilupparsi di carriere dirigenziali non legate alla proprietà del capitale. È il momento del distacco idelVargent dal pouvoir, quindi della ripartizione di quest’ultimo all’interno di una nuova struttura di direzione29; gli ingegneri diventano a volte patrons, i grands commis di Stato passano a dirigere le società anonime30. La ricerca di Pierre Lanthier31 ci mostra questa dinamica all’interno di una struttura industriale esemplare, la grande industria elettrica, in cui il dinamismo delle imprese e, al loro interno, un potere decisionale sempre più legato ad una legittimazione di origine tecnica, sembrano porsi in ideale contrasto con l’impresa




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familiare del settore tessile e della piccola dimensione32.
Dall'insieme di queste considerazioni si può dedurre, con legittimità ma non senza essere attratti dal gusto di ima lieve provocazione, che in realtà in Francia la storia imprenditoriale non esiste.
Le riflessioni di queste pagine, come fossero di una tavola rotonda, danno dunque un nome e una fittizia unità a parti staccate le une dalle altre. Questa situazione frammentaria la si individua meglio quando, esaurite o quasi le possibilità di una rassegna dai confini delimitati, si scopre che nelle ricerche storiche francesi ci sono ancora molte notizie e interpretazioni sugli imprenditori. Solo bisogna individuarle, o addirittura enuclearle, all'interno di ponderose e accurate storie d'impresa. Individuarle, anzitutto: ogni monografia d'impresa ha i suoi nutriti capitoli dedicati al patronat. Più spesso enuclearle: del patronat si parla anche, ma non lo si definisce mai; spesso non se ne indicano neanche i caratteri esteriori.
Per parlare della storia d'impresa in Francia bisogna fare almeno un cenno all'attività di Bertrand Gille e del Centre des recherches sur l'histoire des entreprises, da lui diretto. Tra il 1958 e il 1963 escono i dodici fascicoli della rivista pubblicata dal Centre, «Histoire des entreprises», che fa seguito con mezzi più adeguati alla diffusione di un bollettino ciclostilato.
L'attività svolta da questa rivista è significativa: vi si trovano ricerche molto specializzate, note documentarie, resoconti bibliografici, elencazioni di fonti disponibili. La sua austera e puntuale apparizione, riconsiderata a venti anni di distanza, sembra porre le basi per alcuni successivi sviluppi della storiografia economica francese. Non si tratta solo di notare il contributo, decisivo per la sua esistenza materiale, della nota «VI section de l'Ecole pratique», un legame che testimonia già in quegli anni la crescente importanza della storia d'impresa; né di limitarsi ad individuare il nesso, pure importante, tra le indicazioni tecniche e metodologiche che appaiono in quegli anni e le vaste ricerche portate a termine nei due decenni successivi. Nella pacatezza di quelle pagine si trova dell'altro, il tentativo di sviluppare una branca specializzata che possa portare un suo specifico contributo alla «totalità» del seriale e creare un legame con le analoghe esperienze americane ed europee. Questi elementi si ritrovano in ima nota dell'ultimo numero della rivista, quando Bertrand Gille ne spiega la chiusura richiamando l'analoga decisione degli «storici di Harvard» e abbozzando un bilancio globalmente positivo33.



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Al di là di questa specifica esperienza, lo sviluppo autonomo della storia d'impresa in Francia matura più in generale attraverso l’innestarsi di un’esigenza di rinnovamento su una tradizione storiografica ormai salda e strutturata. La tradizione di Simiand, di Labrousse, della storia seriale, è esaltata nel suo aspetto più lato di approccio scientifico al passato; si insiste sul rigore della ricerca, sulla sistematicità e l’esaustività dello spoglio d’archivi, su un empirismo rigoroso polemico col vecchio empirismo aneddotico. Gli storici della «jeune école» vogliono utilizzare gli strumenti già collaudati su materiali ancora non conosciuti e sotto gli stimoli di nuovi interessi e suggestioni34.
Negli anni ’60 queste istanze di rinnovamento si incontrano con una più generale revisione di contenuti della storiografia economica. L’espansione economica e il mutamento delle strutture sociali spingono gli storici francesi a rivedere la lettura del proprio passato. L’obiettivo, come si è già visto a proposito di alcune ricerche sul patronat, è quello di scrollarsi di dosso l’immagine stagnante e maltusiana dell’economia francese. Si affinano al contempo gli strumenti d’analisi; alla storia quantitativa degli economisti diretti da Marczewski si affiancano le sofisticate ricerche di Crouzet e Lévy-Leboyer35. La pubblicazione degli ultimi volumi dell’Histoire économique et sociale, alla fine degli anni ’70, costituisce la prima ampia sintesi di questo mutamento 36.
Gli storici d’impresa si inseriscono a pieno titolo in questa corrente. Le monografie apparse negli ultimi quindici anni privilegiano la grande dimensione, i settori industriali più avanzati, gli esempi di imprese di successo. Non più il tessile, i legami con la campagna, l’ottocentesco patronat familiare; compaiono sulla scena il carbone e l’automobile, i problemi della grande impresa, il dinamismo di manager e ingegneri. Questo mutamento spinge necessariamente a spostarsi in avanti nel tempo: dal vapore alTelettricità, il XX secolo comincia a suscitare i primi interessi. Allo storico d’oggi, scrive Fridenson nell’introduzione alla sua monografia, la Francia «sembra impegnata in una crescita di lungo respiro [...] Egli ne scopre le condizioni favorevoli già alla fine degli anni successivi al 1880 [«des années 1880»]. Si tratta allora di cercare come si sono sviluppate in Francia delle industrie nuove che traevano vantaggio dal nostro potenziale umano e perché la trasformazione dell’economia avviata sotto il loro impulso non è andata più oltre prima del 1945»37.
Nell’introduzione di Fridenson, che utilizzo largamente perché ha il pregio di presentare in forma chiara ed esplicita l’ispirazio-




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ne di fondo sottostante alle ricerche in questione, si accenna ad un altro nodo delle storie d’impresa, cioè al problema della legittimità di un approccio monografico. Qual è il senso di una monografia d’impresa in tempi di histoire serielle e new economie history? E soprattutto: come conciliare l’ambizioso intento di revisione storiografica con la parzialità di una storia d'impresa? La risposta di Fridenson richiama anzitutto la difficoltà di reperimento delle fonti per dichiarare l’impossibilità, almeno per il momento, di ima storia globale sull'industria deH’automobile in Francia. Quindi esalta in positivo l'esemplarità di un’impresa come la Renault, l’importanza e la continuità della sua attività, la possibilità di servirsi di studi anteriori e di fonti incostanti ma ricche e accessibili al ricercatore38.
Ricerca della rappresentatività del caso, dunque, e di un ampio corpus di fonti disponibili, si aggiungono a completare questo rapido schizzo sulle recenti storie d’impresa in Francia. In questi dettagliati lavori, quasi sempre delle thèses d'Etat, in questi mattoni da cinquecento pagine in su (l'espressione è di Le Roy Ladurie39, ci si può quindi permettere il lusso di essere irriverenti col consenso del principe...), forse si aggirano un po’ sperduti quei patrons e quei decision-makers che non abbiamo trovato altrove. Si tratta di capire qual è l’approccio di queste ricerche alla tematica imprenditoriale. Più in particolare, vedere come viene affrontato il rapporto tra l’organizzazione interna d’impresa, la sua strategia, l'ambiente esterno, lasciando da parte in questa occasione le tante altre questioni affrontate in queste monografie.
Da questo punto di vista, una ricerca esemplare (rappresentativa, appunto...), è quella di Francois Caron sulla Compagnie du chemin de fer du Nord40. La Compagnie era una grande impresa di servizi; le sue vicende, dalla concessione del 1845 fino alla nazionalizzazione del 1937, sono strettamente legate all'azione dei poteri pubblici. Malgrado questa sua specificità, la ricerca sui problemi dell'organizzazione e della strategia imprenditoriale ha per noi una grande importanza, perché l'approccio utilizzato in questa analisi sembra generalizzabile ad altri settori. La riflessione su questo particolare approccio, inoltre, trae valore dall'importanza stessa della monografia di Caron: si tratta di una ricostruzione attenta e dettagliata della vita di una grande impresa, esplicitamente presentata nella sua parzialità, pur esemplare, nei meandri della sua azione quotidiana. Insomma, un punto di riferimento per il lavoro degli storici d'impresa41.
L’impostazione di fondo della ricerca sembra semplice:



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«Scrivere la storia di un'impresa, significa anzitutto fare la storia dei suoi costi. Il vero patron è colui che è capace di modificarli» 42. D'altra parte, secondo Caron, le decisioni dei gérants sui costi sono prese sotto la pressione di fattori esterni (prezzi e salari) e di dati interni; i fattori esterni influenzano indirettamente le decisioni imprenditoriali sulla ripartizione delle spese e la struttura del capitale43.
Nell'esposizione cronologica delle vicende della Compagnie, questo tipo di analisi è accompagnato dalla descrizione delle modalità di gestione, soprattutto per ciò che riguarda la ripartizione del potere all'interno dell'impresa. Lo schema è lineare nelle pagine dedicate al «systèrne d'exploitation intensive», sviluppatosi a cavallo dei due secoli44; ritorna poi lungo tutta la ricerca, riempito sempre dallo stesso impressionante carico di fatti, notizie, dettagli. Abbiamo dunque molte informazioni sulla struttura organizzativa della Compagnie e sulle sue modificazioni, una storia dell'organizzazione interna che costituisce quasi ima ricerca nella ricerca45. Sullo sfondo, vi sono ricorrenti considerazioni sull'empirismo che caratterizza i metodi di direzione della Compagnie almeno fino alla fine del secolo; e d'altra parte sull'assenza, in quel periodo, di ima vera e propria scienza dell'organizzazione con la quale affrontare i problemi interni46.
Questi elementi, secondo le indicazioni della classica ricerca di Alfred Chandler 47, definiscono la struttura dell'impresa. Fissato questo quadro empirico, e data l'ipotesi preliminare sulla centralità dell'obiettivo riduzione dei costi48, parlare della strategia significa semplicemente descrivere (ancora ima volta «descrivere») il modo in cui il gruppo dirigente ha tentato di raggiungere quest'obiettivo. La strategia non può che essere questa, allo storico il compito di indicarne le articolazioni: «i dirigenti e gli ingegneri vivono nel breve termine e pensano nel medio termine. Bisognava seguire i meandri della loro azione, benché la nostra preoccupazione essenziale fosse di individuare degli orientamenti generali» 49.
La dimensione in cui si situa questo quadro concettuale è sempre e volutamente aziendale. Ciò ha spinto Jean Bouvier a contestare la legittimità di una definizione di razionalità (concetto chiave, egli afferma, della ricerca di Caron) tutta impostata in termini microeconomici. Può esistere, secondo Bouvier, una diversa razionalità che poggi su esigenze non economiche, incompatibili con quelle di ima grande impresa; tanto più nel caso dell'attività economica di im'impresa ferroviaria, che di per sé ha natura di servizio pubblico 50. Caron ha risposto a questa




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obiezione riprendendo il classico tema defila vendita di un bene al suo costo marginale: «penso — egli scrive — che questa decisione è “razionale”, qualunque sia il sistema di valori sociali al quale si pretende sottomettere l'economia»51.
Questa affermazione contribuisce a chiarire ulteriormente i presupposti della sua ricerca: la razionalità aziendale viene considerata come ab-soluta, sciolta da ogni contingenza. Storia di un'impresa e storia della gestione d'impresa coincidono, non potendosi dare alternative (cioè tipologie imprenditoriali che non siano puramente sociologiche), all'interno di una concezione che ammette ima sola possibile risposta52. La decisione imprenditoriale, in quanto tale, è certamente razionale. Questa convinzione fa sì, paradossalmente, che la tematica decisionale scompaia dall'orizzonte della storiografia economica. Resta al ricercatore il compito di parlare del rammarico, che lo storico di sane tradizioni sostanzia di prove e di fatti, per l'irruzione sulla scena dell'«irra-zionalità» dell'intervento statale; quest'ultimo gli appare invischiato in una contraddizione insormontabile che oppone le esigenze economiche e la volontà politica di una protezione sociale53.
Mi sono dilungato su questa monografia perché è tra i prodotti più importanti della «recente corrente storiografica». A questa corrente si riferisce esplicitamente la thèse de troisième cycle di Patrick FridensonM. La sua monografia pone la storia di Louis Renault e delle sue usines in ima prospettiva più ampia, quella di una svolta complessiva in direzione della grande impresa avviata dalla componente più dinamica del capitalismo francese. La grande dimensione è considerata come una sorta di «innovazione» introdotta da Renault. L'insistenza sull'importanza di questa innovazione, le ripetute osservazioni sul fatto che la scelta si è rivelata vincente, costituiscono il filo conduttore della ricerca. Sullo sfondo di questo «tournant», Fridenson formula l'ipotesi di un'industria francese limitata nel suo sviluppo da un livello della domanda basso e incostante55. Questo discorso di fondo si articola attraverso un'interessante analisi specifica della impresa Renault, in parte influenzata dalle opere di Alfred Chandler e dunque attenta al rapporto tra strategia e struttura organizzativa ^
Se l'approccio chandleriano sembra essere l'opzione di metodo, ai nostri fini è importante rilevare dove e perché Fridenson se ne discosta; in questo scostamento è possibile individuare una specificità della sua analisi sull'imprenditore. La critica a Chandler è impostata prendendo spunto da una recensione americana al suo «grand livre»: «in tempi di espansione del mercato molte



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ditte prosperarono notevolmente nonostante la loro struttura amministrativa in qualche modo irrazionale». «La storia della Renault negli anni '20 — conclude Fridenson — giustifica completamente questa affermazione. Con una gestione che non potrebbe essere più empirica, la S.A.U.R. conosce una grande prosperità»57. L'individuazione di questo intreccio mostra che al fondo il problema dello storico della Renault non è quello, classicamente chandleriano, di far discendere l'organizzazione d'impresa dalla sua politica, ciò che porterebbe alla contraddizione di un'espansione ottenuta senza riorganizzazione58. In questo caso si tratta piuttosto di cogliere alcune interazioni tra i due insiemi; o di individuare, specularmente, una loro (relativa) autonomia. Questo avviene, ad esempio, nelle pagine dedicate all'analisi comparata delle strategie delia Renault e della Citroen, in cui viene individuata una struttura analoga per due strategie divergenti59.
L'imprenditore in cui si è imbattuto Fridenson è un autocrate, un monarca che al massimo può porsi il problema di accettare in tempi duri una monarchia costituzionale. Lo storico d'impresa si trova di fronte al paradosso di studiare una grande impresa che in tempi di organizzazione divisionale viene gestita in modo autocratico: più in generale, passando dal terreno gestionale a quello del sistema economico, gli occorre spiegare «il paradosso francese del passaggio alla grande impresa nell'automobile senza modificazione delle strutture fondamentali del paese»60.
Arduo compito, tanto più importante (e affascinante) quando si pensi che certo non caratterizza soltanto il settore dell'automobile. È lo stesso compito di fronte al quale si è trovato Alain Baudant, nella thèse d’Etat su Pont-à-Mousson, recentemente pubblicata61. Per Baudant la presenza dell'autocrate di turno è quasi un 'ossessione: il sottotitolo ne precisa con distacco i termini, Strategie industriali di una dinastia lorenese; un ritratto riprodotto nelle ultime pagine le dà corpo e le fa assumere la figura decisa e sorridente di Camille Cavallier.
Cavallier entra nell’impresa nel 1874, col compito di curarne l’espansione commerciale. In quegli anni il direttore della fabbrica, Xavier Rogé, impone la decisione che segna a lungo termine l’attività di Pont-à-Mousson, costruire principalmente tubature per la conduzione d’acqua e di gas. La scelta produttiva iniziale, secondo Baudant, «condanna» l'impresa ad un dinamismo reso inevitabile dalla necessità di realizzare economie di scala; d’altra parte le apre un mercato a forte crescita potenziale, ma in realtà lento ad estendersi. Questa situazione spinge Pont-à-Mousson




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all’esportazione sui mercati esteri, valvola di sfogo della ristrettezza ed irregolarità del mercato interno. Una rete (a volte costringente) di intese e consorzi, il più importante dei quali è la Participation Tuyaux, consente di realizzare questa strategia mantenendo alto il livello dei prezzi nel mercato francese e rendendo così possibile una migliore competitività all’estero62.
L’impostazione della ricerca di Baudant è subito chiara: da un lato ci sono «Les contraintes de l'economie mussipontaine»: il problema dell’approvvigionamento di carbone, la forza lavoro e soprattutto il mercato. Dall’altro lato, «Les modes d’adaptation de Pont-à-Mousson», e in questo caso la ricerca insiste sui diversi tentativi di riorganizzazione del mercato. Dunque le contraintes, nella visione di Baudant, sono all’origine della strategia d’impresa. Dati questi limiti, resta però la possibilità di strategie imprenditoriali differenti. È in questo spazio che si muove la ricerca: «Costituire il campo nel quale si definiscono le strategie di Pont-à-Mousson e nel quale, eventualmente, esse si riassorbono e si distinguono. Determinare i momenti in cui [...] queste strategie possono o debbono essere pensate. Queste due operazioni fanno la trama di questa storia»63.
Ciò che colpisce nella monografia è la durezza delle critiche rivolte al gruppo dirigente (ma bisogna osservare che la ricerca è carente di informazioni approfondite sulla struttura organizzativa dell’impresa). Baudant mostra che i principi della gestione di Pont-à-Mousson fanno dell’impresa un affare di patrimonio familiare, non un progetto industriale. Questi principi si dimostrano efficaci fino all’inizio del secolo; si rivelano invece paralizzanti quando alla fase di conquista subentra un periodo in cui sono richieste capacità di innovazione e diversificazione. La conclusione è molto amara: «Non c’è alcun dominio in cui Pont-à-Mousson non si sia opposta alle nuove tendenze defila realtà»64.
Avrò modo di tornare sul senso di queste critiche e sulla riflessione attorno al «paradosso francese». Prima occorre arricchire questo sommario quadro e far cenno ad un’altra analisi della grande impresa, la ricerca di Catherine Omnès sull'industria dei tubi di acciaio65. L’originalità di questa monografia è data dal fatto che il suo oggetto è un settore indùstriale. Oggi però una sola impresa, la Vallourec, ricopre una posizione quasi monopolistica all’interno del settore, punto culminante di un lungo processo di crescita interna, fusioni, prese di partecipazione66. Scrivere la storia di questa branca significa dunque, per Omnès, analizzare la strategia di crescita di un’impresa e scoprire come nasce im gruppo industriale. La «scoperta» segue con pazienza gli intricati



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avvenimenti dell’ultimo secolo; la concentrazione degli anni ’60 vi è vista come l’ultima risorsa, l’unica possibilità per ridare vitalità e dinamismo ad un settore divenuto stagnante e investito dalla presenza crescente dell’intervento statale.
Un altro tratto originale di questa ricerca è dato dal ruolo centrale che vi gioca l’analisi del patronat. Le vicende del settore sono ripercorse tenendo sempre presente la natura dei capitali investiti, l’influenza determinante delle dinamiche di mercato sulla definizione delle strategie imprenditoriali, la capacità di risposta e di adattamento di queste strategie alle continue modificazioni dei condizionamenti esterni (intervento statale, rigidità della mano d’opera, alti costi della materia prima) 67.
L’interesse per questa tematica spinge Catherine Omnès a rapide incursioni sul terreno della teoria economica. La ricerca sulla provenienza dei capitali all’origine dei primi investimenti è occasione per una riflessione sulla coincidenza, in quella fase, tra proprietà e potere all’interno delle imprese, dato reso ancora più significativo dal contrasto esistente tra la struttura dispersa delle unità produttive e la dimensione internazionale del capitale68. Lo studio della fase successiva, quando lo stesso tipo di «padroni-dirigenti» opera la conversione del settore verso la grande impresa moderna e la produzione di massa, è lo spunto per un confronto con la tematica galbraithiana della massimizzazione della crescita69. I patrons adottano in questo caso quella strategia di crescita che Galbraith attribuisce ai moderni manager: «la relazione stabilita da J.K. Galbraith tra tipo padronale e innovazioni industriali — conclude Omnès — qui non si verifica e deve essere sostituita da ima nuova relazione, triangolare questa volta, che includa l’elemento determinante, il contesto economico e tecnico» 70.
Anche questa monografia spezza una lancia a favore del dinamismo imprenditoriale. Le intese degli anni ’30 sono considerate «des remèdes plus offensifs que malthusiens», elementi di una strategia globale di apertura sui mercati extraeuropei. Analoga è l’opinione di Marcel Gillet, in un’altra monografia settoriale dedicata alle miniere di carbone del Nord71. Per il periodo anteriore al 1914, Gillet móstra che i cartelli sui prezzi si inseriscono all’interno di un processo di crescita economica e lo stimolano. La tesi sul maltusianismo padronale viene così attaccata nella sua stessa impostazione: non si tratta di negare o ridimensionare l’esistenza di accordi e intese, bensì di ricondurre questo elemento ad una dinamica strategia imprenditoriale di conquista dei mercati72.




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In queste ricerche appaiono sempre forme diverse di un'unica contraddizione francese, tra grande dimensione e strutture organizzative sorpassate, tra cartellizzazione e dinamismo imprenditoriale. A proposito di Pont-à-Mousson, malgrado tutte le sclerosi ed i fallimenti, è lo stesso Baudant ad affermare in prefazione che i suoi problemi e il ruolo importante delle esportazioni presentano già nel XIX secolo tutti i caratteri della modernità. La monografia corre poi sul filo di questa contraddizione, con una mole di ricerca sempre notevole e molti risultati utili. Il descrittivismo, però, sembra averla vinta; anche se la tematica imprenditoriale ha un ruolo centrale, troppo spesso è affrontata solo per ricostruire nei dettagli i particolari di una decisione73. L'analisi lascia lo spazio alla ricostruzione; il rinnovamento di prospettiva rischia di ridursi al facile superamento delle pubblicazioni giubilari74, inibendosi il compito di comprendere la natura e le ragioni del «paradosso francese».
Il problema centrale (e irrisolto) è in definitiva quello di individuare alcuni degli strumenti per mezzo dei quali un sistema economico riesce a strutturarsi e a diventare dominante (è dir troppo credere che ciò potrebbe significare, in prospettiva, cogliere ima forma di articolazione e riproduzione di potere?). È il problema intorno a cui sembra ruotare la monografia sulla Renault, alle prese con un settore importante e ricco di implicazioni. Fridenson mostra che la centralizzazione e l’empirismo che caratterizzano la gestione delle usines permettono comunque alla Renault di essere ricettiva rispetto alla lezione delle imprese americane, sul terreno della tecnologia e della commercializzazione. Più ancora: essi sono alla base di una strategia elastica, efficace, fondata su pochi concetti schematici («il faut faire vite pour produire beaucoup»), che mostra i suoi esiti più significativi nella capacità di resistenza della Renault alla crisi75. Fridenson svolge questa analisi riprendendo il programma «revisionista» della recente storiografia. Ma aggiunge, in una cauta parentesi, di non voler dissimulare che il suo lavoro «non sfugge, sul piano del metodo, all'empirismo dominante nella nostra disciplina»76.
L'empirismo, appunto. Affermava Jean Bouvier nel 1963 che «molti storici credono di lavorare senza concetti. La massa degli storici dell'economia (e non soltanto loro) non è stata abituata a riflettere sulle ipotesi di lavoro, i quadri mentali impliciti o espliciti, i concetti fittizi (d'emprunt) che informano inevitabilmente ogni ricerca»77. Questa assenza di consapevolezza è a mio parere accentuata dall'organizzazione stessa della ricerca: le


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rigide esigenze accademiche delle grandes thèses e dei vertiginosi apparati di note e fonti ostacolano la possibilità di porsi «oziosi» problemi teorici78. Limite e d’altra parte grandezza dell’empirismo: senza queste esigenti richieste forse non avremmo alcuni lavori importanti e molto utili.
La mole e l’alta qualità della ricerca si accoppiano dunque a una sostanziale debolezza teorica. Oggi questo «attachement ex-clusif au concret» impedisce di affrontare fino in fondo i nuovi problemi posti dalla revisione di contenuti degli ultimi anni. Studiare 1’imprenditorialità nella grande impresa del XX secolo significa porre alle fonti utilizzate domande molto diverse da quelle tradizionali. È necessario porsi il problema della definizione concettuale e dell’individuazione empirica dell’imprenditore. L’impreditore individuale non esiste più; è inoltre possibile che in certi casi il processo decisionale si situi in parte fuori dall’azienda, nell’estensione dei poteri pubblici, negli accordi interaziendali, forse anche nelle società di consulenza79. Altre difficoltà: l’individuazione dei modi attraverso cui viene elaborata una strategia è cosa più complessa della ricostruzione, sulle fonti, di singole importanti decisioni. Quali sono i margini di autonoma iniziativa d'impresa? Che rapporto esiste tra i nuovi imperativi strategici e le modificazioni organizzative? La forza di una struttura dirigente può imporre, e in che misura, una strategia capace di intervenire sulle rigidità esterne80?
Solo una ricerca inserita in ima prospettiva teorica può contribuire, se non a rispondere a queste domande, perlomeno a formularle in modo più corretto e ad integrarle con altre analoghe. È certo vero che la teoria economica sull’imprenditorialità è caratterizzata da lacune ed incertezze, al punto da non riuscire a raggiungere un accordo neanche sulle questioni «terminologiche81; ma il contributo di chiarezza della ricerca storica sembra molto debole. Sono forse esemplari le vicende del Research Center in Entrepreneurial History di Harvard, la cui attività negli anni ’50 costituisce uno dei più organici tentativi di riflessione storica suH’imprenditorialità. Inizialmente il Center sembra volersi cimentare sul terreno dello scambio tra analisi teorica e ricerche, ma presto decide di restringere lo spazio concesso alle questioni teoriche e imposta il proprio lavoro su una base empirica e (utilmente) informativa82.
La storiografia francese non presenta i caratteri di organicità del Center, né è direttamente impegnata sul terreno dell'imprenditorialità, come avviene invece nella storiografia americana. Il suo approccio è di segno diverso; quando si occupa di patrons,




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l’attività di questi ultimi non vi ricopre quel ruolo centrale teorizzato da Schumpeter e ipotizzato nelle ricerche degli storici di Harvard. Ragione di più, questa, per ritenere interessante e proficua la prospettiva di uno sviluppo autonomo di una storia imprenditoriale concepita come parte integrante della storia d’impresa.

NOTE AL TESTO
1 M. Levy-Leboyer, Le patronat frangais a-t-il été malthusien? in «Le mouve-ment social», 1974, n. 88, pp. 3-49.
2 A. Sauvy, Histoire économique de la France entre les deux guerres, voi. II, Paris 1967, p. 359. Al di là di questa definizione, e dell’intero capitolo appositamente dedicato all’argomento (pp. 359-378), l'indicazione di pratiche maltusiane ricorre comunque con frequenza in tutta VHistoire di Sauvy.
3 M. Levy-Leboyer, Le patronat frangais, 1912-1973, in Le patronat de la seconde industrialisation, «Cahier du mouvement social», n. 4, Paris 1979, pp. 137-188; il «Cahier» raccoglie i testi degli interventi ad una tavola rotonda organizzata dalla Maison des Sciences de l’homme nell’aprile 1977.
4 M. Levy-Leboyer, Le patronat. . ., cit., pp. 3-7.
5 Ibidem, p. 27 e pp. 45-47; sul rinnovamento sociale si veda anche L. Bergeron, Les capitalistes en France. 1789-1914, Paris 1978, pp. 56-79.
6 Le posizioni «stagnazioniste» della storiografia economica degli anni '50 richiederebbero un discorso a sé. Qui è possibile soltanto indicare alcuni lavori che individuano nella sfera imprenditoriale l’origine del presunto «ritardo» francese: si tratta di ricerche condotte da storici anglosassoni, David Landes in testa, tese a mostrare il carattere familiare dell’impresa francese, l’individualismo degli imprenditori, l’esistenza di un sistema di valori che ha ostacolato un moderno sviluppo industriale. Il riferimento classico è D. Landes, French Entrepreneurship and Industriai Growth in thè Nineteenth Century, in «The Journal of Economie History», voi. IX, 1949, n. 1, pp. 45-61; cfr. anche J.E. Sawyer, Strains in thè Social Structure of Modem France e D. Landes, French Business and thè Businessman: a Social and Cultural Analysis, in AA.VV., Modem France, Princeton 1951, rispettivamente pp. 292-312 e pp. 334-353 (il pezzo di Landes è tradotto in A. Pagani (a cura di), Il nuovo imprenditore, Milano 1967, pp. 238-262); J.E. Sawyer, The Entrepreneur and thè Social Order. France and thè United States, in AA.VV., Men in Business, New York 1962, pp. 7-22 (ed. orig. 1952; trad. ital. in A. Pagani, cit., pp. 211-237). L’espansione degli anni ’50 provoca un accenno di inversione di rotta, perlomeno una visione più articolata: cfr. D. Landes, New Model Entrepreneurship in France and Problems of Historical Explanation, in «Explorations in Entrepreneurial History», 2nd s., voi. I, n. 1, 1963, pp. 56-75 e C.P. Kindleberger, La renaissance de Véconomie fran^aise après la guerre, in



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AA.W., A la recherche de la France, Paris 1963, pp. 139-185 (ed. orig., Cambridge 1963) (quest’ultimo è un pezzo di grande importanza perché riassume le varie posizioni degli storici in quel periodo).
7 M. Levy-Leboyer, Le patronat frangaise, cit., p. 183.
8 Per maggiori dettagli sulle fonti e la metodologia utilizzate cfr. Ibidem, pp. 139-140 e l’appendice, pp. 186-188.
9 Un fascicolo della rivista diretta da Pierre Bourdieu, «Actes de la recherche en Sciences sociales», nn. 20-21, 1978, in appendice a due ricerche sul patronat contiene una vasta bibliografia di ricerche sociologiche; a parte bisogna segnalare anche l’attenzione (meno «storicizzata») portata a questi temi dalla rivista «Sociologie du travail». Tra le tante opere di interesse politico o giornalistico, come sempre di ineguale valore, bisogna ricordare almeno l’ultima e più completa ricerca storica sulle organizzazioni imprenditoriali, ricca di notizie e indicazioni bibliografiche: G. Lefranc, Les organisations patronales en France: du passò au présent, Paris 1976.
10 A. Melucci, Classe dominante e industrializzazione, Milano 1974 (la ricerca è stata condotta per una thèse de troisième cycle, apparsa in francese col titolo Idéologies et pratiques patronales pendant rindustrialisation capitaliste. Le cas de la France, Université de Paris V, 1974).
» Ibidem, p. 15.
12 Ibidem, pp. 71-93.
13 P. Cayez, L’industrialisation lyonnaise au XIX siècle. Du grand commerce à la grande industrie, Lille 1979. Cayez ha collaborato anche al «Cahier» già citato, ipotizzando per il periodo a cavallo dei due secoli un'interessante tipologia per gli imprenditori della piccola impresa lionese (Quelques aspects du patronat lyonnais pendant la deuxième étape de l'industrialisation, in Le patronat. . ., cit., pp. 191-200).
14 L. Bergeron, Les capitalistes en France, cit.; G. Palmade, Capitalisme et capitalistes fran^ais du XIX siècle, Paris 1961, pp. 89-107 e pp. 166-186.
15 K. Marx, Il Capitale, Roma 1974, I, sez. VII, pp. 812 ss.; il passo sulle «due vie», poco utilizzato ma a mio avviso ricco di utili spunti, in III, sez. IV, p. 399.
16 F. Dornic, L’évolution de l’industrie textile au XVIII et XIX siècle: l’activité di la -famille Cohin, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», t. Ili, 1956 (cfr. in particolare pp. 49-58).
17 C. Fohlen, Uindustrie textile au temps du Second Empire, Paris 1956, pp. 67-95; un contributo più recente, ma limitato territorialmente, è quello di J.P. Ciialine, Le patronat cotonnier rouennais au XIX siècle, in AA.W., Le textile en Normandie, Rouen 1975, pp. 95-105 (ma il testo è del 1970). Per altri lavori sul tessile si vedano i richiami del libro di Bergeron.
18 L. Bergeron, cit., p. 46.
19 Mi riferisco ovviamente alle decisioni di portata strategica; cfr. A.H. Cole, Entrepreneurship and thè Entrepreneurial History: thè Institutional Setting, in AA.W., Change and thè Entrepreneur, Cambridge, Mass., pp. 85-107 (la trad. ital. in A. Pagani, cit., p. 81-104); e soprattutto F. Redlich, Entrepreneurial Typology, in «Weltwirtschaftliches Archiv», LXXXII, 1959, n. 2, pp. 151-166 (la definizione, ormai classica, a p. 151). Alcune utili considerazioni sull’utilizzazione




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di questa definizione in una ricerca empirica in R. Catanzaro (a cura di), L’imprenditore assistito, Bologna 1979, pp. 20-23.
20 L. Cafagna, L’avventura industriale di Giovanni Agnelli e la storia imprenditoriale italiana, in «Quaderni storici», a. Vili, n. 22, 1973, p. 154; all’intero articolo occorre rinviare per una riflessione sintetica ed importante sulla storia imprenditoriale.
21 A. Moutet, Les origines du système Taylor en France. Le point de vue patronal, in «Le mouvement social», n. 93, 1975, pp. 15-49 e Patrons de progrès ou patrons de combat?, in «Recherches», nn. 32-33, 1978, pp. 449-489.
22 P. Fridenson, France, Etats Unis: genèse de l’usine nouvelle, in «Recherches», fase, cit., pp. 375-388 e A. Melucci, Classe dominante ..., cit., pp. 140 ss.; considerazioni più generali, inquadrate peraltro in un ampio contesto, in F. Caron, Dynamismes et freinages de la croissance industrielle, in AA.W., Histoire économique et sociale de la France (sous la direction de F. Braudel et E. Labrousse), t. IV, voi. I, Paris 1979, pp. 241-243.
23 A. Moutet, Les origines ..., cit., p. 25; in parte differenti le osservazioni di Lévy-Leboyer (Le patronat..., cit., pp. 32-33), secondo il quale i dirigenti già da tempo erano pronti ad accogliere e generalizzare l’organizzazione scientifica del lavoro.
24 A. Moutet, Patrons de progrès .. ., cit., pp. 452-454.
25 D’altro canto si può forse ipotizzare che la penuria di mano d’opera, o perlomeno il timore che ciò possa verificarsi, sia un carattere costante nella storia dell’industria francese. Si veda al riguardo la frase di L. Renault riportata da A. Moutet (Ibidem, p. 452); per un periodo anteriore cfr. M. Perrot, Les ouvriers et les machines en France dans la première moitié du XIX siècle, in «Recherches», fase, cit., pp. 349-350 e, ancora una volta, M. Levy-Leboyer, Le patronat, cit., pp. 9-12. Alcuni dati quantitativi d’insieme su «La croissance des forces de travail» in F. Caron, Historie économique de la France. XIX-XX siècles, Paris 1981, pp. 23-27.
26 Tra i lavori più significativi sulle diverse forme di potere padronale cfr. B. Mottez, Systèmes de salaires et politiques patronales, Paris 1966; A. Melucci, Action patronale, pouvoir, organisation, in «Le mouvement sociale», 1976, n. 97, pp. 136-159; P. Fridenson, France, Etats Unis.. ., cit. Alcune parti di un’opera vasta e ambiziosa sulla città industriale del XIX secolo sono dedicate alla politica padronale di controllo sulla totalità della vita del lavoratore (l’ispirazione è chiaramente foucaultiana): L. Murard, P. Zylberman, Le petit travailleur infatiga-blc, in «Recherches», n. 25, 1976 (fascicolo monografico; cfr. in particolare pp. 53-55 e pp. 193-219).
27 Lo sviluppo di questa tematica è favorito dall’influenza del marxismo nonché da impulsi teorici di diverso tipo, quali quelli di Pierre Bourdieu, Alain Touraine, Michel Foucault. Una bibliografia ricca ed utile si trova in Histoire économique et sociale.... cit., t. IV, voi. I, p. 567.
23 Ma forse gli studi più importanti sono di im americano, Kuisel, cui si deve tra l’altro un’utile sintesi: R. F. Kuisel, Technocrats and Public Economie Policy: From thè Third to thè Fourth Republic, in «The Journal of European Economie History», voi. 2, n. 1, 1973, pp. 53-99. Non mi è stato possibile tener conto del più recente G. Brun, Techniciens et technocratie en France de 1918 à 1945, Paris 1979.



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29 Cfr. in particolare gli spunti di H. Morsel, Le patronat alpin fran^ais et la seconde révolution industrielle, 1869-1939, in Le patronat...» cit., pp. 201-208.
30 Cfr. A. Thepot, Les ingénieurs du Corps des Mines, le patronat et la seconde industrialisation, in Le patronat. . ., cit., pp. 237-247. Occorre segnalare inoltre lo svolgimento di un convegno su Les ingénieurs et la société fran^aise au XIX et XX siècles, tenutosi a Le Creusot nell’ottobre 1980 (compte rendu di J. P. Thuillier, in «Revue du Nord», tome LXIII, 1981, pp. 267-270).
31 P. Lanthier, Les dirigeants des grandes entreprises électriques en France, 1911-1973, in Le patronat. . ., cit., pp. 101-136.
32 Un’altra occasione di riflessione comune su queste tematiche si è avuta in un convegno su imprese e imprenditori nel XIX secolo, tenutosi nel marzo 1980, i cui atti sono in corso di pubblicazione.
33 «Ci è sembrato che la storia delle imprese avesse ormai acquisito diritto di cittadinanza negli studi storici francesi. Molteplici riviste possono accogliere i lavori di questo genere, e non mancano di farlo» B. Gille, Note liminaire, in «Histoire des entreprises», 1963, n. 12, p. 8. Quest’ultimo fascicolo contiene anche un indice ragionato degli articoli pubblicati nei dodici numeri della rivista.
34 Uno degli ultimi contributi di Pierre Léon teorizza con chiarezza questa esigenza di rigore e sistematicità degli «historiens de la jeune école»: P. Leon, La recherche historique et les archives des grandes entreprises fran^aises au XX siede, in AA.VV., Pour une histoire de la statistique, Paris 1977, pp. 519-533. Un altro grande storico, Pierre Chaunu, è autore di un’importante riconsiderazione d’insieme sulla storia seriale, ricca anche di notazioni più generali sulla storiografia francese: P. Chaunu, L’histoire sérielle. Bilan et perspectives, in «Revue historique», a. 94, 1970, t. CCXLIII, n. 494, pp. 297-320. Più in dettaglio, il coacervo di problemi posti agli storici francesi dalla difficile eredità di Francois Simiand si può cogliere leggendo un articolo di Lévy-Leboyer, critico verso i continuatori di Simiand, la polemica risposta di Jean Bouvier, la sintetica messa a punto di quest’ultimo in un convegno del 1976: M. Levy-Leboyer, L’héritage de Simiand: prix, profit et termes d’échange au XIX siècle, in «Revue historique», a. 94, 1970, t. CCXLIII, n. 493, pp. 77-121; J. Bouvier, Feu Francois Simiand?, in «Annales E.S.C.», a. 28, n. 5, 1973, pp. 1173-1192 e Francois Simiand, la statistique et les Sciences humaìnes, in AA.VV., Pour une histoire de la statistique, cit., pp. 431-443.
35 Sui risultati di queste ricerche cfr. P. Leon, L’affermissement du phénomène d’industrialisation, in Histoire économique et sociale .. ., cit., t. Ili, voi. II, 1976, pp. 581-595; per i rinvìi bibliografici si vedano la fine dello stesso volume e P. Chaunu, cit., p. 299.
36 Un’esposizione chiara e programmatica della revisione di rotta e delle sue ragioni in J. Bouvier, Propositions préliminaires in Histoire économique et sociale. . ., cit., t. IV, voi. I, pp. 13-14. Alcune salutari cautele (un invito a «nuancer les vues révisionnistes») in F. Crouzet, Essai de construction d’un indice annuel de la production frangaise au XIX siècle, in «Annales E.S.C.», a. 25, n. 1, 1970, p. 86.
37 P. Fridenson, Histoire des usines Renault. I. Naissance de la grande entreprise (1898-1939), Paris 1972, p. 9.
38 Ibidem, pp. 12-13. Questi stessi temi metodologici sono affrontati in modo




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sistematico nel contributo già ricordato di P. Leon, La recherche historique et les archives ...» cit.
39 E. Le Roy Ladurie, Apologie pour les damnés de la thèse, in Le territoire de l’historien, Paris 1973, p. 539 (trad. ital.. Le frontiere dello storico, Bari 1976).
40 F. Caron, Histoire de Vexploitation d'un grand réseau. La Compagnie du Chemin de fer du Nord, 1846-1937, Paris 1973 (testo «fort peu différent de la thèse de doctorat» presentata nel 1969).
41 «L’approccio globale della storia ferroviaria è possibile e non è stato interamente compiuto. Ci è sembrato comunque (pourtant) utile applicare a questi problemi i metodi tradizionali della storia economica francese, cioè realizzare lo spoglio sistematico e completo di un fondo d'archivio. Era normale scegliere la Compagnie i cui archivi fossero al contempo i più accessibili e i più ricchi, considerandola portatrice (comme fournissant) di un modello di valore generale». (Ibidem, p. 38). L’approccio è del tutto analogo a quello, già indicato, di Fridenson. In questo caso gli archivi, non mi sembra inutile rilevarlo, erano stati inventariati da Bertrand Gille.
42 Ibidem, p. 561.
43 Ibidem, p. 104.
44 Si indica con questa espressione quel modo di gestione della Compagnie, sviluppatosi sotto l’impulso di Albert Sartiaux, teso ad accrescere il rendimento attraverso una intensificazione e una migliore organizzazione del lavoro (cfr. Ibidem, pp. 327-329 e pp. 359-365).
45 Tra le pagine più interessanti, si vedano quelle sul pouvoir alla fine del secolo (Ibidem, pp. 275-284).
46 Alcune osservazioni a proposito deU'empirismo nella politica di ricerca in Ibidem, pp. 104 ss.; sull’assenza di ima scienza dell'organizzazione, cfr. pp. 339 e 422.
47 A.D. Chandler jr., Strategy and Structure. Chapters in thè History of thè Industriai Enterprise, Cambridge, Mass., 1962 (trad. ital., Milano 19802), pp. 14-15.
48 II caso in questione è ancora più lineare: «Tutta la storia della Compagnie du Nord si riduce a una riduzione progressiva di questo potere di controllo dei costi da parte dei dirigenti»; F. Caron, cit., p. 561.
49 Ibidem, p. 461.
50 J. Bouvier, Compte rendu della ricerca di Caron, in «Annales E.S.C.», a. 30, n. 6, 1975, pp. 1488-1492.
51 La risposta di Caron nello stesso fascicolo degli «Annales E.S.C.», cit., p. 1494.
52 Questa visione sembra riconducibile a quel situational determinism che nell’analisi microeconomica concepisce soltanto single-exit situations: cfr. S.J. Latsis, A Research Programme in Economics, in AA.VV., Method and Appraisal in Economics, Cambridge 1976, pp. 16-23.
53 Al riguardo si vedano in particolare alcune considerazioni di sintesi sulle tariffe (F. Caron, cit., pp. 389-395) e tutta l'ultima parte su «La nationalisation avant la lettre, 1914-1937» (pp. 427 ss.), impostata nel suo insieme sul tema dell'intervento statale. I termini della questione sulla gestione delle imprese pubbliche sono ripresi in Les agents: VEtat, in Histoire économique et sociale . . .,



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cit., t. IV, voi. Ili, pp. 1098 ss. (il volume apparirà alla fine del 1981; mi è stato possibile consultarne le bozze grazie alla cortesia di Jean Bouvier).
54 P. Fridenson, Histoire des usines Renault..., p. 10.
35 A questo proposito Fridenson polemizza a più riprese con le affermazioni di A. Sauvy, Histoire économique..., cit. (v. nota 2); cfr. in particolare P. Fridenson, cit., pp. 151-156 e p. 231.
56 I lavori richiamati da Fridenson sono A.D. Chandler jr., Strategy.. ., cit. e Giant Enterprise: Ford, General Motors and thè Automobile Industry: Sources and Readings, New York 1964. L'influenza del primo sembra sentirsi particolarmente quando viene analizzata la politica dell’impresa negli anni '30 (P. Fridenson, cit., pp. 206 ss. e pp. 276-286).
57 Ibidem, pp. 188-189; il corsivo è mio (la S.A.U.R. è la Société Anonyme de Usines Renault). La recensione citata è quella di W. Ashworth al «grand livre» di Chandler, in «Business history», 1965.
58 Cfr. A.D. Chandler jr., Strategy and Structure. . ., cit., pp. 15-17.
59 P. Fridenson, cit., pp. 167-175.
w Ibidem, p. 300.
61 A. Baudant, Pont-à-Mousson (1918-1939). Stratégies industrielles d’une dyna-stie lorraine, Paris 1980.
62 Questi temi sono ampiamente sviluppati lungo tutta la monografia e ripresi, in sintesi, in A. Baudant, Une entreprise fran^aise face à Vexportation: Pont--à-Mousson 1860-1940, in «Revue économique», voi. 31, n. 4, 1980, pp. 685-705.
63 A. Baudant, Pont-à-Mousson .. ., cit., p. 14.
64 Ibidem, p. 471. La vera e propria requisitoria contro la chiusura e la mancanza di immaginazione del gruppo dirigente è sviluppata, oltre che nelle conclusioni, nella parte dedicata a «La défense du patrimoine» e all’autofinanziamento (pp. 437 ss.).
65 C. Omnès, De Vatelier au groupe industriel. Vallourec 1882-1978, Paris 1980. Una sintesi delle conclusioni, sotto il titolo Contraintes du marché et stratégies patronales: Vindustrie frangaise du tube d’acier de 1880 à 1978, in «Le mouvement social», 1980, n. 110, pp. 75-102.
66 C. Omnès, De Vatelier. . ., cit., pp. 381-387; ma una critica interessante alla nozione di settore industriale rimette in questione le abituali definizioni: G. Becattini, Dal «settore» industriale al «distretto» industriale. Alcune considerazioni sulVunità di indagine delVeconomia industriale, in «Rivista di economia e politica industriale», a. V, n. 1, 1979, pp. 7-21.
67 Diversamente dalle altre, questa monografia rende esplicite le proprie impostazioni teoriche. Nel caso dell’analisi delle strategie imprenditoriali, Omnès afferma che lo studio dei modi di elaborazione di mia strategia, dimque del grado di autonomia del patronat, non deve sopravvalutare il dato della composizione sociale dei patrons. Un peso più importante viene invece assegnato alle condizioni del mercato e della tecnologia del settore (cfr. p. 5 e, per una sistematizzazione conclusiva, pp. 411-414).
68 Ibidem, pp. 39-52.
69 Cfr. Ibidem, pp. 129-147; il riferimento è a J.K. Galbraith, The New Industriai State, London 1967 (trad. ital., Torino 1967). Per un quadro generale sui termini della questione intorno ai fini e alle condotte manageriali cfr. F.




675
Momigliano, Economia industriale e teoria dell’impresa, Bologna 1975, pp. 287-321.
70 C. Omnès, cit., p. 147.
71 M. Gillet, Les charbonnages du Nord de la France au XIX siècle, Paris 1973.
72 Ibidem, pp. 220-299; cfr. anche J. Bouvier, Compte rendu della ricerca di Gillet, in «Annales E.S.C.», a. 30, n. 4, 1975, pp. 859-863, che definisce il capitolo sulle intese come il nucleo e l’«invenzione» di questa thèse d’Etat.
13 «L’idea di creare una usine negli Stati Uniti è venuta a Marcel Paul dalla sua colazione con M. Russel, il presidente dell’Uscipipe .. .» (A. Baudant, cit., p. 209). È un esempio boutade, se ne potrebbero fare molti altri.
74 Cfr. Ibidem, Prologue: histoire et historiographie, pp. 1-2.
75 P. Fridenson, cit., pp. 195-233.
76 Ibidem, p. 10.
77 J. Bouvier, L’appareil conceptuel dans l’histoire économique contemporaine, in Histoire économique et histoire sociale, Genève 1968, p. 15 (l'articolo riproduce una relazione tenuta ad un seminario nel 1963; era stato pubblicato una prima volta nella «Revue économique», 1965).
78 Quasi inevitabile il rinvio alla sempre utile provocazione di J. Chesnaux, Che cos’è la storia?, Milano 1977, pp. 64-86 (ed. orig., Paris 1976). Può essere utile segnalare anche che la «Revue d'histoire moderne et contemporaine» sta realizzando un'inchiesta nel mondo accademico sui problemi deH'organizzazione della ricerca; se ne vedano i primi commenti in P. Barral, M. Cointet, A propos d’une enquéte: problèmes de thèses et de carrières, in «Revue . . .», t. XXVIII, 1981, pp. 221-224.
79 Sul riferimento del termine entrepreneurship ad un’associazione organizzata, si vedano tra gli altri gli spunti di H.G.J. Aitken, The Future of Entrepreneurial Research, in «Explorations in Entrepreneurial History», 2nd s., voi. I, n. 1, 1963, p. 5; R. Jannsens van der Sande, Rationalité et irrationalité dans la décision de l’entrepreneur, in «Revue européenne des Sciences sociales», t. XV, 1977, n. 40, p. 821. Sulla necessità di estendere la tipologia imprenditoriale ai «men in business», agli «outsiders» esterni all’impresa ma con un ruolo importante nel processo decisionale, cfr. F. Redlich, Entrepreneurial Typology, cit., pp. 164-165.
80 Un approccio differente da quello chandleriano è presente in G. Mussche, Les relations entre stratégies et structures dans l’entreprise, in «Revue économique», voi. XXV, n. 1, 1974, pp. 30-48.
81 Cfr. J.A. Schumpeter, Economie Theory and Entrepreneurial History, in AA.VV., Change and thè Entrepreneur, cit., pp. 63-84; M. Dobb, Entrepreneur, in «Encyclopaedia of Social Sciences», voi. V, New York 1951, pp. 558-560; G. Ruffolo, La grande impresa nella società moderna, Torino 1967, pp. 34-47. Si vedano inoltre, su un piano più occasionale, le considerazioni di Chandler sulla scarsa utilità della teoria economica dell’impresa per le proprie ricerche: A.D. Chandler jr., Commento al saggio di Conrad, in AA.VV., La nuova storia economica, Torino 1975, pp. 209-211 (ed. orig., New York 1970; il testo di Chandler è la traduzione di un articolo apparso nel 1968).
82 G. Mori, Premesse e implicazioni di una recente specializzazione storiografica americana: la Entrepreneurial History, in Studi di storia dell’industria, Roma



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1967, pp. 43-79 (già in «Studi storici», a. I, 1959-60, pp. 755-792) e A. Pagani, La formazione dell'imprenditorialità, Milano 1964, pp. 9-18. Secondo Mori questo itinerario sembra ispirato dall'esigenza di separare nella ricerca il concetto di imprenditore da quello di profitto (cfr. pp. 58-65).