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Title
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MOSTRARE E DIMOSTRARE RISPOSTA A PINELLI E ALTRI CRITICI
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Creator
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Carlo Ginzburg
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Date Issued
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1982-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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17
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issue
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50
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page start
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702
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page end
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727
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Colloqui con Foucault: pensieri, opere, omissioni dell'ultimo maître-à-penser. Italy: Castelvecchi, 2005.
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Rights
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Quaderni storici © 1982 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20231101141427/https://www.jstor.org/stable/43777077?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1982%26ed%3D1982%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A4ceec478fffcf630d355d0dde57eba7c
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Subject
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structuralism
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extracted text
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Carlo Ginzburg
MOSTRARE E DIMOSTRARE Risposta a Pinelli e altri critici
I
Presentando i risultati delle mie Indagini su Piero accennavo alla necessità di elaborare, nell’ambito degli studi storico-artistici, strumenti di controllo più adeguati (p. XIX) *. La stessa esigenza è riproposta da Pinelli, insieme a un radicale dissenso dalle conclusioni della mia ricerca. Prima di rispondere alle sue obiezioni di merito, vorrei affrontare la questione di metodo: anche perché ritengo che il tema del controllo si ponga oggi in termini rinnovati non solo all'interno di questi studi ma nella ricerca storica senza aggettivi.
Partirò da un'osservazione di Pinelli. Pur avendo io dichiarato di non voler entrare, per dichiarata incompetenza, sul terreno più propriamente stilistico, almeno in un caso — rileva Pinelli — sconfino dai limiti che mi ero prefissato: quando, cioè, riconosco la mano di Piero della Francesca in un ritratto (da me identificato con quello di Giovanni Dacci) compreso nel gruppo di committenti aretini che assistono alla decapitazione di Cosroe — gruppo che Longhi aveva ascritto esclusivamente o quasi esclusivamente all’intervento degli aiuti (p. 65). Pinelli ha perfettamente ragione. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è il fatto che prima di lui nessuno degli storici dell'arte che hanno criticato, spesso violentemente (e non sempre con la sua civiltà1) il mio libro, si sia soffermato su quel passo. L'autografia pierfranceschiana del presunto ritratto di Giovanni Dacci ad Arezzo ha, all'interno della mia argomentazione, un’importanza notevole anche se non decisiva, nel senso che costituisce un'ulteriore conferma dei legami privilegiati da me supposti tra il pittore e questo componente della famiglia che aveva commissionato la decorazione del coro di San Francesco. D'altra parte, la mia attribuzione è compieta-mente priva di autorevolezza (non sono un conoscitore) e assolutamente non dimostrata. Eppure nessuno storico dell'arte (incluso Pinelli) ha pensato di prendermi in castagna su questo punto: mentre tutti (incluso Pinelli) hanno trovato a ridire, chi più chi meno, sui miei tentativi di dimostrazione a proposito dei committenti e dell'iconografia dei quadri di Piero.
Questa contraddizione rinvia, credo, a ima contraddizione più
QUADERNI STORICI 50 / a. XVII, n. 2, agosto 1982
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profonda che investe gli strumenti di controllo della disciplina: quella tra mostrare e dimostrare. Provo a illustrarla.
1. Ab Jove principium. L'occasione di queste riflessioni è stata offerta — e non poteva essere altrimenti — dal maestro indiscusso di questi studi, Roberto Longhi. Alla sua opera le mie Indagini volevano del resto rendere omaggio (anche se non tutti l'hanno capito) nell'unico modo possibile: discutendola e criticandola.
Ripubblicando nel 1956 i propri scritti giovanili, Longhi definì il saggio su Mattia Preti del 1913 «carico di finte idiosincrasie antifilologiche e antipsicologistiche, mentre pur si fondava sulle mie prime prove di conoscitore in erba, ch'erano anch'esse filologia»2. Questo giudizio non era frutto di una deformazione retrospettiva. È innegabile che la «critica figurativa pura» (sottotitolo del saggio su Preti) presupponeva la ricostruzione del catalogo del pittore, comprendente per esempio il Martirio di san Bartolomeo che «s'ammirava», allora, «nei magazzini della Galleria Nazionale di Roma». Ma il disprezzo per i dati biografici e cronologici, esibito sarcasticamente alla fine di quello scritto giovanile, aveva una giustificazione anche teorica, resa esplicita qualche anno dopo (1920) in quella discussione postuma con E. Petraccone su cui è stata richiamata recentemente l'attenzione. «Nel far critica figurativa abbiamo sempre inteso di fare storia» scriveva Longhi: e spiegava di aver voluto provare l'unità di critica e storia «con studi storici singoli, condotti sempre con quel “puro" metodo figurativo, sempre cioè per via di un rilievo esatto di tutti gli elementi formali che, esaminati con acutezza nei rapporti tra opera e opera, si dispongono inevitabilmente in serie di sviluppo storico, cui tuttavia il rapporto con una qualsiasi serie cronografica è inessenziale» (corsivo mio). Il senso di quest'ultima affermazione veniva precisato più avanti: «per questa storia delle forme la critica figurativa pura non ha intellettualmente bisogno sostanziale dei sussidi biografici e cronografici della critica storica; i quali potranno semmai servirle di facilitazione quasi amministrativa, nel corso del lavoro; potranno talora risparmiarle tempo, permettendole di giungere con più rapidità alla constatazione critica alla quale soltanto importava di giungere; ma non avranno di ciò il più piccolo merito (...). La critica bio-cronologica è dunque un sussidio quasi fisico, e mai intellettuale, a quella critica figurativa che potrebbe benissimo essere concepita — come del resto l'ha recentemente preconizzata il
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Wólfflin — in forma di “Kunstgeschichte ohne Namen”, di una storia dell'arte senza nomi; ed io aggiungo senza date»3 (corsivo mio).
Come conciliare queste dichiarazioni con l’ossessione cronologica che ha dominato il lavoro di Longhi — quell’ossessione, sorretta da un occhio e da una memoria straordinari, che lo portava (l’ha ricordato Contini) a giudizi del tipo «Cremona 1570», «cultura del 1615» e così via? Il problema è duplice, storiografico e teorico. Indubbiamente, il nucleo centrale della personalità scientifica di Longhi, formatosi molto precocemente, è venuto via via arricchendosi, senza essere mai rinnegato. Credo tuttavia che 1) dietro l’uso persistente del termine «storia» (o del suo sinonimo, «critica») coesistano in Longhi fin dall’inizio due approcci diversi all’opera d’arte, imo più propriamente morfologico e l’altro storico; 2) che i due approcci siano inestricabilmente connessi, ma rimandino a due tipi diversi di controllo; 3) che la tesi di Longhi, secondo cui il secondo approccio (quello storico) sarebbe meramente strumentale rispetto al primo (quello che propongo di chiamare morfologico) venga di fatto invalidata dalla pretesa di giungere a datazioni non solo relative, ma assolute; 4) che l’insistenza sulle datazioni assolute apre un varco che consente di proseguire la ricerca di Longhi lungo strade in parte simili, in parte diverse dalle sue.
2. Cercherò di comprovare tutto ciò con qualche esempio del metodo attributivo di Longhi, cominciando dall’ascrizione a fra Bartolommeo del tondo raffigurante la Sacra Famiglia conservato alla Galleria Borghese4. L’attribuzione tradizionale a Lorenzo di Credi è immediatamente scartata, così come quelle proposte successivamente da altri studiosi alla scuola del Verrocchio, a quella del Sodoma, o a uno pseudo Lorenzo di Credi: «non v’è dubbio che si tratti qui di false particolarizzazioni dedotte da ima estesa ed imprecisa generalità; la forma puramente deduttiva risultando sempre terribilmente pericolosa nel territorio, cosparso di fitte celle individuali, della storia dell’arte italiana». È induttivamente, dalla singolarità dell’opera che bisogna partire: a contatto con essa scocca la scintilla del «giudizio storico, cavato dal sublime silenzio dei simboli grafici», ossia l’attribuzione5. Nel Sommario di istorica Droysen definisce l’atto dell’intendimento storico «intuizione immediata... anima che s’immerge in un’anima, atto creativo come quello della donna nel concepire»6. In termini non dissimili Longhi afferma: «il modo in cui il critico
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giunge alla verità è una forma così misteriosa di intimazione spirituale, che qualora la si volesse presentare così come avviene, senza ambage, non si sarebbe intesi, nié creduti. Si è costretti, allora, a presentare come gradus ad veritatem quegli elementi che si vengono, per via di scienza, accumulando alla superficie, come controllo di una convinzione acquistata per via molto più sotterranea». Tra l’acquisizione della verità e la sua comunicazione c'è quindi un’opposizione netta. La prima consiste in un giudizio sintetico, immediato, intuitivo; la seconda, in un giudizio analitico, mediato e in quanto tale controllabile. E Longhi continua: «S’io, per esempio, dicessi che la convinzione dell’appartenenza a Fra Bartolommeo di quest’opera s’originò in me di subito dall'identità qualitativa che il mio spirito poneva tra il modo vitale e direi entusiastico d’impiegare sensibilmente e impeccabilmente la tecnica accademica che appare in quest’opera e quello che è proprio, negli ultimi anni del Quattrocento, soltanto di Fra Bartolommeo, mi si potrebbe obbiettare che la seconda parte della proposizione presuppone una serie di conoscenze storiche che mi autorizzino a pronunziare il dimostrativo “quello”, il cronologico “ultimi anni del Quattrocento”, l’esclusivo “soltanto”, la correlazione con l’individuale determinato “Fra Bartolommeo”; al che io ribatterei che a queU’equazione avrei potuto giungere anche senza particolari conoscenze cronologiche e d’individui storicamente determinati; senza per altro negare che la sensibilità per le forme abbia ad essere nutrita della conoscenza delle varietà di esse, ciò ch’è già press’a poco una storia embrionale ed astratta».
Nella dichiarazione d’irrilevanza delle «particolari conoscenze cronologiche e d’individui storicamente determinati» ai fini dell’attribuzione si sarà riconosciuta l’eco puntuale della «storia dell’arte senza nomi e senza date» ipotizzata nella risposta a Petraccone qualche anno prima. Ma la «storia embrionale ed astratta» di cui Longhi riconosce qui la necessità ha di storico soltanto il nome. Si tratta in realtà di morfologia: un inventario articolatissimo di forme che permette di cogliere la differentia specifica del tondo della Galleria Borghese, e quindi l’identificazione del suo autore con fra Bartolommeo. Allo stesso modo, si direbbe, un botanico, grazie alla sua familiarità con la famiglia delle Pinacee, distingue a colpo d’occhio una foglia di Pinus silvestris da una di Pinus pinea. L’analogia delle due operazioni intellettuali sembra evidente: l'individuo (foglia o tavola dipinta) viene ascritto a una classe (Pinus silvestris, quadri di fra Bartolommeo) in seguito al riconoscimento delle sue particolarità formali
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Nulla di mistico in tutto ciò: semplicemente, la ricapitolazione fulminea di ima serie di processi razionali7. C'è però una differenza: gli individui artistici che popolano la morfologia di Lon-ghi, per quanto caratterizzati inequivocabilmente, non sono né isolati né fissi. Per servirci di una metafora, fanno parte di una galassia in movimento, al cui interno astri minori deviano dalle loro orbite perché attratti da astri maggiori; gigantesche super-novae esplodono improvvisamente alterando l’intero sistema; asteroidi collidono con pianeti sbriciolandosi. Si potrebbe definire il progetto intellettuale di Longhi come una morfologia dinamica. Progetto grandioso, che come si sa percorre le scienze umane e naturali, in modi diversi, fin dall’800. Ma questa morfologia dinamica dà luogo a «serie di sviluppo storico, cui tuttavia il rapporto con una qualsiasi serie cronografica è inessenziale». Il mondo delle forme artistiche è completamente scisso dal mondo della vita quotidiana (qui è, come ha visto bene Garboli, la radice della repugnanza di Longhi per ogni estetismo, fondato sulla confusione tra arte e vita)8. Il tentativo della critica «bio-cronologica» di stabilire un ponte tra l’uno e l’altro è puramente illusorio. La cronologia delle opere d’arte ricostruita dallo storico-conoscitore sarà allora puramente relativa — e la sua coincidenza con le date del calendario, puramente simbolica.
Che Longhi definisse «storia» questo approccio morfologico — e sia pure «storia embrionale ed astratta» — non stupisce, dato il contesto culturale in cui si era formato e in cui lavorava. Ma ciò non deve nasconderci la profonda affinità di questo approccio con le ricerche morfologiche, tuttora pochissimo esplorate da un punto di vista complessivo, che negli stessi anni venivano praticate o suggerite a proposito di discipline come la scienza della letteratura, il folklore o l’antropologia. Le pagine di Longhi or ora citate sono del 1926; la Morfologia della fiaba di Propp è dello stesso anno; le Einfache Formen (Forme semplici) di Jolles, iniziate nel 1923, uscirono nel 1930; le note di Wittgenstein al Ramo d'oro di Frazer furono redatte nel 1931. Nel caso di Propp e di Jolles il punto di partenza dichiarato (forse implicito nel caso di Wittgenstein) erano le riflessioni morfologiche di Goethe 9. In quello di Longhi sarà stato forse Riegl10; e magari, in un rapporto di concordia discors, Morelli, nella cui formazione, tutta da ricostruire, il Goethe morfologo avrà probabilmente contato molto. I sarcasmi di Longhi sul limite fondamentale di Morelli, la mancanza di senso della qualità (ripetuti anche a proposito del tondo della Galleria Borghese)11 non escludono una
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parziale, sotterranea convergenza d’intenti. Longhi è stato più morelliano di quanto volesse ammettere (su questo punto tornerò tra poco); ma mai semplicemente morelliano. La sua morfologia era di gran lunga più articolata e sottile.
3. Ma l’equazione fra Bartolommeo = Sacra Famiglia della Galleria Borghese, raggiunta «di subito», deve, per riuscire convincente, sdipanarsi in un discorso analitico: altrimenti «non si sarebbe intesi, né creduti». La «storia embrionale ed astratta» deve insomma cedere il passo, per ragioni esclusivamente pratiche, a «una storia concreta e secondo le cornimi categorie spaziali e temporali». Attraverso una serie sempre più stringente di confronti formali l’opera è costretta entro classi via via più ristrette, fino ad installarsi perfettamente nella cella denominata «fra Bartolommeo». Si passa da «ultimo decennio del Quattrocento, in Firenze», a «appoggio a Leonardo, parte direttamente e parte... attraverso le ricerche di Piero di Cosimo», a fra Bartolommeo. A questo punto i confronti diventano interni, «giacché soltanto questi parranno ai più sufficienti per valicare dall’affine all'identico»: panneggi, tipi facciali, distribuzione del chiaroscuro, particolari del paesaggio sono accostati a elementi analoghi del-YAnnunciazione di Volterra del 1497, del Giudizio universale del 1499 e così via. Tutti questi raffronti sono esibiti con degnazione: «fissiamo pure», «soltanto questi parranno ai più», «ci asteniamo persino». L’impareggiabile giocoliere che è Longhi aspetta con impazienza che il pubblico attonito arrivi finalmente alla certezza da lui raggiunta da tempo, per altra via: «Ma ci preme, dopo tanta indulgenza alla metodica della dimostrazione (corsivo mio), ritornare al senso della identità qualitativa che sola ci può autorizzare alla conclusione del problema di questo quadro in favore di Fra Bartolommeo».
Ma si tratta davvero di una dimostrazione? Sì, se si intende il termine in senso metaforico, come sinonimo di argomentazione che strappa irresistibilmente il consenso. Ma le analogie formali, esemplificate dall'accostamento di particolari riprodotti o no fotograficamente, e comunque mediate dalla mirabile traduzione in termini verbali, non possono ambire al rigore della dimostrazione. La sovrapposizione perfetta di due figure geometriche che conclude un teorema euclideo (q.e.d.) non è pensabile per due figure di fra Bartolommeo, stante la loro unicità, tante volte proclamata da Longhi. Per lo stesso motivo è da escludere un ricorso alla modellizzazione geometrica, come si è fatto con
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successo nel caso delle forme naturali (cristalli, ovviamente, ma anche foglie o conchiglie)12. Longhi mostra (indica, segnala, fa vedere): non dimostra. E, almeno in questo caso, il ricorso alle «cornimi categorie spaziali e temporali» esemplifica, non prova quella contiguità formale che è emersa sul terreno della «storia embrionale ed astratta».
4. Tutto ciò non infirma minimamente la certezza soggettiva raggiunta da Longhi, né quella ch’egli tanto spesso riesce a comunicare ai suoi lettori. Ma questa scientificità sui generis, legata al tipo di controllo raggiungibile nell’attribuzionistica — che l’assimila, per certi versi, ad altre pratiche conoscitive, per esempio la psicoanalisi — va comunque sottolineata.
Il tondo della Galleria Borghese è privo di qualunque connotazione esterna che consenta di risalire, oltre che all’autore, alla data, al committente, alla collocazione originaria. La via dell’analisi stilistica era perciò obbligata. In altri casi una documentazione esterna esiste, e Longhi non esita a servirsene. Prendiamo il saggio del 1927 su “La Notte” del Rubens a Fermo 13. Sulla traccia dell’indicazione contenuta in una vecchia guida di Fermo, che parlava di un presepio attribuito a Rubens, Longhi entra senza troppe speranze nella chiesa di Santo Spirito, altrimenti detta di San Filippo, aspettandosi tutt’al più «un quadro sufficiente d’un qualche caravaggesco nordico di passaggio per la Marca». Invece scopre proprio un Rubens, «in persona prima». Tuttavia non si limita a questa constatazione, o riconoscimento. Da un esame delle «circostanze storiche esterne» risulta che esistono ottimi «sostegni materiali per convalidare la verisimiglianza e l’antichità di quell’attribuzione», che si scopre risalire al Mengs. Eccoli: «La chiesa di Santo Spirito che, come risulta da un’iscrizione, era stata assegnata ai Padri dell’Oratorio ancor vivo San Filippo Neri (dunque prima del 1595), venne, sul luogo della chiesetta antica, riedificata nella forma presente a cura dell’arcivescovo Alessandro Strozzi, a partire dal 1597; e nel 1607 veniva già consacrata». Discendono da ciò «due singolarissime coincidenze»: «La prima è dell’esser la chiesa retta dagli stessi Filippini che si affidavano al Rubens per decorare la tribuna della loro chiesa in Roma; la seconda, cronologica, è questa che la dedicazione della chiesa di Fermo, epperciò, secondo verisimiglianza, anche la messa in opera dei principali ornamenti mobili, siano intervenute proprio negli stessi giorni che il Rubens dipingeva a Roma per la Chiesa Nuova (1606-1608)». Tutto ciò fornisce la base dell’«ipotesi
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(la pura ipotesi, s'intende) che il quadro fermano, dipinto per ima casa provinciale dei Padri Filippini, da consacrarsi nel 1607, sia stato affidato al Rubens dai padri della capitale onde permettergli di fornire un saggio delle sue facoltà pittoriche, prima di affidargli definitivamente la più rilevante commissione per la casa madre di Roma: Fallar maggiore di Santa Maria in Valli-cella».
Di fronte a questa impressionante convergenza di elementi derivati da serie documentarie diverse, dubitare dell'attribuzione proposta da Longhi sarebbe dissennato. Possiamo dunque, in questo caso, parlare di dimostrazione? Nel senso in cui usualmente si parla di dimostrazioni storiche, certamente. Ma non va mai dimenticato che ogni dimostrazione storica si muove, per sua natura, nell’ordine del probabile, talvolta (come qui) dell’infinita-mente probabile: non del certo. Parafrasando debolmente una pagina deAVApologia della storia di Bloch14, potremmo supporre che il quadro di Fermo sia opera di un allievo o imitatore di Rubens; che l’identità dei committenti Filippini a Roma e a Fermo, così come la presumibile prossimità cronologica delle due opere, siano per l’appunto mere coincidenze; e così via. Si obietterà che l’opera parla pur sempre «in prima persona» a favore di Rubens. Ma si è già visto che quest’evidenza non dà luogo a dimostrazione — né nell’accezione forte della geometria, né in quella debole della storia.
5. Due tipi di argomentazione, dunque: quello interno e quello esterno. Il primo, fondato sulla similarità, mostra analogie formali (morfologiche) che possono arrivare a strappare la certezza soggettiva che due o più opere risalgono allo stesso autore — non necessariamente identificabile in termini anagrafici. Il secondo, fondato sulla contiguità, dimostra la verosimiglianza, in qualche caso l’infinita probabilità che si siano verificate determinate serie di eventi. In base al primo, si riconoscerà la rubensità del Rubens di Fermo. In base al secondo, si affermerà che Rubens dipinse il quadro per i padri Filippini di Fermo, forse prima di ricevere la commissione della casa madre di Roma, e comunque nello stesso giro d’anni. Sarei tentato di accostare il primo tipo di argomentazione al polo metaforico e il secondo al polo metonimico del linguaggio — ricordando che nel suo grande saggio Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia Jakobson aveva attribuito alla dicotomia metafora/metonimia «un significato e... una portata fondamentali per comprendere pienamente
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il comportamento verbale e il comportamento umano in generale» 15.
Ma torniamo a Longhi. Per lui, la superiorità dell'evidenza interna (formale) su quella esterna non è mai stata oggetto di dubbio. Ma si tratta di superiorità, o di anteriorità nell'esperienza di chi indaga? È chiaro che le due cose non si equivalgono affatto. Un conto è la via attraverso cui si giunge, poniamo, all'atto dell'attribuzione; un altro è il peso relativo degli strumenti che consentono di controllarla. Di essi — e in particolare dei controlli di tipo morelliano — Longhi parla con sufficienza, come di materialità superflue, buone per i «tommasini defila critica», al punto di non farli quasi mai entrare in campo direttamente. «Io mi risparmierò per una volta i piccoli controlli d'amministrazione morelliana» scriveva nel 1925, a proposito di un frammento della pala di S. Lucia dei Magnoli di Domenico Veneziano16. «Non mi mancherebbe neanche la possibilità di qualche gioco di pazienza alla morelliana» affermava l'anno dopo, a conclusione dell'attribuzione a Girolamo di Giovanni di un affresco degli Eremitani, «ma lo lascio cui tocca, essendo certo che le convinzioni d'identità figurativa non passano per la scala di servizio» 17. L'ostentato disprezzo nei confronti dei metodi di Morelli non impedisce dunque a Longhi di servirsene, sia pure a fini non euristici. Se non ne parla, è perché essi confermano le sue conclusioni.
Ma in altri casi il ruolo dell'evidenza esterna è ben altrimenti strategico. Si prenda lo splendido saggio del 1943 su Stefano fiorentino. La ricostruzione ex nihilo dell'opera di un protagonista della pittura trecentesca (poi identificato dubitativamente da altri con Puccio Capanna18) s'impernia sull'analisi di ima tavoletta vaticana raffigurante la Madonna in trono tra due angeli, già attribuita a Piero Lorenzetti. Con la consueta maestria Longhi cerca di dare un equivalente verbale dello stile singolarissimo del suo autore, in cui riconosce «una persona nuova della pittura fiorentina». Ma tra gli elementi isolati nella descrizione ce n'è uno che è di carattere esterno, addirittura morelliano — anche se risolto in chiave espressiva: i «nimbi che non son fatti a stampo, ma tracciati a mano, razzano irregolarmente». Ed ecco che Longhi ci fa entrare nel suo laboratorio: la tavoletta vaticana, «preziosa com'è, probabilmente quadretto di devozione privata, par difficile che mancasse di una coperta; in altri termini che, richiudendosi, non si accomodasse con altra di un dittico. Nell'iconografia comune, una Crocefissione a riscontro era quasi di rigore. Ora, rammento che una minuta Crocefissione della raccolta Kress, vista qualche anno fa, mi richiamò alla prima il
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quadretto vaticano. La ragione c'era ad abbondanza perché, posta accanto al centrino della tavoletta di Roma, tutto tornava perfettamente: misure, bulinatura del margine, nimbi come razzati a caso; la nuova tavoletta, cioè, privata dei margini (ora smarriti), era stata divelta da un'inquadratura corrispondente all'altra. E qui la nazione fiorentina dell'autore è anche più certa...».
Segue a questo punto un'analisi dei caratteri stilistici della tavoletta Kress. Ma gli elementi che hanno consentito questo passaggio sono, con tutta evidenza, esterni: l'iconografia, le misure, la bulinatura, i nimbi razzati. Gli stessi nimbi, del resto, ritornano in uno degli affreschi di Assisi ricondotti da Longhi al misterioso «Stefano», la Crocefissione: «non paia troppa sottigliezza rilevare che fin le raggière dei nimbi — che pure, nell'affresco, si facevano a stampo sulla calcina — razzino irregolarmente; per la stessa ragione, oscuramente impressionistica, che aveva indotto a graffiare a mano e incertamente, sull'oro, i nimbi del dittichetto vaticano» 19.
6. Un saggio come questo — vero e proprio diario di ricerca — smentisce di fatto l'affermazione tante volte ripetuta da Lon-ghi sul carattere intrinsecamente subalterno delle serie non stilistiche ai fini della ricostruzione di personalità artistiche. L’iconografia, le misure, la bulinatura, i nimbi razzati che hanno permesso a Longhi di ricostituire il dittico vaticano, hanno fatto anche apparire per la prima volta il suo autore sulla scena della storia dell'arte italiana. In questo caso, tra «il modo in cui il critico giunge alla verità» e la sua presentazione non c'è, come avveniva nel caso del tondo di fra Bartolommeo, divario, bensì perfetta coincidenza. Non c'è rischio, qui, di non «essere intesi, né creduti». Ci si muove sul terreno della dimostrazione — e sia pure nei limiti intrinseci alla dimostrazione storica. In teoria, l’identità delle misure, della bulinatura ecc. potrebbero essere altrettante coincidenze: ma solo in teoria. La convergenza delle varie serie rende infatti questa probabilità praticamente pari a zero.
Naturalmente, un conto è affermare che le due tavolette fanno parte dello stesso dittico, e un altro è affermare che esse risalgono a un unico autore. L'eventuale divergenza della serie stilistica aprirebbe nuove difficoltà. Ma quando mostrare e dimostrare convergono (purtroppo non è sempre possibile) non si ottiene soltanto un controllo più solido dei risultati. S’invalida anche la tesi estremistica sostenuta da Longhi nel 1920, secondo cui le «serie di sviluppo storico» costituite dalle opere d’arte
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sarebbero in un rapporto «inessenziale» con «una qualsiasi serie cronografica». È lo stesso Longhi, di fatto, a mostrarlo, per esempio nella mirabolante ricostruzione del disperso polittico Griffoni dipinto da Francesco del Cossa e, in minor misura, da Ercole de' Roberti per San Petronio. Seguiamo le tappe dell'argomentazione. Anzitutto, i due Santi e il tondo raffigurante la Crocefissionet oggi a Washington, sono ricondotti, su basi stilistiche, al Cossa (cosa che era stata messa in dubbio da qualcimo per il tondo). L'impianto prospettico «di sottinsù» che li caratterizza, mostra che essi costituivano la parte superiore di un polittico. L’ipotesi risulta iconograficamente plausibile, in quanto derivazione da modelli toscani. Confrontati con i due Santi di Brera, già riconosciuti parte del polittico, i due Santi di Washington «parlano di un'unità d'opera e di momento espressivo». Compaiono a questo punto perfino le prove «morelliane» — per una volta evocate davvero, anche se con l'immancabile sarcasmo, e non taciute: «Il Morelli avrebbe puntato grosso sulla ruga che si forma sul dorso delle mani, alla piegatura del mignolo. Vada anche per la ruga». E finalmente, le dimensioni: «Ma, e se lo stile s'accorda, che cosa dirà la carpenteria? Coraggio, ché mi dà ragione ad un segno che non avrei ardito pretendere. Le tavole dei Santi Liberale e Lucia misurano di largo 555 millimetri e 550 millimetri misurano i due Santi di Brera; la tavola di San Vincenzo a Londra è larga 595 millimetri e il diametro del tondo della Crocefissione è di millimetri 592. Non si poteva umanamente esigere una precisione maggiore dal marangone che apprestò al Cossa le tavole per l’altare Griffoni...»20. Conclusione trionfale, a cui si aggiunge la conferma della datazione proposta per via di stile — 1470-75, con un inizio probabile prima del 1474 — che giunge dalla pubblicazione di un documento certificante- come già il 19 luglio 1473 venisse pagato «al noto intarsiatore cremasco Agostino de Marchi la cassa “quam fecit circa tabulam altaris Floriani de Grifonibus”»21.
Attorno al polittico di San Petronio vediamo dunque affollarsi non solo i pittori — Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti — ma il committente Floriano de’ Griffoni, sua moglie (con ogni probabilità si chiamava Lucia) 22, l’intarsiatore Agostino de' Marchi, l'anonimo marangone. L'opera d'arte esce dalla sfera separata in cui aveva cercato di relegarla polemicamente la «critica figurativa pura» del giovane Longhi, per entrare in un ambito più vasto e impuro. Ciò che consente la traducibilità reciproca delle varie serie documentarie è la materialità dell'oggetto, da im lato — e la datazione assoluta, dall’altro. L’unicità della serie calendariale
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entro cui s'inscrivono tanto la data del polittico quanto quella del documento notarile apre la via a convergenze analoghe con un numero iteoricamente illimitato di serie documentarie. La via di una storia sociale dell'arte che parta dalla concretezza dell'opera e vi ritorni, senza perdersi in vacue generalità, passa a mio parere di qui.
Il
1. Nella prefazione alle Indagini su Piero identificavo nella datazione l'elemento teoricamente più rilevante delle mie ricerche. Il punto di frizione tra l'indagine sui committenti e l'iconografia da un lato, e il lavoro dello storico-conoscitore dall'altro, stava infatti a mio parere nella pretesa di spostare la datazione di alcune opere di Piero, a cominciare dalla sua maggiore. Una risposta che ribadisse l'impossibilità stilistica delle datazioni da me proposte, è finora mancata. Eppure solo in questo modo sarebbe possibile valutare il peso rispettivo delle risultanze stilistiche e extra-stilistiche, saggiandone l'attendibilità. Nei casi in cui tutte le serie convergono, infatti, gli storici dell'arte possono continuare tranquillamente a sostenere, come suona una battuta cara a Castelnuovo, che tutte le serie sono uguali, ma una (quella stilistica) è più uguale delle altre. Nel risentimento corporativo manifestato da più parti nei confronti del mio libro mi par lecito vedere il tentativo di difendere non solo un campo disciplinare ben cintato, ma anche una concezione dell'arte come fortilizio ben protetto — quella concezione che l'insistenza sulla datazione assoluta come luogo di incontro di serie documentarie (e quindi di rapporti sociali) molteplici mira appunto a scalzare.
Le critiche che mi vengono rivolte da Pinelli sono naturalmente del tutto diverse. Egli condivide il mio progetto, ma ne contesta, in tutto o in parte, l'esecuzione. Dà implicitamente per scontato, suppongo, che buona parte del suo lavoro di storico dell’arte si muove in un ambito in cui è possibile solo mostrare, non dimostrare: ma pretende che, sul terreno che mi sono ritagliato, la dimostrazione o prova sia davvero rigorosa. Niente di più giusto. Il guaio è che, a giudicare dal test microscopico costituito dalle reazioni al mio libro, sembra che oggi in Italia, tra gli storici dell'arte, i criteri per definire una prova rigorosa siano molto variabili. La mia interpretazione del Battesimo secondo Zeri merita IO23; secondo Pinelli, con tutto il rispetto per Zeri, al massimo 2; e l'esemplificazione potrebbe continuare.
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Forse non si tratta soltanto di una normale divergenza tra studiosi: la «crisi dei paradigmi» di cui ha parlato Castelnuovo riecheggiando Kuhn, non coinvolgerà, oltre ai problemi e ai metodi della storia dell’arte 24, anche i suoi strumenti di controllo?
2. La nozione di prova è ovviamente desunta dall’ambito giuridico. Purtroppo non sono in grado di dare un quadro, neppure sommario, delle trasformazioni che essa ha subito allorché è stata applicata alla storiografia. (Balza agli occhi, per esempio, che una massima come quella del diritto romano unus testis, nullus testis, se intesa letteralmente invaliderebbe interi settori disciplinari). In generale, mi pare che si possa dire che l’emergere di settori di ricerca radicalmente nuovi implica anche l’elaborazione di nuovi criteri di prova: donde la corrente obiezione che tali ricerche incontrano generalmente nella loro fase iniziale, di essere cioè indimostrate, o addirittura indimostrabili (alla luce dei criteri di prova tradizionali, s’intende). Ciò si è verificato puntualmente in campi d’indagine estranei alla storiografia — si pensi alla teoria dell’evoluzione, alla fisica atomica e subatomica, e oggi a certi settori dell’astrofisica. In ambito storiografico, le obiezioni rivolte alle indagini sulle culture orali del passato mi sembrano rientrare, fatte s’intende le debite proporzioni, in una casistica analoga.
A queste ultime ricerche accostavo (p. XIX) le indagini sull’iconografia, dato che, nell’Italia del ’400, la possibilità di rintracciare la prova documentaria di programmi iconografici espliciti è estremamente ridotta. Ciò non toglie che in questo periodo si manifestino vere e proprie innovazioni che piegano l’iconografia tradizionale a nuovi significati. Come decifrarle? e come controllare i risultati di questa decifrazione?
L’interpretazione può scaturire soltanto dalla contestualizzazione dell’anomalia: ossia dal suo inserimento in una serie, sia pur minima. Nel caso del Battesimo, la stretta di mano dei due angeli è certamente anomala. L’analogia, proposta da de Tolnay, con la medaglia di Niccolò Fiorentino raffigurante la Concordia, mi pare indubbia. Pinelli ritiene «possibile» l’allusione alla concordia religiosa raggiunta dal concilio di Ferrara-Firenze, ma ironizza «sull’esoterico ammiccamento ad un pubblico seleziona-tissimo di iniziati» postulato da un’interpretazione del genere (e da altre analoghe). Eppure non c’è dubbio che il ritratto di Giovanni Vili Paleologo in veste di Costantino raffigurato nella Battaglia di Costantino e Massenzio ad Arezzo fosse riconoscibile solo da un pubblico selezionato — certo più selezionato di quello
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in grado di riconoscere nel ciclo di Piero la storia della vera Croce. Ma la stretta di mano dei due angeli, continua Pinelli, «può riferirsi a cento altre cose di cui non siamo a conoscenza». L'obiezione mi pare sinceramente un po' comoda — e curiosamente simile, penso al di là delle intenzioni di Pinelli, a quelle che sono soliti rivolgere i sostenitori dell'intrinseca inconcludenza delle indagini iconografiche. Chi ritiene che esse non siano un passatempo inutile deve, credo, opporre a una proposta interpretativa specifica obiezioni specifiche, non generiche.
Ma la vera perplessità di Pinelli scatta di fronte al mio tentativo di convalidare l'interpretazione iconografica che vede nel Battesimo un'allusione al concilio del 1438-39, con una ricostruzione della sede originaria della tavola e della sua committenza. La mia ricostruzione, che riprende, correggendole in un punto, le ricerche di don Agnoletti, si baserebbe in fondo, secondo Pinelli, su un argomento ex silentio: «la mancata menzione del Battesimo tra i beni della prioria di S. Giovanni Battista quando questa, nel 1807, fu soppressa». È pur vero che Pinelli non esita, a sua volta, a servirsi di un argomento ex silentio contro la mia ipotesi che connette l'iconografia del ciclo di Arezzo all'intervento di Bessarione («Dopo tutto, occorre valutare anche i silenzi e nelle immagini di Arezzo non c'è nulla che alluda direttamente al celebre cardinale»). Ma non voglio farmi forte di una ritorsione polemica. Mi preme piuttosto osservare che la validità di un argomento ex silentio è direttamente proporzionale all'esaustività della fonte considerata: un conto è, poniamo, la mancata menzione di una reliquia nella relazione di un viaggiatore, un altro la mancata menzione di un vescovo in procinto di diventare cardinale in un elenco ufficiale di nuovi porporati. Nel primo caso, concludere che la reliquia in quel momento non si trovava in loco, sarebbe assurdo; nel secondo, concludere che la nomina a cardinale del vescovo in questione era stata rinviata, sarebbe doveroso (fino, s’intende, a prova contraria). L'elenco ottocentesco dei beni della prioria di San Giovanni Battista al momento della sua soppressione mi pare avvicinarsi piuttosto al secondo caso (sui rapporti di Bessarione col ciclo di Arezzo tornerò tra poco). È pur vero che la mia ricostruzione della committenza del Battesimo è basata su documenti integrati da ipotesi (come quasi tutte le ricostruzioni storiche, del resto). Ma quando Pinelli scrive che «con vera sorpresa, vediamo Ginzburg abbandonare la più elementare cautela filologica e asserire che senz'altro il Battesimo di Piero fu dipinto per quella cappella [dedicata a S. Giovanni
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Battista nella Badia]», confesso che, con vera sorpresa, vedo Pinelli abbandonare la più elementare cautela filologica per farmi dire quello che non ho detto. Scrivevo infatti, a p. 11 del mio libro: «Per questo aitare, secondo l’acuta ricostruzione dell'Agno-letti, Piero dovette dipingere il Battesimo. Si tratta di un'ipotesi, che potrebbe essere comprovata soltanto dall'atto di committenza, finora irreperibile. Ma si tratta di un'ipotesi che ha un grado elevatissimo di probabilità». Non sta certo a me ricordare a Pinelli che tra «asserire senz’altro» e proporre un'ipotesi, sia pure con «un grado elevatissimo di probabilità», c’è una bella differenza. È vero che subito dopo affermavo, forzando un po' la mano, che l’interpretazione iconografica della Tanner, che Pinelli ritiene «plausibile», risultava «provata al di là di ogni ragionevole dubbio». Non penso che i dubbi di Pinelli siano ir ragionevoli. Mi pare però che egli sottovaluti la convergenza che scaturisce dalle varie serie documentarie: iconografia, collocazione originaria, committenza, stile, datazione. Convergenza tra ipotesi, certo: ma ipotesi argomentate. Anche la datazione assoluta delle opere d'arte su basi stilistiche, del resto, è spesso intrinsecamente ipotetica, come credo di aver mostrato nell'introduzione al mio libro: ma questo non impedisce agli storici dell’arte di praticarla di continuo, con risultati spesso eccellenti.
3. Nell’aver buttato la carta «Giovanni Bacci» sul tavolo verde degli studi su Piero della Francesca, Pinelli vede il maggior contributo delle mie Indagini. Non mi è chiaro, tuttavia, in che modo a suo parere questa carta avrebbe dovuto essere giocata. Il mio tentativo di far coincidere i mutamenti iconografici e stilistici, riscontrabili nel ciclo di Arezzo a partire dalla seconda fascia, con la committenza di Giovanni Bacci e il ritorno di Piero dal soggiorno romano (entrambi gli eventi si verificano nello stesso anno 1459) non è discusso da Pinelli. L'argomento che mi faceva ritenere una «certezza — o quasi» (p. 36) l’intervento come ispiratore iconografico del Cardinal Bessarione, che nel 1458 era diventato protettore dell'ordine dei frati minori e, attraverso Giovanni Tortelli, poteva benissimo aver conosciuto il parente di questi, l’umanista Giovanni Bacci, viene liquidato da Pinelli con una pudica concessiva («Pur considerando l’episodio della reliquia della croce ereditata da Bessarione...»). A me invece quell’argomento continua a sembrare risolutore (fino, s'intende, a prova contraria) perché, come scrivevo (p. 37) la reliquia ereditata da Bessarione nel 1459 è, «tra tutte quelle sparse allora per l’Italia... l’unica a giustificare l’inclusione nel ciclo di Piero
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del ritratto di Giovanni Vili Paleologo». Ancora una volta, è la convergenza delle serie (inclusa quella cronologica, straordinariamente serrata) a ridurre al minimo l'eventualità, in teoria sempre possibile, di trovarsi di fronte a ima malaugurata somma di coincidenze. Tutto ciò non mi sembra infirmato dalla già ricordata mancanza, rilevata da Pinelli, di allusioni dirette a Bessarione sui muri di Arezzo — mancanza che sarebbe in contraddizione con il ruolo che gli ho attribuito. Ma io ho parlato di Bessarione semplicemente come di colui che «suggerì» (p. 38) al committente Giovanni Bacai l’inclusione del ritratto di Giovanni Vili Paleologo, e più in generale l’accentuazione della presenza di Costantino nel ciclo. Se, mentre scrivevo il mio libro, avessi fatto in tempo a leggere il saggio di Settis su Artisti e committenti fra Quattro e Cinquecento25 (che anche a me pare bellissimo) avrei più precisamente attribuito a Bessarione l'«in-ventio», almeno parziale, della seconda parte del ciclo di Arezzo.
4. E arriviamo alla Flagellazione, cui è dedicata metà del libro. Una discussione analitica era resa inevitabile dall’assoluta mancanza di notizie sulla committenza, datazione e collocazione della tavola, nonché dalla sua misteriosa, dibattutissima iconografia. Pur avendo formulato su tali questioni una serie di proposte precise (troppo, secondo quasi tutti i miei critici) concludevo a malincuore che la mia interpretazione era «in buona parte congetturale» (p. 94). Alcune difficoltà sostanziali le formulavo del resto io stesso (vi ritornerò tra poco). Molte altre sono state sollevate da quanti si sono occupati del mio libro.
Tra i punti messi in discussione ve ne sono alcuni che ritenevo, e ritengo, solidissimi: primo fra tutti, la datazione della tavola. Si tratta di un punto sostanziale, anche perché la mia proposta contraddice quella, giovanile, proposta su basi stilistiche da Longhi (che da ultimo la spostò leggermente in avanti, pur continuando a ritenere la tavola anteriore all’inizio del ciclo di Arezzo (pp. XIV-XV)). Ma mi pare che gli echi lateranensi riscontrati nella scena della flagellazione sullo sfondo siano troppo precisi per non presupporre il viaggio di Piero a Roma del 1458-’59: in particolare, il rapporto 1:10 esistente tra l’altezza di Cristo nella tavola di Piero e l’altezza della mensura Christi — le colonne venerate come reliquie in Laterano perché si credeva che la loro misura corrispondesse alla statura di Cristo. Anche qui qualcuno potrebbe sospettare una coincidenza; oppure potrebbe essere indotto a formulare ipotesi controfattuali più o meno macchinose — che so, un pellegrino che porta a Piero da Roma
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una cordicella con la misura dèlie colonne. Francamente mi sembra più sensato supporre che Piero abbia visto coi propri occhi e misurato personalmente le colonne. Ma Zeri, che trova «del tutto fuorviante» la mia interpretazione della tavola, obietta: «come è possibile credere che le quattro colonne di marmo della “mensura Christi” siano quelle oggi nel chiostro lateranense? Le colonne riprodotte... sono del Quattrocento, e del Quattrocento molto avanzato, forse persino posteriori al soggiorno di Piero a Roma»26 (corsivo mio). È chiaro che, se fosse possibile dimostrare con certezza che le quattro colonne risalgono a ima data posteriore al soggiorno di Piero a Roma (1458-’59) il mio argomento cadrebbe clamorosamente. Una datazione al «Quattrocento molto avanzato» costituirebbe un'obiezione già meno grave; e una datazione genericamente quattrocentesca, non costituirebbe un’obiezione affatto. Ora, nel mio libro ricordavo (p. 72) che la più antica menzione delle quattro colonne è del 1484 — un quarto di secolo dopo il viaggio romano di Piero. Già a quella data, però, la reliquia era circondata da una straordinaria venerazione, al punto che il pontefice (in quel caso Innocenzo Vili) vi sedeva dinanzi durante la cerimonia dell'incoronazione. Ciò esclude, affermavo, che si trattasse di una reliquia scoperta o confezionata di recente (p. 98, nota 36). Il Lauer aveva supposto «che la pietra fosse una reliquia della tavola dell’Ultima Cena, recante la scritta “mesa Christi”, poi decifrata erroneamente “mensura Christi”» (ibid., nota 35). Quest’ipotesi è forse confermata da una testimonianza che mi era sfuggita. Il Liber de ecclesia Lateranensi di Giovanni Diacono (1170) elenca tra le reliquie appunto una «mensa- Domini» ^. Non voglio sostenere che si trattava della stessa pietra oggi nel chiostro lateranense: ma proprio perché oggetto di antichissima venerazione, la pietra sarà stata a un certo punto rifatta e quindi reinterpretata, secondo l’acuta ipotesi del Lauer, come «mensura Christi».
Il rapporto della Flagellazione con le reliquie e le antichità lateranensi stabilisce un termine cronologico ante quem non (1458-’59), che ho proposto di tramutare, seguendo Clark, in un termine ad quem molto ravvicinato sulla base dell’interpretazione iconografica. Prima di discutere nuovamente la controversa identificazione dei tre personaggi in primo piano, vorrei ribadirne il presupposto: l’aver ricondotto la loro anomala distanza dalla scena in secondo piano a una distanza anche ontologica tra realtà e discorso figurato, pronunciato dall’uomo barbuto. Il confronto con il Sogno di Innocenzo III di Benozzo Gozzoli continua a sembrarmi probante: e non capisco perché l’aver supposto che
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Piero in viaggio verso Roma facesse una deviazione verso Monte-falco, sia apparso a Previtàli una di quelle «“ipotesi di comodo0 per cui sono tristemente noti proprio gli storici dell'arte abituali»28. Il suo maestro (mio purtroppo solo attraverso gli scritti) Longhi ha pur ipotizzato un viaggio di Correggio a Roma o di Caravaggio a Firenze, testimoniati solo dai rispettivi quadri. Ora, una deviazione occasionale di Piero a Montefalco non è un viaggio a Roma: sarebbe veramente straordinario trovarne tracce in cronache o libri di conti. Ma di quel viaggio esistono i documenti pittorici: la Flagellazione, come proponevo, e gli affreschi di Arezzo. Quando ci si deciderà a tener conto della cronologia reale, rovesciando il rapporto pigramente ripetuto tra il ciclo di Arezzo e quello di Montefalco (p. 67), quest’ultimo acquisterà il posto che gli compete nella storia della pittura italiana del Quattrocento. Ma tra le superstizioni che deformano la datazione su basi esclusivamente stilistiche c’è quella che fa necessariamente coincidere, tra due opere connesse tra loro, priorità cronologica e superiorità qualitativa29.
E veniamo al personaggio a destra in primo piano, da me identificato con il committente della Flagellazione, Giovanni Bac-ci. Il presupposto fisiognomico di questa identificazione — i tre profili raffigurati niella tavola di Urbino, nel polittico di Sanse-polcro e in un affresco di Arezzo — è minutamente riesaminato da Pinelli. Egli ammette che «le somiglianze ci sono»; elenca a sua volta i tratti comuni (stempiatura, pinguedine, grosso collo ecc.); riscontra nasi simili (tranne nel caso di Urbino, dove il confronto è purtroppo impossibile); forme del cranio simili, tranne nel profilo di Sansepolcro (il che mi sembra insostenibile data la presenza di un pentimento identico a quello di Urbino, cfr. pp. 63-64); orecchi simili, tranne quello di Urbino, «sensibilmente diverso» (affermazione certo eccessiva e comunque riferita a orecchi diversi, dato che il profilo di Urbino è voltato verso sinistra rispetto all’osservatore, mentre gli altri due profili sono voltati verso destra). Perché non fare ancora uno sforzo, e ammettere che si tratta della stessa persona?
Pinelli però mette in dubbio, come già altri prima di lui, che i tre profili siano ritratti, e non tipi fisici ricorrenti. Ma nessun tipo fisico con queste precise caratteristiche è mai stato raffigurato da Piero in altri dipinti. Certo coesistono in Piero due tendenze fisiognomiche, quella generica e tipizzante e quella precisa e individualizzante: ma quando Pinelli afferma che i suoi ritratti più riconoscibili «coincidono proprio con quelli di personaggi pubblici arcinoti», cade in un circolo vizioso. Se
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disponessimo di medaglie raffiguranti Giovanni Bacci come ne abbiamo per Sigismondo Malatesta o per Federico da Montefeltro, anche il riconoscimento non porrebbe problemi (posto che io abbia ragione). Ma come passare dall'identità fisiognomica del personaggio per tre volte effigiato da Piero all'identità anagrafica — a Giovanni Baoci? Stranamente Pinelli non menziona il mio argomento — che è unico ma a mio parere assai solido, fino a prova contraria: e cioè che l'unico tra i Bacci raffigurati nella Decapitazione di Cosroe che fosse in grado di comparire anche in un quadro come la Flagellazione, destinato (anche qui fino a prova contraria) a Federico da Montefeltro, era appunto Giovanni (p. 66). Questa identificazione pone alcuni problemi, giustamente rilevati da Pinelli: in primo luogo, la presenza, «per motivi che ci sfuggono» come avvertivo io stesso (p. 94), del Bacci nel polittico di Sansepolcro. In secondo luogo, il ricchissimo manto indossato nella Flagellazione sembra inadatto a un semplice ex-podestà di Gubbio (ma su questo punto tornerò tra poco). In terzo luogo, la differenza di età tra i personaggi della famiglia Bacci nell’affresco di Arezzo, non corrispondente alla mia proposta di identificazione: difficoltà a mio parere marginale, che Pinelli stesso cerca di risolvere con argomenti plausibili, e che comunque non intacca in nessun modo l'identificazione di Giovanni, che come si è visto poggia su tutt’altre basi.
5. Veniamo invece a quello che, per mia stessa ammissione, è il vero punto debole deH’interpretazione da me proposta: l’identificazione deU'uomo barbuto con il Cardinal Bessarione. Se essa dovesse risultare insostenibile, cadrebbe anche l’identificazione del giovane biondo con Buonconte da Montefeltro (p. 93).
A proposito di quest’ultima Pinelli mi obietta che «la tradizione che identifica il giovane al centro con Oddantonio da Montefeltro è liquidata con troppa facilità, anche perché non risale al ’700, come si afferma ripetutamente nel testo, ma per lo meno alla fine del ’500, come si può dedurre, implicitamente, da una nota». In realtà, nella prefazione scrivevo (p. XIV): «Anche se l’erronea identificazione del giovane biondo con Oddantonio è documentata fin dal tardo '500 (più di un secolo dopo, comunque, l'esecuzione delia tavola)...». Questo per l’esattezza. A uno scambio, certo non impossibile a cent’anni di distanza, tra due membri della casata dei Montefeltro, Buonconte e Oddantonio, accennavo più oltre nel testo (p. 93). Vedo che Pinelli non porta nessun elemento nuovo a sostegno della vecchia (e a mio parere insostenibile) interpretazione imperniata su Oddantonio. Ma la
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mia proposta poggia, ripeto, suH’identificazione dell'uomo barbuto con Bessarione, ostacolata da due difficoltà che dichiaravo «gravissime» (p. 81): l'età, troppo giovanile, e l’abito, privo di insegne cardinalizie. Ora, nel 1459, quando (secondo la mia interpretazione) si sarebbe svolta la scena raffigurata da Piero, Bessarione aveva 56 anni ed era da tempo cardinale.
Recensendo le Indagini, Settis ha indicato in quale direzione si debba cercare la soluzione dell'enigma: «Se il personaggio che (...) parla della Flagellazione “è" Bessarione, la sua età e il suo vestito sembrano retrodatare il colloquio (non il quadro!) a “prima” del cardinalato (1439)» 3°. Una proposta, come si vede, semplicissima — ma bisognava arrivarci. Il mio errore è stato quello di voler identificare la scena rappresentata da Piero (che, continuo a pensare, si svolge in un luogo e in un tempo precisi) agganciando il «quando» al «dove» anziché viceversa, e facendo poi coincidere datazione della tavola e datazione della scena raffigurata in primo piano. L’argomentazione che mi portava a concludere che la tavola venne dipinta nel 1459, verosimilmente tra Roma e Arezzo, mi pare ancora ineccepibile. Non così la datazione e localizzazione del discorso dell’uomo barbuto sulla flagellazione di Cristo. Esse sollevano varie difficoltà, più o meno gravi, che provo a riepilogare:
1) l’età troppo giovanile del presunto Bessarione (in una lettera Settis mi ha fatto notare che il personaggio raffigurato da Piero ha oltre tutto ima barba molto più corta di quella che appare nei ritratti, tutti in età avanzata, di Bessarione);
2) la mancanza di contrassegni cardinalizi;
3) revocazione in veste di Pilato di Giovanni Vili Paleologo, che nel 1459 (osserva ancora Settis) era già morto;
4) il ricchissimo abito (su cui si è soffermato Pinelli) indossato da Giovanni Bacci, che nel 1459 era, per quanto sappiamo, un privato cittadino;
5) l’impossibilità di riconoscere, come mi ha obiettato Zeri31, il palazzo lateranense nell’edificio che s’intravede dietro le spalle di Giovanni Bacci.
Tutto ciò m’induce a correggere in un punto sostanziale la mia ricostruzione, seguendo la pista suggerita da Settis prima nella sua recensione, e poi più ampiamente nella lettera or ora ricordata: la scena in primo piano si sarebbe svolta «quando Giovanni Vili era imperatore / e Bessarione non era cardinale / e Giovanni Bacci? (il suo è il costume a cui aveva diritto nel 1439?)». L’ipotesi che sto per formulare non solo risolve le
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difficoltà già elencate, ma chiarisce in maniera a mio parere convincente un particolare del quadro rimasto fin qui inespiicaito.
6. Bessarione fu creato cardinale il 18 dicembre 1439 (il 4 gennaio 1440 ricevette il titolo dei Santi Apostoli in absentia) mentre ormai con gli altri greci reduci dal concilio veleggiava verso Costantinopoli, dove arrivò il 1° febbraio 1440 dopo una traversata eccezionalmente lunga, durata tre mesi e mezzo. Si ritiene comunemente che di questa nomina egli non fosse informato, anche se fin dall’11 agosto papa Eugenio IV gli aveva offerto una ricca pensione a patto che si trasferisse in Italia, e possibilmente a Roma. Nel corso del 1440 (in ogni caso dopo il 4 maggio, allorché partecipò all’elezione del nuovo patriarca) Bessarione lasciò Costantinopoli, dove non doveva tornare più; il 10 dicembre ricevette a Firenze il cappello cardinalizio32. Evidentemente nel frattempo aveva ricevuto la notizia ufficiale della nomina a cardinale. Quando e da chi, non sappiamo.
Nella brevissima notizia biografica (la più antica rimastaci di lui) redatta a metà del ’600 da Alessandro Certini di Città di Castello, Giovanni Bacci viene definito «chierico di camera, nun-tio a Cesare, iurisconsulto celeberrimo». Avevo proposto (p. 43 nota 26) di riferire le parole «nuntio a Cesare» (ossia all’imperatore) all’ambasceria svolta dal legato pontificio Francesco Con-dulmer a Costantinopoli nel 1444-’45; in essa però il Bacci avrebbe svolto in ogni caso una parte di secondo piano, mal conciliabile con la qualifica di «nunzio». Quest’ultima sarebbe invece del tutto giustificata se il Bacci nel 1440 fosse stato nominato nunzio straordinario, col compito di portare a Costantinopoli la notizia che Bessarione aveva ricevuto il titolo di cardinale. Bacci era allora chierico di camera, e ben accetto a Eugenio IV anche perché parente di quel Giovanni Tortelli che era appena tornato da una missione politica e religiosa (oltre che culturale) svolta in Grecia e a Costantinopoli.
Si tratta di un’ipotesi, perché la conferma documentaria di un viaggio di Bacci a Costantinopoli nel 1440 per il momento manca. Proviamo a accettarla provvisoriamente. Si spiegherebbero allora: 1) l’aspetto giovanile di Bessarione, di cui Piero avrebbe tracciato un ritratto idealizzato per raffigurare un uomo che nel 1440 aveva 37 anni; 2) la mancanza di contrassegni cardinalizi nell’abito di Bessarione; 3) la presenza di Giovanni Vili Paleolo-go, che nel 1440 era imperatore, nelle vesti di Pilato; 4) lo splendido abito del Bacci, certo appropriato a un nunzio pontificio (anche la vivezza del suo sguardo, ben diverso da quello un
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po’ spento dei profili di Sansepolcro e di Arezzo, potrebbe essere attribuita alla volontà di Piero di ringiovanire il modello); 5) la presenza di echi lateranensi unicamente nella scena della flagellazione di Cristo, in quanto la scena in primo piano si svolge non a Roma ma a Costantinopoli — ovviamente una Costantinopoli di fantasia. All'interno di quest'ipotesi propongo di riconoscere nella «lunga sciarpa rossa, discretamente ma visibilmente raffigurata, che dalla spalla destra [del Bacci] gli scende fin quasi alla caviglia» (p. 88) un particolare decisivo della scena — la fascia cardinalizia che il Bacci si appresta a consegnare a Bessarione come simbolo della carica che gli è stata conferita, in sua assenza, dal pontefice33.
Proviamo allora, tenendo conto di questa proposta di correzione, a rileggere il quadro. Nel 1459 Giovanni Bacci commissiona a Piero della Francesca una tavola che deve rievocare, a quasi vent’ainni di distanza, il culmine della propria carriera politica: la missione compiuta a Costantinopoli nel 1440. Ma questa rievocazione ne contiene un'altra: quella della flagellazione di Cristo. La scena sullo sfondo visualizza infatti il discorso con cui Bessarione accetta la nomina a cardinale di Scinta Romana Chiesa, decidendo con ciò di abbandonare (e sarebbe stato per sempre) Costantinopoli e la chiesa greca di cui era imo dei rappresentanti più illustri. Il discorso può essere decifrato così: con il suo comportamento pilatesco Giovanni Vili Paleólogo, che di fatto favorisce il partito ostile ai deliberati del concilio (p. 87), si rende complice del martirio che il Turco si appresta a infliggere ai cristiani d'Oriente, simboleggiati dal Cristo avvinto alla colonna. A entrambi — l'imperatore e il Turco — Bessarione applica il versetto «convenerunt in unum» giustificando con ciò l'aiccettazione dei titolo cardinalizio. Di fronte alle sciagure che minacciano la cristianità, la scelta a favore di Roma è l'unica che consente di salvare l'ideale vacillante dell'unità tra le chiese cristiane.
In quanto allusione alla liturgia del Venerdì santo (pp. 68-69) il versetto data la scena al 25 marzo 1440. Poiché, come si è detto, Bessarione fu nominato cardinale il 18 dicembre 1439, si può presumere che il nunzio incaricato di trasmettergli la notizia lasciasse l'Italia poco dopo. Sarà arrivato a Costantinopoli — supponendo una traversata di durata media — verso la metà di marzo. Sappiamo d'altra parte che il 4 maggio 1440 Bessarione si trovava ancora a Costantinopoli. Tutto ciò rende plausibile la datazione della scena che è stata appena proposta.
Naturalmente non abbiamo bisogno di supporre che Bessarione abbia pronunziato davvero queste parole nell'atto di ricevere
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la fascia cardinalizia da Giovanni Baoci, inviato di papa Eugenio IV. Si tratta di una profezia ex post, che allude a eventi posteriori al 1440 — la distruzione di Costantinopoli del 1453, anzitutto, e poi l’invasione della Morea del 1458-’59. Richiamando nel 1459 la prestigiosa missione compiuta a Costantinopoli un ventennio prima, Giovanni Bacoi non si limitava a soddisfare la propria personale vanità. Il suo era anche un gesto politico rivolto a Federico da Montefeltro — un'esortazione alla crociata attraverso il muto discorso di Bessarione — compiuto verosimilmente in accordo con quest’ultimo. Nel presente — ossia nell’anno 1459 — l’appello all’unità delle chiese (evocato da un gesto simile, come fa notare Zeri, a quello dell’angelo di sinistra nel Battesimo di Londra34) e l’incitamento a prendere le armi contro i turchi facevano tutt’uno. Ma sul significato politico e religioso immediato della tavola di Piero non mi resta che rinviare a quanto ho già scritto (pp. 85 ss.).
E Buonconte? Nel 1440 egli non era ancora nato; ma per i riguardanti, nel 1459, egli era morto da poco. Quasi a evocare questa duplice assenza, Piero gli ha dato forme angeliche, ma lo ha isolato dalla scena circostante. Eppure la sua raffigurazione era necessaria — se, come ho supposto, l’appello alla crociata era rivolto a Federico da Montefeltro anche in nome del morto figlio di lui, «potenziale soldato di Cristo» (p. 92) perito prematuramente.
7. Una somma d’indizi, mi ricorda implicitamente Pinelli, non è ancora ima prova. Non mi sogno di sostenere che la mia lettura della Flagellazione riveduta e corretta nel senso che si è visto, sia dimostrata. Mi chiedo però quale documento potrebbe convertire questa lettura largamente indiziaria in una vera e propria dimostrazione. Perfino l’eventuale accenno a una missione come nunzio a Costantinopoli nel 1440 nella lapide (purtroppo irrimediabilmente perduta) che certamente adornava il distrutto monumento funebre di Giovanni Bacci in S. Maria Nova (p. 110) non sarebbe sitata una prova definitiva. Esso avrebbe fornito alla mia ricostruzione un ulteriore dato di fatto su cui poggiare — ma avrebbe lasciato in piedi altre ipotesi indimostrate. Bisognerebbe allora dimostrarle tutte? Ma è possibile, in quest’ambito, dimostrare tutto? Sarebbe assurdo condannare come antiscientifica la pretesa dei conoscitori di avanzare — spesso in tono tutt’altro che ipotetico — attribuzioni su basi esclusivamente stilistiche, in assenza di qualsiasi conferma esterna. Ma le indagini sui committenti e l’iconografia non postulano, a loro volta, un ambito di
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dimostrazioni parzialmente congetturali, eppure accettabili (fino a prova contraria) in base alla loro plausibilità, coerenza e potenza esplicativa? Naturalmente, bisogna elaborare strumenti di controllo adeguati. A quello costituito dalla convergenza di serie documentarie molteplici ho già accennato (pp. 8-9). Ma come comportarsi quando la convergenza non c’è, o è incompleta? Una discussione sui diritti di veto (p. XVI) attribuibili a ciascuna serie sarebbe quanto mai istruttiva35. Altrettanto utile sarebbe un esame dei casi che si configurano come veri e propri experimenta crucis in senso negativo — tali cioè da falsificare un’ipotesi, o una serie di ipotesi. Non credo, per esempio, che le difficoltà sollevate da Pinelli a proposito dell’inesplicata presenza di Giovanni Bacci nel polittico di Sanse-polcro (p. 94) siano tali da invalidare la mia ricostruzione: ma non lo escludo in linea di principio. Non c’è nessuno che sia disposto a dimostrare che l’uomo inginocchiato ai piedi della Madonna della Misericordia è un mercante borghigiano (come certo sarebbe più logico) anziché un umanista aretino?
Università di Bologna
NOTE AL TESTO
* I rinvìi tra parentesi a pagine senz’altra indicazione s’intendono riferiti al mio Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la Flagellazione di Urbino, Torino 1981 (2a ed.).
1 Alle polemiche di carattere personale non rispondo, né qui né altrove.
2 R. Longhi, Scritti giovanili, Firenze 1980 (3a ed.), I, p. IX.
3 Ibid., p. 458 (e cfr. C. Garboli, Longhi lettore, in «Paragone», n. 367, sett. 1980, pp. 19-21, dove è anche anticipata in forma sintetica la distinzione tra storia e morfologia analizzata più avanti).
4 R. Longhi, «Precisioni nelle Gallerie italiane. La Galleria Borghese», in Saggi e ricerche, 1925-1928, Firenze 1967, I, pp. 279-82.
5 «Un chiaroscuro e un disegno di Giovanni Bellini», ibid., p. 180.
6 G.G. Droysen, Sommario di istorica, a cura di D. Cantimori, Firenze 1943, p. 15.
7 Cfr. G. Contini, «Sul metodo di Roberto Longhi», in Altri esercizi (1942-1971), Torino 1972, p. 105 (a p. 117, nel saggio «Longhi prosatore» è parzialmente citato il passo sull’attribuzione del tondo Borghese a fra Bartolommeo, su cui vedi sopra).
8 Cfr. C. Garboli, Longhi lettore, cit., p. 21.
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9 Cfr. V. Propp, Morfologia della fiaba, Torino 1971; A. Jolles, Forme semplici, Milano 1980, p. 7; L. Wittgenstein, Note sul 'Ramo d'oro' di Frazer, Milano 1975, pp. 28-29. L’accostamento di Jolles e Propp sotto il segno di Goethe è negato, per quanto riguarda Propp, da G. Dolfini nella sua introduzione a Jolles, Forme, cit., p. 7. Recentemente M. Foucault ha proposto di vedere nelle ricerche «sviluppate in URSS e in Europa centrale attorno agli anni '20. .. nei campi della linguistica, della mitologia, del folklore» un antecedente dello strutturalismo francese degli anni '60, che ne venne influenzato «attraverso canali più o meno sotterranei, comunque poco noti» (D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Salerno 1981, p. 48). Ma a parte il tramite notissimo di Jakobson, che trasmise a Lévi-Strauss la propria interpretazione della fonologia di Troubetzkoy (cfr. G. Mounin, «Lévi-Strauss use of linguistics», in The Unconscious in Culture, ed. by I. Rossi, New York 1974, pp. 31-52) non sembra che Propp abbia influenzato Dumézil o Lévi-Strauss, come afferma Foucault.
10 Sulla lettura di Riegl da parte di Longhi rinvio alla bella relazione di E. Raimondi al convegno Longhi (Firenze, settembre 1980) di prossima pubblicazione negli Atti.
11 Cfr. R. Longhi, Saggi e ricerche, cit., I, p. 282.
12 II libro classico di D.W. Thompson, Growth and Form, è del 1917; dell'edizione ridotta esiste una traduzione italiana (Crescita e forma, Torino 1969).
13 Cfr. R. Longhi, Saggi e ricerche, cit., I, pp. 221-232.
14 Cfr. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, a cura di G. Arnaldi, Torino 1969, pp. 112 (dove è ripreso un esempio di Delehaye) e 117 ss.
15 Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, tr. it. a cura di L. Heilmann, Milano 1966, p. 42.
16 Saggi e ricerche cit., I, p. 7.
17 «Lettera pittorica a Giuseppe Fiocco», ibid., p. 90.
18 Cfr. il documento ritrovato da G. Abate (Miscellanea Francescana, 1956, pp. 25-30) ripreso da P. Scarpellini in Giotto e i giotteschi in Assisi, Roma 1969, pp. 246-60.
19 Cfr. R. Longhi, "Giudizio sul Duecento" e ricerche sul Trecento nell'Italia centrale (1939-1970), Firenze 1974, pp. 64-82.
20 Io., Officina ferrarese, Firenze 1968, pp. 32 ss.
21 Ibid., pp. 128-129.
22 Ibid., pp. 130-131.
23 Cfr. F. Zeri, in «L'Europeo», 22 giugno 1981.
24 Cfr. E. Castelnuovo, Per una storia sociale dell’arte — II, in «Paragone», n. 323, febbraio 1977, p. 4.
25 Cfr. Storia d’Italia, Annali 4: Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino 1981’, pp. 701-761, in particolare pp. 708 e ss.
26 Cfr. F. Zeri, in «L’Europeo», art. cit.
27 Cfr. J. Mabillon, Musei Italici tomus II, Lutetiae Parisiorum 1689, p. 564.
28 Cfr. G. Previtali, in «Rinascita», 17 luglio 1981.
29 Parlando della datazione in un seminario tenutosi alla Fondazione Longhi nel febbraio 1982, mi è venuto fatto di citare il caso di Van Gogh, che s’ispirò, nei quadri della maturità, alla pittura materica di un artista tanto inferiore a lui come Monticelli. Varrebbe la pena di discutere casi del genere.
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30 Cfr. S. Settis, in «La Stampa», 1° agosto 1981 (il testo è emendato sulla base di una lettera dell’autore apparsa ivi, 30 agosto).
31 Cfr. F. Zeri, in «L'Europeo», art. cit.
32 Cfr. R. Loenertz, Pour la biographie du Cardinal Bessarion, in «Orientalia Christiana Periodica», X (1944), pp. 117-118; A. Coccia, Vita e opere del Bessarione, in II cardinale Bessarione nel V centenario della morte (1472-1972), Roma 1974, p. 25 (gentilmente segnalatomi dalla dott. C. Bianca).
33 Cfr. G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, voi. 48, Venezia 1848, pp. 151-152 (voce «nunzio apostolico»); voi. 23, Venezia 1844, p. 222 (voce «fascia»). La consuetudine di inviare ai cardinali assenti al momento della nomina la berretta o il berrettino rosso fu stabilita solo nel 1464 da papa Paolo II; in data ancora posteriore (1591) la disposizione fu estesa, da Gregorio XIV, ai cardinali appartenenti a ordini monastici (come era appunto Bessarione): cfr. A. De Saussay, Panoplia clericalis .. ., Lutetiae Parisiorum 1649, p. 593; G. Moroni, Dizionario. . ., cit., voi. 5, Venezia 1840, p. 171 (voce «Berrettino o zucchetto cardinalizio»).
34 Cfr. F. Zeri, in «L’Europeo», art. cit.
35 Unilaterali (ma proprio perciò più utili dei consueti tentativi compromissori) le pagine di A. Conti, Roberto Longhi e l’attribuzione, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di lettere ecc., s. Ili, voi. X (1980), pp. 1104-1107, che insiste sul maggior valore dei documenti «di prima» rispetto a quelli «di seconda».