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Title
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Per un rinnovamento del marxismo: Caratteri e prospettive
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Creator
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Oskar Negt
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Beatrice De Gerloni
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Date Issued
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1983-07-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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24
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issue
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3/4
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page start
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475
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page end
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506
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Studi Storici © 1983 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20231101173859/https://www.jstor.org/stable/20565189?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1983%26ed%3D1983%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Ab551db9e157408a308d52c981da058c0
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Subject
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power
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Marx and Marxism
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extracted text
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PER UN RINNOVAMENTO DEL MARXISMO: CARATTERI E PROSPETTIVE
Oskar Negl
La ricorrenza del centesimo anniversario della morte di Karl Marx non è un comune giubileo quale spetta ai grandi pensatori del passato. Se dovessi parlare di un’analoga commemorazione di Kant o di Hegel le mie considerazioni dovrebbero essere completamente diverse. Perché per quanto grande potè essere la loro importanza culturale per il mondo europeo, queste teorie non hanno acquistato forza pratica nel senso che masse rivoluzionarie e movimenti sociali si sarebbero orientati, nella loro presa di coscienza, sulle categorie e le conoscenze dei loro sistemi. Sono rimaste teorie accademiche che hanno prodotto scuole filosofiche: e tramite un insegnamento filosofico esse furono in grado di esercitare un’influenza determinante sul pensiero di un’intera generazione di intellettuali —• su Marx ed Engels cosi come su Lenin e Mao Zedong.
1. Per una dialettica del contenuto di verità e di realtà. La teoria marxiana invece, per la sua struttura complessiva, non è fondata su un concetto del mondo in sé compiuto, del quale la filosofia, come dice Hegel, dipinge di grigio il grigio, ma pretende di essere leva di un movimento di emancipazione sociale e levatrice di una nuova società. Questo è uno dei motivi per cui in ogni conseguenza logica che caratterizza la sua esigenza di verità, questa teoria non ha alcuno scopo di compiutezza teoretica. Esprimendomi cosi rischio un fraintendimento di tipo pragmatico. Se la conferma della teoria marxiana consiste principalmente nella trasformazione dei rapporti oggettivi, questo non implica assolutamente la rinuncia al contenuto di verità immanente. Al contrario, non la contrazione, ma ^estensione del contenuto di verità sembra costituire il problema della teoria marxiana; un’estensione che poggia su un raddoppiamento dei suoi compiti: una comprensione dei rapporti sociali, che tuttavia non si accontenta di ciò, né si placa, e una rottura di questi rapporti, che è possibile soltanto quando la forza del lavoro concettuale, che si alimenta dalla coscienza eccedente, coglie realmente la struttura di questi rapporti.
Sembra molto facile, in realtà, la constatazione che la prassi storica (non quella pragmatico-strumentale) come criterio di verità centrale per la teoria marxiana rinvia ad un problema decisivo, le cui difficoltà di
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soluzione hanno causato molte oscillazioni nel rapporto con Marx e il marxismo. Queste difficoltà si evidenziano in particolar modo quando, come in occasione di un anniversario di Marx, si tratta di analizzare il nostro rapporto attuale con la teoria di Marx e di Engels e nello stesso tempo di tener presente che non possiamo considerare la storia estremamente conflittuale, contraddittoria e permeata di tragedie del marxismo, come se non fosse accaduta. Ciò che oggi va sotto la denominazione globale di « crisi del marxismo » deriva spesso dall’incapacità di molti intellettuali, che si definiscono di sinistra, di riconoscere la teoria di Marx nel suo contenuto sostanziale come una teoria storica. Cosi essi soggiacciono inconsapevolmente al pregiudizio idealistico che valore di verità e origine sociale dei concetti e delle conoscenze siano reciprocamente inconciliabili. Per tutte le idee che non si deducono dall’opera di Marx e di Engels sono costantemente preoccupati di rintracciare contenuti di classe e origine di interessi. Essi applicano quindi i principi della concezione materialistica della storia formulata da Marx alla società borghese ma, nello stesso tempo, operano come se la storia dell’origine del pensiero marxiano stesse fosse sottratta alla mediazione storica.
Ne consegue che la dialettica di contenuto di verità e contenuto di realtà, interna al pensiero marxiano, non viene espressa nelle sue determinazioni formali ma, secondo gli interessi specifici che guidano la conoscenza, viene ridotta ad uno dei suoi due aspetti. Quegli intellettuali marxisti, scontenti di quelle forme di società esistenti che fanno riferimento a Marx per conoscere le proprie realtà, tanto da considerarle addirittura come il totale travisamento e il corrompimento morale dei principi marxiani, hanno la tendenza a rivolgersi esclusivamente al contenuto di verità originario delle teorie di Marx e di Engels. Si immergono nella loro opera, propongono sempre nuove sfaccettature del suo umanesimo di fondo e dalla ricostruzione dello sviluppo autentico di questo pensiero traggono la forza speculativa per il loro lavoro politico di resistenza, con un atteggiamento che non si lascia intimidire né fuorviare dalla forza normativa del fattuale, dove la realtà dell’errore gode di maggior credito deWirrealtà del vero. È la posizione ostinata di intellettuali che insistono su una sorta di diritto di natura, per una grande teoria, di assolvere al suo significato complessivo immanente anche se singole asserzioni sono state male usate o fraintese.
Questo atteggiamento, fondato su un’integrità morale e politica, è radicalmente opposto a quello che in sostanza conferisce valore di verità al pensiero marxista là dove è associato alla realtà di società esistenti. La tesi di Lenin: « Il marxismo è infallibile perché è vero », consente un simile immediato accoppiamento di contenuto di verità e contenuto di realtà, o, piu precisamente, suggerisce la riduzione del contenuto di verità alla realtà; ciò che si ritiene reale non può non essere vero. Questi teorici marxisti nelle loro interpretazioni procedono con Marx ed Engels come se tutto ciò che essi hanno detto fosse interpretabile quasi teleologia
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camente, fondato proprio su questa effettualità asserita. Essi perciò non fanno nessuno sforzo per spiegare l’opera di Marx secondo quelle pagine che legittimano questa realtà. La dialettica di contenuto di verità e di realtà, che costituisce un elemento strutturale di ogni teoria epocale, è ridotta ad un atteggiamento sostanzialmente positivo nei confronti dei rapporti di forza postrivoluzionari di volta in volta dati; proprio ciò che costituiva il motore della critica materialistica si è inconsciamente trasformato in un elemento di disgregazione controrivoluzionario.
Non sembra dunque affatto casuale che, secondo le esigenze di questa realtà politica, vengono effettuate selezioni e valutazioni di quei concetti marxiani nei quali è messo in risalto l’aspetto della validità superiore, della astoricità. Il fatto che in questi ordinamenti sociali la realtà domini la possibilità lo si deduce anche dalla circostanza che il concetto dominante di realtà, quasi avesse bisogno di pratiche magiche di consolidamento, viene raddoppiato. Si parla di socialismo realmente esistente come se potesse esserci un socialismo esistente che fosse invece irreale. Trascinare il pensiero di Marx nel turbine della realtà conduce cosi lontano che in esso la differenza storica tra presente e passato dev’essere completamente sacrificata.
Ritengo discutibili entrambe le posizioni, quella che isola l’astratto contenuto di verità come quella che tiefte fermo l’altrettanto astratto contenuto di realtà del marxismo, perché sopprimono l’immanente tensione dell’opera di Marx e di Engels, in cui consiste la sua sostanza storica e, in entrambi i casi, da teoria del materialismo storico la riducono a concezione del mondo idealistica e astorica. Agli inizi degli anni Sessanta Jùrgen Habermas aveva già richiamato l’attenzione su una analoga spaccatura del marxismo secondo i fronti internazionali della lotta di classe: sulla separazione di diritto naturale e rivoluzione la cui unità è costitutiva per il pensiero marxista.
2. Criterio di verità e anticipazione. La teoria marxiana è una teoria epocale che contiene tutti gli strumenti per la propria autocritica, senza dover tuttavia rinunciare al suo contenuto di verità, qualora utilizzi su se stessa il mezzo critico da essa fornito. Quando spesso si afferma che nell’ambito della storia del pensiero europeo il pensiero marxista segna una radicale rottura, ciò vale in modo decisivo soprattutto per il criterio di verità stesso. Secondo le concezioni tradizionali la verità è la conformità tra rappresentazione e cosa. Da Aristotele abbiamo la definizione di verità: adaequatio intellectus atque rei. Della cosa non viene con ciò detto nulla, se ad esempio sia vera in se stessa. Vero è un rapporto di adeguatezza tra concetto o rappresentazione e il fatto da esso assunto. Hegel ha indicato questo come relazione di pura e semplice corrispondenza, mentre per lui ciò che è vero va oltre la mera conformità di contenuto della rappresentazione e cosa. Per lui un vero Stato non è quello che è contenuto nella rappresentazione in termini corretti, ma quello che è fondato su determinate forme della coesione morale e delle leggi.
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Secondo la concezione tradizionale sarebbe vera anche una teoria che riproduce in termini corretti una falsa realtà.
In tutto il nostro modo di pensare questo momento della verità è sempre presente, quando compiamo indagini scientifiche. Ma esso è proprio soltanto un momento. È assolutamente impensabile che noi, nel nostro tempo, possiamo rinunciare del tutto a comprendere le realtà nelle loro costellazioni di fatti, e limitarci ad indicare quelle prospettive e utopie, che sono oltre questa realtà, come l’unica dimostrazione del vero. Nello stesso tempo la verità non si esaurisce in questa utilizzazione di modelli categoriali nei confronti della realtà. È proprio la dialettica insita nei fatti stessi che deve caratterizzare e far sorgere la coscienza teorica, deve condurre ad un movimento che inasprisca la mera giustapposizione in opposizione, affinché il lato reale dei fatti non sopprima, nella sua condizionata limitatezza, le possibilità in essi celate e la realtà manifesta non divenga irreale, fantasmagorica. Verità in questo senso non è una semplice qualità del soggetto pensante, ma una relazione, un criterio di misurazione fra soggetto e oggetto, che non si può d’altra parte determinare indipendentemente dalla struttura della cosa analizzata. La cosa stessa ha componenti vere e non vere che, per poter essere comprese, necessitano certo anche dell’attività soggettiva del pensiero.
È caratteristico del pensiero marxiano che tutte le sue categorie determinanti abbiano questa doppia struttura. Esse, da un lato, ritraggono la realtà nel suo essere percepibile attraverso i sensi ed esperibile. D’altro lato, indicando nello stesso tempo anche la migliore possibilità, rinviano oltre lo stadio del reale di volta in volta raggiunto. Realtà e anticipazione sono perciò termini inscindibili da tutti i concetti marxiani che riguardano determinati rapporti sociali.
Quando Marx parla di classe intende la situazione (Zustand) oggettiva e soggettiva di masse di uomini che, lo vogliano o no, sono sussunte a condizioni di vita per le quali le loro chances individuali sono reciprocamente eguagliate e nel rapporto tra le classi si instaura un motivo di lotta per la trasformazione dell’intera società. Ma tutta la concezione della società di classe trova il suo contenuto di verità determinante non nella constatazione che esistono delle classi o addirittura che debbano esistere sempre, ma proprio nel fatto che questa società classista dev’essere eliminata. Se ci sono le classi e se la descrizione dello stato di queste classi risulta vera, con ciò non è ancora esaurito l’intero contenuto di verità del concetto di classe. Lo si può paradossalmente formulare cosi: il fatto che esistono classi contiene in sé l’imperativo di sopprimere la società di classe ed instaurare la condizione più libera di una società senza classi. Nella sua recensione al primo libro del Capitale, concordata con Marx, Engels ha dato qualche indicazione su questa doppia struttura delle categorie marxiane là dove afferma che molti si erano aspettati di trovar ritratto in quest’opera il regno millenario del socialismo. Engels fa rilevare che costoro resteranno delusi perché in questo testo viene esaminato
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scientificamente il capitale. Ma nello stesso tempo egli afferma che, chi legge attentamente Marx, si renderà conto che qui è all’opera un pensatore rivoluzionario e non uno scienziato borghese, che si accontenta di ricondurre i fatti a trasformazioni conformi a leggi. È questo elemento rivoluzionario nelle singole categorie che ne rappresenta l’anticipazione, e non la volontà rivoluzionaria di Marx che rimane esterna a queste categorie.
Ciò che ho cercato di spiegare con il concetto di classe, vale in egual misura per una serie di altre categorie decisive. Quando Marx parla di lavoro produttivo egli insiste sul fatto che non va con ciò inteso un elemento costitutivo del lavoro, ma un rapporto tra lavoro salariato e capitale. Produttivo è quel lavoro che produce valore e plusvalore. Nello studio su Marx è sempre stato controverso se in questa argomentazione apparentemente restrittiva non si siano insinuate cavillosità di tipo scolastico. Il suonatore di pianoforte, secondo Marx, presterebbe lavoro improduttivo mentre il costruttore di pianoforti lavoro produttivo. Un clown che a casa mia presenta giochi d’abilità compie lavoro improduttivo. Lo stesso clown che fa le stesse cose in un circo, essendo al servizio di un imprenditore, compie lavoro produttivo. A prescindere completamente dal fatto che Marx effettua una restrizione di significato del lavoro produttivo in questo contesto, come una critica delle prestazioni personali e servili all’interno della dipendenza feudale, il concetto di lavoro produttivo contiene tuttavia il programma sociale complessivo per la creazione di una condizione nella quale nessuno sia escluso dal lavoro. Egli parla della repubblica del lavoro in cui la scienza per prima possa essere liberata. Lavoro produttivo nella forma particolare di lavoro salariato non è solo metaforicamente collegato con il lavoro coercitivo, ma realmente; esso rinvia però alla possibilità di oggettivazione dell’uomo attraverso la realizzazione di se stesso. Lavoro produttivo e produzione umana appartengono entrambi alla prospettiva di un possibile sviluppo della società, così come nella realtà esistente sono scissi l’uno dall’altra.
Un’analoga doppia struttura è contenuta nei concetti di divisione del lavoro e cooperazione. Gli animai spirits, attivi nella cooperazione e per i quali il capitalista non paga nulla, rappresentano il rovescio di quelle condizioni di lavoro che sono invece determinate da attività artificiali e isolate l’una dall’altra secondo la divisione del lavoro e che, soprattutto per poter condurre a termine il processo lavorativo organizzato, sono costretti proprio a queste interrelazioni tra gli uomini, ai loro bisogni sociali. Le categorie marxiane sono perciò insieme relazioni di corrispondenza con la realtà sociale e implicite esigenze di verità nei confronti di questa realtà.
3. La prassi di confutazione del pensiero marxiano e il « momentum mori » delle categorie. Ciò che ora ho spiegato pone la questione di come la teoria marxiana possa esser confutata. Che una verifica teoretica interna delle sue asserzioni secondo il criterio delle consistenze logiche non sia sufficiente a cogliere il contenuto di verità storico, lo si deduce
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semplicemente dal dato empirico che queste forme di confutazione risultano addirittura un calvario delle buone obiezioni. Quanta energia non è stata spesa, in questi cento anni dalla morte di Marx, per scardinare la sua opera da un punto di vista logico o scientifico-teorico! Probabilmente non esiste un teorico che abbia attirato su di sé tanto ardore polemico. Con le forme di confutazione del pensiero marxiano il caso si presenta dunque del tutto particolare.
Si deve dire anzitutto che le categorie marxiane anche dove contengono elementi scientifico-naturalistici non sono pensate per rendere possibili asserzioni eternamente valide e non si devono neppure considerare i rapporti designati da queste categorie come immutabili. Tutti i concetti e le conoscenze marxiane portano in sé un momentum mori, un motivo di fondo di autoeliminazione. L’autosoppressione non si attua per il fatto che i rapporti empirici non collimano piu perfettamente con le asserzioni. Questo, come ho cercato di mostrare, è solo uno degli aspetti di tali concetti e conoscenze.
D’altra parte la teoria marxiana non è una profezia né è riducibile esclusivamente ad asserzioni controfattuali. Se per un momento assumo il criterio di verità di Karl Popper, per utilizzarlo in altra direzione, si può affermare quanto segue: secondo Popper un’affermazione ha contenuto scientifico reale soltanto se è falsificabile, ma non è falsificata, vale a dire che essa deve poter essere verificata sulla realtà empirica, superi questo esame sulla realtà e non ne sia contraddetta. Anche le categorie marxiane sono esposte alla possibilità di falsificazione. Ma ciò che è reale e potrebbe falsificarle è compreso nella loro struttura in altri termini. Supponiamo che si presenti una società per la quale il concetto marxiano di classe non sia più valido per comprenderla nei suoi caratteri specifici: allora resterebbe pur sempre la questione se in questa forma di società senza classi non si sia creata un’apparenza oggettiva tale da riuscire a celare in modo solo particolarmente efficace ciò che è sempre stato immediatamente conosciuto come società di classe, vale a dire sfruttamento, oppressione, alienazione. Le categorie marxiane contengono la tensione permanente del concetto a separare relazioni, e se portano in sé gli elementi di un’analisi microscopica, sono però nello stesso tempo sempre riferite alla concreta totalità della società. In questo sta la difficoltà di relegare l’intera opera di Marx nel XIX secolo attraverso semplici accenni al fatto che alcune categorie e conoscenze del pensiero marxiano non sono più valide.
Se si assume il concetto popperiano di falsificazione per applicarlo alla teoria marxiana esso dev’essere concepito nel senso che la confutazione teorica è connessa alla modificazione pratica dei rapporti. Una vera confutazione della teoria marxiana consisterebbe paradossalmente nel fatto che la realtà, che essa cerca di comprendere, sia radicalmente mutata per la completa emancipazione degli uomini. La teoria marxiana sarebbe contraddetta solo se le condizioni di vita estraniata che essa descrive non
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esistessero più e gli uomini avessero raggiunto uno stadio in cui, privi di costrizione, potessero condurre una vita socialmente autorealizzantesi. Allora sarebbe superflua anche nella sua forma rigorosa e potrebbe subentrare un pluralismo di teorie quale già oggi molti accolgono come alternativa a Marx, il quale pluralismo perde però la sua velata funzione di controllo solo nel momento in cui gli uomini regolano liberamente e secondo ragione la loro vita.
4. Il fondamentale dualismo nell'interpretazione attuale della teoria marxiana. Se si parte dalla considerazione che la teoria marxiana nella sua sostanza è una teoria storica, emerge allora una spaccatura storica universale determinata dalle leggi di sviluppo del pensiero marxiano nel mondo attuale. Se è vero che in rapporto alla teoria marxiana ogni mera ripetizione o interpretazione che modifichi il suo originario contenuto di verità contraddice la sua essenza perché nel triangolo di relazioni tra passato, presente e futuro si insinuano inevitabilmente aspetti non storici, è altrettanto giusto non consegnare lo sviluppo storico del pensiero di Marx a quei sistemi che si richiamano a questo pensiero come ad una facciata di legittimazione di rapporti esistenti.
L’obiezione fondamentale cui la teoria marxiana è esposta in quanto teoria storica consiste in questo: Marx parte dalla constatazione che non sono i rapporti di forza politici di una società a darle coesione al suo interno, ma che il contesto sociale è generato dalla forma capitalistica della legge del valore. È la legge del valore che regola la forma della produzione e dello scambio in modo tale che lo Stato può tutt’al più intervenire per rimuovere determinate disparità. Ma la forza di realtà effettiva risiede nella produzione di merci stessa. Questo è il presupposto dal quale Marx parte per poter stabilire se un sistema è maturo oppure no per trasformazioni rivoluzionarie.
Storicamente è stato però dimostrato che proprio in quei paesi dove la legge del valore non era pienamente sviluppata, dove la produzione di merci non aveva ancora permeato tutti i pori del tessuto sociale, in quei paesi sono scoppiate delle rivoluzioni. Se si considera il problema della coesione sociale, esistono in questi paesi modi di produzione tradizionali, alta concentrazione di capitale in poche regioni, forme differenziate di proprietà comune che sussistono l'una accanto all'altra, tanto da rendere necessario lo Stato dispotico per controllare questa miscela esplosiva di forme di proprietà e di produzione storicamente difformi. Vi è sì un piccolo proletariato sviluppato secondo i caratteri della moderna industria ma esso è attorniato da una massa schiacciante di piccoli produttori e contadini per i quali non si può certo parlare di un inserimento nel processo di modernizzazione se si considerano le condizioni della loro esistenza e il loro modo di pensare. Per trasformazioni rivoluzionarie di queste società la teoria di Marx non era prevista. Verso la fine della sua vita Marx non l’ha completamente esclusa da questa possibile applicazione
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ma ha notato come le rivoluzioni, nelle regioni sottosviluppate, sono condizionate dalla trasformazione rivoluzionaria dei paesi sviluppati, se vogliono realizzare il programma di trasformazione sociale e politica senza riforme burocratiche.
Si è quindi verificata la contraddizione di rivoluzioni attuate là dove i rapporti non erano quali Marx aveva previsto, affinché le rivoluzioni conservassero il loro carattere di emancipazione, mentre dove le condizioni erano mature per trasformazioni effettivamente rivoluzionarie, le rivoluzioni non sono avvenute. È chiaro che non possiamo ora, sulla base di una concezione del mondo etica formulata secondo i principi di ordinamenti sociali sviluppati, sostenere l’opinione che sarebbe meglio se, in presenza di condizioni immature, non vi fossero rivoluzioni ma che si attendesse finché i rapporti non siano maturati in modo rispondente all’ipotesi di Marx. Anche in questa concezione vi è un elemento cieco, astorico. Se tuttavia si considera la forza di realtà del marxismo là dove ha effettivamente conquistato le masse si deve nondimeno insistere a dire che bisogna prendere alla lettera i criteri di Marx riguardo a trasformazioni rivoluzionarie.
Naturalmente la teoria marxiana non parte dal fatto che ai fini di una tardiva industrializzazione e modernizzazione della società i diritti conquistati dagli operai, lottando nelle società borghesi, possano essere limitati. Questi diritti sono stati precari in tutte le fasi della società borghese ma non furono mai completamente soppressi se si prescinde dalla farsa del capitale durante il fascismo. Per Marx era impensabile che i meccanismi della democrazia puramente rappresentativa e dei loro corrispondenti sistemi di partecipazione pubblica (Offentlichkeit) borghese potessero venir aboliti senza sostituirli con forme molto più libere e aperte di partecipazione pubblica. La sua critica al « pubblico » borghese è rivolta alla sua limitatezza e il senso della critica consiste nell’estendere e non nel sopprimere la libertà di opinione, la libertà di associazione e di riunione.
Ci troviamo ora storicamente di fronte ad una circostanza singolare. Sembriamo costretti a riprendere in certo qual modo la critica kantiana della prova ontologica dell’esistenza di Dio — nel momento in cui diciamo che il pensiero di Marx ha acquistato forza di realtà, dunque qualcosa di aggiuntivo rispetto alla mera teoria, là dove le condizioni per un’emancipazione reale non erano favorevoli. Nella misura in cui questi sistemi, privi di legittimazione storica, devono continuamente affermare la forza della realtà, l’ideologia vi si sviluppa però nel senso classico come coscienza necessariamente falsa. Kant aveva detto: « cento talleri reali non contegono nulla più di cento talleri possibili »; esistere non è chiaramente un predicato reale, vale a dire un concetto di qualcosa che possa essere aggiunto al concetto di una cosa. Questa era un’obiezione contro la prova ontologica dell’esistenza di Dio che consisteva nel fatto che all’idea di Dio, l’essere perfetto, doveva essere necessariamete riconosciuta desistenza.
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L’idea di Dio non è da considerarsi come ens realissimum se in essa non è contenuta l’esistenza.
Questo è il lato teoretico della confutazione della prova ontologica. Per un borghese intelligente e dotato di senso pratico, quale anche Kant era, la cosa sembra tuttavia un po’ diversa: «... nella mia situazione patrimoniale è meglio avere cento talleri reali che il semplice concetto di essi (vale a dire la loro possibilità). Infatti l’oggetto nel suo essere reale è contenuto non solo analiticamente nel mio concetto, ma si aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione della mia situazione)... ». La teoria di Marx, come indica l’XI tesi su Feuerbach, è una teoria rivolta alla trasformazione pratica. In questo senso non è ozioso porre la questione: dove essa ha realmente trasformato il mondo, dove vi aggiunge qualcosa sinteticamente. Ci si può naturalmente limitare a considerare gli effetti di lenta penetrazione, osservando come molti risultati della teoria marxiana della società, senza indicarli nel dettaglio, sono entrati a far parte delle scienze moderne ed hanno contribuito all’affermazione di queste scienze. Questo è un aspetto della storia dell’influenza di Marx al quale sicuramente mirava con i suoi scritti. In fondo però il suo scetticismo nei confronti dell’importanza e della capacità di trasformazione della pura scienza era cosi grande che, come afferma nelle Lotte di classe in Francia, riusciva ad immaginare una scienza veramente libera, vale a dire rispondente ai suoi compiti pratici di emancipazione, solo in una repubblica del lavoro, in una società organizzata in modo libero.
Ciò che nel contesto della storia della scienza del marxismo entra in concorrenza reciproca, vale a dire il contenuto di verità e di realtà, si ripropone, elevato al livello di organizzazione della lotta di classe, nella scissione di critica e carattere partitico (Parteilichkeit). Entrambi sono ancora uniti nell’opera di Marx. La « partiticità » si precisa in essa tramite il dispiegarsi del contenuto scientìfico di verità nella critica radicale — cioè che va alle radici umane — di tutto l’esistente. Una « partiticità » scissa da questo contenuto di verità dispiegato Marx l’avrebbe considerata un’avventura senza esito per la causa del socialismo e del proletariato. Nello stesso tempo però la ricostruzione teorica delle leggi di sviluppo determinanti per il mondo moderno, senza l’inasprirsi dei rapporti secondo la loro capacità di trasformazione, che presuppone un deciso interesse di parte, equivale ad estendere la cecità nei confronti delle forze storiche tradizionali. Il distacco di « partiticità » e critica è tuttavia una caratteristica essenziale nella storia dello sviluppo del marxismo. Questa scissione si manifesta sia nella teoria scientifica marxista al suo interno, che nella neoformazione dei fronti della lotta di classe trasposta a livello internazionale. Se il cosiddetto marxismo occidentale mira a riparare l’onore ferito del contenuto di verità della teoria marxiana fondato sull’^//wtó critica (l’esempio più significativo è quello della scuola di Francoforte, che chiama il suo marxismo anche teoria critica), d’altro
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canto il motivo conduttore delle pretese di legittimazione marxista dello stalinismo è totalmente rivolto al carattere « partitico »: la difesa a tutti i costi del marxismo tramite la difesa della « patria del socialismo ».
5. Ortodossia e identificazioni improprie (Fremdidentifikationen). Non ci vorrebbe ora alcun particolare sforzo a sviluppare la dialettica tra forza della realtà e contenuto di verità del pensiero marxiano se questa separazione di « partiticità » e verità avesse conservato un carattere netto di opposizione. Ci si potrebbe cosi tranquillizzare nella constatazione che gli esiti rivoluzionari di paesi industrialmente sottosviluppati si compirono certo con l’aiuto dei progetti di modernizzazione di Marx, ma che questo non comporta necessariamente il compiersi di una trasformazione socialista della società. Una simile eguaglianza si è però dimostrata impossibile. Il pensiero di Marx, ancorato a realtà storiche, ha trasformato e foggiato Finterò dibattito sul marxismo anche nei paesi per i quali la teoria di Marx era stata originariamente concepita, in modo cosi radicale che è oramai impossibile sviluppare una qualsiasi argomentazione, rivolta alla ricostruzione dell’impostazione originaria del pensiero di Marx, senza esercitare immediatamente una critica al « socialismo realmente esistente » e alle sue manifestazioni. Il pensiero di Marx, infatti, fornito del marchio di qualità di rivoluzioni vittoriose, è ritornato nei paesi occidentali d’origine e qui si è raggrumato in una nuova ortodossia. La conseguenza fu che si dovette sottrarre la trasformazione della realtà sociale di questi paesi a quel metodo di indagine critica che era fondamentale nell’acquisizione marxiana della realtà. Alla scissione tra « partiticità » e critica ne corrispose un’altra del tutto diversa, vale a dire la separazione di criterio di indagine e criterio di esposizione dei risultati. Chi non utilizzò le espressioni letterali di Marx nel comporre la propria opera fu spesso sospettato di revisionismo. La dottrina presa alla lettera, da sempre espressione caratteristica di ortodossie formali, si diffuse e soffocò completamente quel vivace metodo di ricerca con cui lo stesso Marx si era accostato alla società del suo tempo e che avrebbe potuto essere l’unico mezzo per elaborare concettualmente i modificati rapporti del capitalismo, trasformato in Stato sociale.
Non è compito di queste riflessioni indagare nei particolari sotto quale aspetto si possa ad esempio parlare degli sviluppi sovietico e cinese come di ordinamenti sociali con una struttura del tutto originale. In entrambe le società il marxismo è, in modo sempre specifico, prodotto di assimilazione del razionalismo occidentale con le forme di pensiero là dominanti e con una concezione del mondo e della natura formatasi attraverso una lunga tradizione. Misurare queste forme di socialismo su Marx ha senso soltanto se si riconosce contemporaneamente il carattere completamente autonomo di queste società socialiste in trasformazione. La pretesa di verità di queste società non è documentata nella teoria di Marx ma emerge anzitutto dalla logica di sviluppo immanente di questi paesi;
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solo partendo da questo presupposto diviene riconoscibile .il reale contributo del pensiero di Marx a questi processi rivoluzionari.
Per guadagnare un nuovo modo d’accostarsi a Marx dobbiamo quindi liberare il pensiero marxiano da due contesti politici organizzativi che hanno stabilito per oltre mezzo secolo i fronti politici della lotta di classe. Nella III Internazionale era personificata, al più tardi dal 1927, l’idea del « socialismo in un solo paese », che doveva rappresentare il baluardo nei confronti delle forme di dominio fascista e borghese e si -considerava l’erede legittima della teoria di Marx. Il secondo contesto non fu del tutto esente da una sorta di reazione a questa pretesa di monopolio del pensiero rivoluzionario. Ciò che comparve dopo il 1917 come la II Internazionale della socialdemocrazia, da un lato è fortemente segnato dalle trasformazioni avvenute nel sistema capitalistico, ma, dall’altro lato, anche dal rifiuto di una forma di socialismo che si richiamava a Marx, ma non era in grado di mantenere la sua promessa di emancipazione nella realtà dello sviluppo sovietico. Non mi sembra affatto azzardato affermare che la socialdemocrazia sarebbe finita da tempo se non vi fosse stato lo stalinismo. Ed effettivamente la versione stalinista del marxismo, una mera facciata di legittimazione del regime, ha contribuito al discredito del socialismo nel mondo più di tutta la propaganda reazionaria contro il marxismo. In una controversia tra Lukàcs e Bloch si vide chiaraniente come avvengano queste inversioni. Secondo Lukàcs anche il peggior socialismo era pur sempre meglio del miglior capitalismo. Bloch aveva replicato a ragione che il peggior socialismo non è più socialismo ed è perciò tanto più pericoloso perché contribuisce al discredito dell’idea socialista nel mondo.
Ci troviamo oggi in una situazione in cui dobbiamo tornare a leggere Marx. Quest’esigenza si ripresenta costantemente nelle situazioni di crisi sociale e in questo senso non è affatto nuova. Quando dico che dobbiamo leggere e studiare di nuovo Marx intendo soprattutto che dobbiamo liberarci da identificazioni improprie con rivoluzioni supposte e condivise di altri paesi e con il modo di pensare ad esse legato. Negli ultimi quindici anni, in contesti completamente diversi, si sono spesso manifestate queste identificazioni improprie che hanno contribuito a far sì che la vitale utilizzazione delle categorie e delle conoscenze marxiane fosse immobilizzata sui rapporti concreti dei paesi di turno.
Spuntarono allora, in seguito al movimento di protesta degli studenti e dei giovani, dei partiti leninisti di riserva che si presentarono come frazioni all'estero del partito comunista cinese e scomparvero non appena ci si rese conto che le lotte interne di frazione dei comunisti cinesi non potevano essere facilmente trasferite in un contesto diverso. Altre identificazioni improprie si ebbero in relazione alla storia del partito comunista tedesco al tempo di Weimar, della Ddr, della rivoluzione cubana, dei sovvertimenti in Cile e in Portogallo, e di regola esse oltrepassarono ampiamente i limiti di necessarie ed auspicabili manifestazioni ed azioni di
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solidarietà. Non da ultimo era estremamente spiccata soprattuto la tendenza a collegare, in qualità di interessati e attenti osservatori, rivolte e movimenti rivoluzionari nei paesi del terzo mondo con il proprio impulso etico di critica ai rapporti esistenti e a trarne legittimazioni per il proprio modo d’agire. Nella seconda metà degli anni Settanta è subentrata una delusione nei confronti di queste identificazioni con realtà estranee perché molti dei progetti ammirati, o sono stati distrutti, o non hanno preso il corso che l’intelligenza socialista aveva previsto per questo paese.
6. È necessario un nuovo studio di Marx. In considerazione di queste trasformazioni storiche della teoria marxiana e della situazione di conflitto in cui si trova, mi pare sia impossibile proporre un rinnovamento del pensiero di Marx senza qualificarlo come teoria sostanzialmente storica e senza rendere palesi i meccanismi del suo attuarsi nella storia. Un aspetto essenziale di questo rinnovamento consiste nel riconoscere che la reciproca esclusione (Ausgrenzung) di teorie e realtà, che è il risultato di quella posizione di monopolio dell’ortodossia marxista, non può essere annullato con un colpo di spugna e neppure senza avere chiara consapevolezza dei motivi di queste esclusioni. È oggi diffusa fra molti, divenuti incerti ma propensi a lasciar tutto com’è, la tendenza ad ignorare questa storia di esclusioni, applicando all’opera di Marx delle « relazioni attraverso una “e” ». Tutto ciò che le moderne scienze hanno messo in luce, si tratti della psicoanalisi, della sociologia dell’industria, o della teoria linguistica, viene appiccicato tramite una « e » al contesto di categorie e conoscenze del marxismo: marxismo e scienza della natura, marxismo e psicologia, marxismo ed ecologia, ecc. Quasi ogni nuovo movimento che compare ed è congiunto ad un’autoriflessione teoretica, produce una tale nuova « e ».
Sono i disparati tentativi di completare a posteriori, col metodo dell’ampliamento esteriore e superficiale, la storia dello sviluppo scientifico del marxismo che è caratterizzata dall’esclusione operata nei confronti di determinati contenuti dell’esperienza, dei quali si appropriarono in seguito le scienze borghesi. Si ammette in tal modo che la storia dell’influenza del pensiero di Marx si è svolta secondo le leggi abituali di una storia della teoria, con la sola eccezione che sono comparse nuove teorie e nuove realtà. Si evidenzia in ciò un’incomprensione di fondo della concezione materialistica della storia, che ha per conseguenza l’incapacità di afferrare la formazione della realtà sociale nel suo nesso contraddittorio con le idee di Marx. Non è affatto secondario per lo sviluppo di questa scienza il perché il marxismo, nel suo sviluppo, non abbia compreso o addirittura abbia respinto contributi importanti di movimenti pratici e analisi teoriche comparsi nel XX secolo. Semplici aggiustamenti in « e », fatti a posteriori, continuano a tessere la bandiera ideologica di una ricostruzione astorica dell’opera di Marx. Certamente oggi la situazione è più aperta rispetto agli anni Trenta e al periodo della guerra fredda dopo il 1945, ma le correzioni superficiali dell’opera marxiana, compiute
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aggiungendo pezzi di teoria e di ricerca, non ristabiliscono un rapporto vitale e vivace tra storia attuale e passato.
Un presupposto fondamentale per ripristinare un rapporto vitale con il pensiero di Marx e con esso la possibilità di analizzare la storia del marxismo guardando ai suoi ostracismi, consiste nel riconoscere il limite storico della stessa teoria marxiana. Questo riconoscimento non contiene alcuna obiezione contro il suo contenuto di verità, al contrario: la verità si costituisce anzitutto tramite la storia: essa ha — come disse Walter Benjamin — un nocciolo temporale. Chi ritiene che la genesi dei saperi sia un difetto ai fini della loro validità, ricade nell’apparenza ideologica della filosofia borghese sull’origine delle conoscenze. Nietzsche ha definito molto chiaramente questo punto di vista. Egli parla nel Crepuscolo degli idoli delle idiosincrasie dei filosofi, dell’« egittismo » del loro pensiero, per il quale tutto ciò che è risultato e indica il divenire, rappresenta un’obiezione contro la verità. Una teoria sostanzialmente storica come il marxismo non può, per la sua intera struttura, essere avulsa dalle costellazioni storiche e oggettivata in un sistema di verità finite. Ciò che Marx attribuisce, come egli stesso afferma, al genio di Aristotele, vale a dire un limite storico, senza per questo ridurre minimamente il contenuto di verità della sua teoria, deve poter essere applicato anche a lui.
Tale riconoscimento del limite storico del pensiero di Marx consente a noi stessi di accostarci storicamente a questa teoria epocale. Una delle conseguenze di questa ammissione consisterebbe nel poter uscire dall’astratta alternativa tra accettare come vero tutto ciò che Marx ha scritto e pensato, o respingerlo tutto come falso. Il carattere costrittivo di questa logica dell’alternativa ha contribuito in modo determinante a produrre e diffondere il pensiero antimarxista, che è, per lo meno in una parte considerevole, una rivendicazione di veridicità contro le costruzioni di carattere scolastico. Questa astratta alternativa ha anche prodotto, dopo la morte di Marx, movimenti ondulatori nei quali si alternavano fasi di ortodossia rinsecchita a fasi di antimarxismo emotivo.
I cosiddetti nuovi filosofi ad esempio, che verso la metà degli anni Settanta, in Francia, predicarono un antimarxismo da rinnegati e definirono Stalin il marxista più coerente, che aveva perfettamente compreso la tecnologia del dominio di Marx, erano stati prima quasi tutti marxisti-leninisti ortodossi. Inasprendo con semplificazioni propagandistiche i complessi rapporti politici e sociali e arrivando a sostenere che esistono solo due gruppi di uomini: quelli che sono già in prigione e gli altri che sono ancora fuori, essi hanno soltanto invertito le pretese totalitarie che assegnavano al dominio teorico del marxismo e alla sua storia antica e recente: tutto, in Marx, è falso. La comprensione del mondo dei dissidenti. Se vogliamo considerare storicamente Marx non dobbiamo tuttavia giudicare secondo lo schema di pretese assolutistiche di verità. In questo confronto radicale, se nel pensiero di Marx tutto è vero o è falso, non si affronta la questione decisiva se non sia più importante, prima,
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determinare nei particolari dove compaiono, nel pensiero di Marx, programmi condotti a termine e dove programmi incompiuti. Il programma dell’analisi del capitale certamente è stato realizzato. Incompiuto rimane il programma della costituzione del soggetto. Tutto ciò che Marx ha detto è giusto. Ma non ha detto tutto ciò che è necessario per la comprensione del mondo moderno. Il Capitale non dev’essere riscritto, ma neppure ripetuto fino al non senso secondo i vecchi nessi categoriali. Se noi distinguiamo tra programmi realizzati e programmi incompiuti allora ci rendiamo immediatamente conto che Marx intraprende un’analisi scientifica di un oggetto soprattutto là dove già esiste una scienza sviluppata. Come avrebbe potuto parlare scientificamente dei principi costitutivi del soggetto se a quel tempo non esisteva ancora una psicologia intesa come ricerca delle istanze psichiche interiori e degli impulsi?
Proprio se si considera che Marx in tutta modestia ha concepito la sua teoria nella doppia funzione di guida alla ricerca e di guida all’azione, è necessaria cautela nello stabilire in che cosa consiste l’autentico pensiero materialistico. Per quanto riguarda la ricerca, noi probabilmente abbiamo molto piu da imparare dal modo in cui lo stesso Marx si accosta a teorie e a rapporti sociali, che dalla ripetizione della sua logica di esposizione dei risultati che è fortemente vincolata alla tradizione della grande filosofia borghese: alla critica della ragion pura di Kant e alla scienza della logica di Hegel. La dialettica è si, come Marx stesso rileva, la forma del pensiero che si muove nella materia e cioè in modo tale che non si dispone esteriormente rispetto alla materia ma nella fatica del concetto assimila a sé questa materia nel suo proprio movimento. Hegel aveva detto che la dialettica sarebbe il puro stare a guardare. Ma questo stare a guardare è possibile soltanto con uno sforzo estremo, tramite il lavoro del concetto. Quando parlo di una priorità della logica della ricerca in rapporto alla logica di esposizione dei dati, lo faccio nel senso del pensiero genuinamente marxiano di ritradurre i risultati finiti nei loro processi di produzione; certo egli procede cosi nella sua critica complessiva all’economia politica. Non sono i prodotti ad esser posti in relazione tra loro ma i processi di produzione che stanno alla base.
Se ci si limita ai risultati strutturati secondo la logica della rappresentazione e si indagano i loro principi logici costitutivi, senza riflettere sul processo scentifico complessivo, nel quale si ritrovano numerose indagini, altrettanto importanti, ma più aperte per quanto concerne la produzione teorica (come ad esempio II 18 brumaio, I dibattiti sulla legge contro i furti di legna), non di rado il risultato è il dubbio teoretico. L’indottrinamento sul Capitale condotto per anni sui capitoli iniziali del primo libro ha portato a vicoli ciechi e perduto per il lavoro politico, in connessione con il pensiero di Marx, generazioni di marxisti volenterosi e teoreticamente interessati.
Vorrei ora cercare di indicare in tre unità problematiche quelle prospettive nelle quali mi pare possibile e sensato un rinnovamento del marxismo. È una esposizione esplicativa che non considera tutta l’opera di Marx,
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ma evidenzia relazioni che per noi oggi sono di particolare importanza. Naturalmente non si tratta del tentativo di integrare a posteriori il corpus delle categorie e conoscenze marxiane con tutto ciò che compare storicamente con i caratteri del nuovo. Dal momento che la teoria di Marx, per il suo contenuto essenziale, si riferisce ai paesi borghesi, capitalistici sviluppati, non sembra sia privo di senso discutere il suo contenuto di verità in prima istanza, in modo tale da ricostruire la sua storia, nelle condizioni di sviluppo specifiche di questi paesi senza accettare il dettame della « partiticità » di quelle rivoluzioni riuscite che si richiamano anch’esse a Marx. Il fatto che si lavorò fin troppo con realtà prese a prestito, ha contribuito in modo sostanziale a sviluppare nelle nostre peculiari condizioni sociali un rapporto critico e produttivo con il pensiero di Marx.
Questi tre insiemi problematici che voglio discutere risultano da sviluppi sociali che non hanno avuto un andamento puramente oggettivo, sì da poterli descrivere semplicemente nelle loro regolarità conformi a legge. Essi designano piuttosto rapporti soggettivo-oggettivi, punti focali di concreta mediazione tra elementi soggettivi degli oggetti ed elementi oggettivi dei soggetti. Non si tratta quindi di un rapporto di causa-effetto ma di una relazione costitutiva (Konstitutionsverhàltnis) : di coscienza, interessi articolati, esigenze organizzative e condizioni di esistenza sociali.
Si tratta anzitutto della questione riproposta di continuo dello statuto del proletariato quale portatore di una missione storica di trasformazione. Vi sono stati molti commiati del proletariato dal palcoscenico della storia, ma il fatto che bisogna continuare a discuterne rivela che fino ad oggi questo argomento non ha acquistato un’indiscussa plausibilità per tutti gli uomini. Il secondo problema si riferisce alla storia della formazione del soggetto. L’idea che gli uomini non pensano né agiscono in base ad impulsi regolari meramente neurofisiologici, o secondo riflessi condizionati o modelli comportamentali, si afferma con sempre maggior forza nella consapevolezza anche dei piu ortodossi rappresentanti di una psicologia materialistica. Se consideriamo attentamente il concetto marxiano di uomo, quale insieme di rapporti sociali, nel modo in cui egli stesso definì questo insieme, cioè come comunità interiore, allora è da presumere che egli abbia presupposto per il soggetto la stessa o una maggiore complessità quale è ammessa per la comunità esteriore, la costruzione in sé articolata di un ordinamento sociale altamente sviluppato. Il terzo problema riguarda il mutato rapporto tra lavoro, forze produttive e natura. Ciò che oggi si presenta negli interrogativi posti dall’ecologia non è un problema specifico della produzione sociale e dell’organizzazione del vivere sociale, e neppure del rapporto con la natura, ma concerne il carattere specifico della storia della civiltà industriale nel suo complesso.
7. Il proletariato come sostanza e i caratteri proletari. La questione del soggetto storico è stata entificata a tal punto nella storia del marxismo da soffocare completamente la ricerca dei soggetti proletari, il modo in cui i singoli caratteri proletari si combinano. Alla entificazione del
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proletariato in una grandezza storico-filosofica corrisponde la miopia nel considerare i caratteri quotidiani, in certo qual modo mondani, del singolo proletario e delle forme collettive in cui gli uomini oppressi combattono la loro battaglia per l’emancipazione. L’idea che una classe, gruppo o ceto, possa essere soggetto della storia a motivo della sua condizione di vita o di una più alta coscienza sociale, è sempre stata problematica. Certamente l’alternativa alla entificazione del proletariato non è la dissoluzione delle classi in semplici totalità individuali di condizioni esistenziali e atteggiamenti soggettivi. La sociologia borghese si è impadronita in pieno del terreno, lasciato libero dal marxismo, dell’analisi empirica delle propensioni degli operai, della loro coscienza, dei loro pregiudizi ecc., ed ha colmato anche sistematicamente questo terreno di ricerca, ma lo sfilacciarsi della storia delle classi nella molteplicità empirica di atteggiamenti individuali, dunque il commiato continuamente annunciato e la dissoluzione del proletariato, non è legittimato né dalla storia trascorsa di lotte, né dalla situazione attuale della classe operaia.
Per poter trovare un nuovo modo d’accostarsi all’indagine sul proletariato è necessario anzitutto riappropriarsi di un modo di vedere che lo stesso Marx pratica. Se all’inizio del Capitale parte dalla considerazione della società come di un’immensa raccolta di merci, egli sottolinea subito come la singola merce sia la forma elementare (Zellenform) di questa totalità e la scienza consista nel decifrare la dinamica interna di questa forma elementare. Nella sua analisi Marx non si accontenta mai di definire totalità sintetiche nelle quali egli potè invece constatare, a livello politico ed economico, sempre e solo movimenti apparenti. Il suo sguardo è rivolto al microscopio, al particolare concentrato, la cui intima contraddittorietà costituisce il movimento reale della totalità. Questo metodo analitico vale sia per l’analisi della merce che per la determinazione politica della situazione generale di una società, quale ad esempio intraprende nel 18 brumaio, quando egli presenta le misere condizioni di esistenza, i bisogni e i caratteri del contadino piccolo proprietario come il segreto rivelato del patriottismo e della mascherata dell’imperatore.
È certo assai rilevante che Marx presenti i metodi analitici della critica all’oggettivazione della coscienza e dell’agire e indichi i capovolgimenti radicali di una società in cui domina la produzione di merci. Il carattere di feticcio della merce — che è alla base di tutti i meccanismi di oggettivazione, della personalizzazione dei rapporti materiali cosi come dello stravolgimento di processo e risultato, per cui l’intero mondo degli oggetti assume una spettrale concretezza —, viene applicato da Marx a tutti gli oggetti essenziali della società, anche se spesso solo tramite accenni e progetti di ricerca, ma egli evita di applicare questa analisi di fondo dei capovolgimenti sociali al proletariato stesso. Ciò è tanto più sorprendente in quanto i metodi di conoscenza da lui sviluppati, che sono rivolti proprio all’individuazione dei molteplici ostacoli della trasformazione, consigliano di indirizzare anche sui soggetti di questa trasformazione accurate
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ricerche. Marx agisce come se il proletariato, a causa della situazione collettiva di emergenza, avesse una capacità, in grado di vincere nella lotta pratica qualsiasi oggettivazione, di associarsi in modo organizzato e di attuare con successo il processo di trasformazione rivoluzionaria. Se in tutti gli altri nessi sociali egli insiste su un’analisi microscopica, in questo caso, in cui si tratta del proletariato, egli usa essenzialmente una grandezza sintetica.
Alcuni marxisti potrebbero naturalmente sollevare l’obiezione che Marx non ha mai assolutamente glorificato e sostanzializzato il proletariato. In vari passi della sua opera ha sottolineato la necessità dell’autoeducazione della classe operaia ai fini dell’emancipazione rivoluzionaria. Il piu noto di essi è certamente quello della resa dei conti con la frazione Willich-Schapper nella seduta del Comitato centrale della Lega dei comunisti il 15 settembre 1850. « Al posto della concezione critica la minoranza ne propone una dogmatica, al posto della concezione materialistica una idealistica. Invece dei rapporti reali la mera volontà è per essa la ruota motrice della rivoluzione. Mentre noi diciamo agli operai: avrete da sopportare 15, 20, 50 anni di guerre civili e tra i popoli, non solo per modificare i rapporti ma per modificare voi stessi e rendervi idonei ad assumere il potere politico, voi al contrario dite: dobbiamo prendere subito il potere o possiamo andare a dormire ». Anche Marx sapeva bene che in determinate condizioni sociali, che — come in Inghilterra — permettevano al proletariato di partecipare allo sfruttamento del mondo intero, possono sorgere aristocrazie operaie nella e accanto alla classe operaia. Quello che tuttavia egli non intraprende è un’analisi microscopica dei caratteri, inclinazioni, aspettative del singolo proletario, nella misura in cui questi momenti sono caratteri sociali e non solo individuali-psicologici. Quella parte di oggettivazione della società borghese che agisce anche sul proletariato non gli appare costitutiva ma facilmente superabile nel processo di emancipazione collettivo. È quindi la circostanza della non-analisi del proletariato ad un livello scientifico, paragonabile all’analisi delle merci, che crea l’apparenza del proletariato come di una sostanza che si afferma secondo regole storiche predeterminate.
Questa mancata applicazione dell’analisi del feticismo all’oggetto di classe della società borghese, che a partire dalle sue lotte tenta con volontà e coscienza di affermarsi come soggetto, ha condotto, già in Marx ed Engels (in particolare però nel tardo Engels), ad un doppio errore di valutazione: osservando la crescita quantitativa della classe operaia e delle sue forme di organizzazione e scorgendo l’erosione della base di legittimazione del vecchio dominio di classe, sopravalutarono la volontà rivoluzionaria della classe operaia e sottovalutarono le possibilità della forma di dominio esistente di neutralizzare o di integrare parte di questa volontà rivoluzionaria. Nel 1881 dopo l’uscita del programma di Erfurt Engels aveva dichiarato trionfante: « Tutti i residui di lassallismo sono annientati: abbiamo un programma completamente marxista ».
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Ciò non era Jel tutto falso, come noi oggi sappiamo. Le imprese con la partecipazione dello Stato auspicate da Lassalle, che dovevano instaurare il socialismo sulla via di un « sistema dei diritti acquisiti » non avevano retto ad un forte disincanto a causa dei dodici anni di illegalità della socialdemocrazia; che questo Stato, al quale Lassalle mirava, potesse conciliare prussianismo e socialismo nell’interesse della classe operaia, in realtà, dopo la soppressione della legge contro i socialisti, era radicato soltanto nelle teste di pochi pragmatici. Nella parte teorica introduttiva del programma di Erfurt coloro che erano allenati a riconoscere le formulazioni marxiste potevano facilmente riscontrarvi i modi dell’argomentazione marxiana. Ma persino a livello programmatico si notava che nelle restanti parti di questo programma, dove si trattava di obiettivi pratici immediati, persisteva l’antica tendenza statalistica della socialdemocrazia, che le esperienze dell’illegalità non avevano spezzato.
Il contrasto tra realtà e programma del movimento operaio risale molto addietro alle origini storiche, che Marx ed Engels stessi avevano vissuto, e nel 1914 questo contrasto diviene evidente solo tramite una dichiarazione storica. Nell’analisi del sistema borghese dell’economia e della politica Marx insiste in ogni momento sulla differenza tra dichiarazioni pubbliche e movimento reale. Nella storia del costituirsi del proletariato lui ed Engels incorsero di continuo in confusioni tra programma e realtà.
Questi errori di valutazione si manifestano anche nella previsione del vecchio Engels sul possibile inizio di un rivolgimento rivoluzionario. Ancora poco prima della sua morte aveva dichiarato che la rivoluzione sarebbe probabilmente arrivata agli inizi del secolo. Che era un bene che il proletariato avesse a disposizione ancora questo tempo per addestrarsi alla presa del potere. Se la rivoluzione scoppiasse prima l’intelligenza borghese, i maestri, i medici, gli ingegneri, sul cui aiuto il proletariato avrebbe dovuto contare per la costruzione della nuova società, avrebbero tradito senza esitazione. Questi strati dovevano venir progressivamente coinvolti nel processo di proletarizzazione delle forze sociali, affinché apprendessero dalla perdita delle condizioni di vita borghesi a familiarizzarsi con le prospettive di una nuova società.
Come giunge Engels a queste previsioni errate? Lui, che aveva una formidabile capacità di prognosi per combinazioni di eserciti e battaglie, tale da fargli prevedere la sconfitta dell’armata francese a Verdun, si lascia fuorviare da un trasporto idealistico. In entrambi i casi, di previsioni corrette come di quelle mancate, non si tratta certo di capacità profetiche in senso tradizionale. Quando Engels pronostica una battaglia decisiva nella quale gli eserciti si scontrano, sebbene il loro piano preveda ancora direzioni di marcia completamente diverse, lo fa a partire da un’analisi incontrovertibile delle condizioni materiali coercitive. L’approfondimento nel dettaglio, il calare lo sguardo nella contraddittorietà dei primi elementi delle organizzazioni militari capillari, nettamente separati da
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progetti strategici puramente concepiti, tutto ciò rende possibile una cautela nei confronti del materiale a disposizione, che si sprigiona nella sua peculiare dinamica in virtù di un’alta concentrazione di lavoro concettuale e non viene sussunto a idee prevenute dal di fuori. Ma se il proletariato non è reso oggetto di una tale analisi microscopica, allora non vi è nessuna possibilità di fare previsioni basate sul movimento specifico dei nessi proletari.
Una maggiore attenzione per i caratteri costitutivi elementari del proletariato, e con ciò per quelle componenti del singolo proletario che sono collegate al sistema di dominio esistente, si riscontra nel pensiero marxista solo nel periodo del nazionalsocialismo, quando si fu costretti a riconoscere che la forza quantitativa delle organizzazioni operaie e la disponibilità alla lotta della classe operaia non erano bastate a impedire la loro totale sconfitta. Anche il fallimento della rivoluzione di novembre e di altri tentativi rivoluzionari in Europa non aveva ancora indotto a porre ^analisi empirica del proletariato al posto di un’analisi sostanziale. Sono da citare a proposito le importanti indagini dell’istituto di Francoforte per la ricerca sociale, su famiglia e pregiudizi, che sono state precorritrici nel superamento dell’idea che il forte campo proletario potesse essere immune dagli effetti distruttivi del circostante mondo borghese. La famiglia proletaria non è semplicemente l’immagine rovesciata della famiglia borghese, ma riproduce gli stessi meccanismi. Caratteri autoritari e vincolati all’autorità sorgono non soltanto nelle famiglie borghesi ma anche in quelle proletarie. Pregiudizi etnocentrici, xenofobia, la tendenza a dissimulare le cause delle crisi e ad attendere la soluzione delle crisi da personalità carismatiche autoritarie, questi ed altri meccanismi di inversione, di oggettivazione del comportamento e della coscienza, si manifestano come disposizioni all’agire anche nella classe operaia.
Ciò non significa che la predisposizione ad esiti autoritari sia la stessa negli operai che negli strati borghesi. Ma questa differenza non dipende dalle disposizioni esistenti bensì dal modo in cui esse possono essere vincolate collettivamente e neutralizzate. Nella sua ricerca sui comportamenti di operai e impiegati prima del fascismo, Erich Fromm ha sviluppato una tesi interessante. La classe operaia non è immune dal potenziale di pregiudizi e di coscienza oggettiva generato dalla produzione di merci capitalistica e dai rapporti di potere ad essa corrispondenti. Finché esiste tuttavia per gli operai una base organizzativa, finché sindacati, partito comunista e socialdemocratico, organizzazioni storiche con determinate tradizioni, sono in grado di salvaguardare le prospettive di una trasformazione dei rapporti e dell’eliminazione dell’attuale situazione di emergenza, la fedeltà degli operai verso queste organizzazioni è sostanzialmente garantita. Non sono stati gli operai ad eleggere in massa Hitler, ma piccoli borghesi espropriati, i fiancheggiatori legati all’autorità di estrazione borghese, impiegati e funzionari, piccoli produttori ecc. Il nazionalsocialismo non si fonda però esclusivamente su questi ceti ma è in grado
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di mobilitare per i suoi scopi anche settori consistenti della classe operaia. I nazisti erano materialisti opportunisti, essi hanno compreso perfettamente che lo scioglimento delle organizzazioni operaie è il primo passo da compiere per la mobilitazione, ai propri fini, del potenziale comportamentale liberato da vincoli collettivi. Una volta sciolte queste organizzazioni operaie i « nazionalsocialisti » poterono disporre politicamente e in piena libertà del potenziale autoritario degli operai. Questo spiega perché, fino a quando queste organizzazioni operaie erano ancora in vita, vi furono molti tentativi di opporre una resistenza collettiva, ma questa resistenza si frammentò e si sfilacciò in singoli olocausti, non appena le parole d’ordine della resistenza collettiva, sostenute da potenti organizzazioni, vennero meno. Marx ed Engels, che non avevano posto al centro della loro analisi questa considerazione di una dialettica specifica dei caratteri elementari e dell’organizzazione proletaria, non hanno escluso la possibilità di una generale catastrofe sociale che significa la fine per entrambe, per la classe dominante come per quella dominata. Ma che la classe operaia, ridotta al suo stato di natura individualistica dell’utile privato, potesse prendere parte in modo attivo all’autosfruttamento, era probabilmente troppo lontano dal loro orizzonte ideale.
Che cosa comporta per noi oggi questa difficoltà storico-teorica, che risale ad esperienze storiche, di riuscire ad attenersi all’analisi di classe e nello stesso tempo a cogliere la realtà delle condizioni di vita proletarie? Il singolo proletario non rappresenta quella forma elementare (Zellenform) alla quale si potrebbe risalire per comprendere le forze che stanno alla base dei movimenti politici. L’individuo non è un tutto sintetico, il cui centro organizzativo sarebbe un’identità stabile. E la classe operaia non è affatto un individuo sovradimensionale, che agendo secondo norme unitarie opera nella storia. Ma se scopriamo le forme elementari nei singoli caratteri proletari dell’operaio, diventano allora immediatamente visibili i caratteri borghesi che legano lo stesso individuo alla società esistente. Quale criterio metodologico dobbiamo assumere che in ogni singolo carattere dell’operaio sono contenute ambivalenze, duplicità. Il fatto che egli appartenga alla classe e si organizzi politicamente in essa non marca l’intero proletario ma vincola soltanto determinati caratteri. Il suo bisogno di liberarsi dall’oppressione e dallo sfruttamento e di combattere l’attuale situazione di disagio può indurlo ad organizzarsi nel sindacato o ad aderire a un partito operaio. Il legame di fedeltà a queste organizzazioni non esaurisce però la sua totalità di vita: con altre parti dei suoi caratteri può essere integrato a tal punto nell’ordinamento di potere esistente che soltanto la politicizzazione di questi caratteri ristabilisce una economia complessiva dei suoi comportamenti tale da assicurargli una certa indipendenza dagli influssi continuati del sistema di dominio esistente. Uno degli errori fondamentali dell’analisi marxista del proletariato consiste nella convinzione che negli operai, che si organizzano in sindacati e partiti proletari, sono riscontrabili esclusivamente caratteri
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proletari. Io intendo per caratteri e forze proletari quelli che sono rivolti all’emancipazione e mirano a spezzare l’attuale sistema di potere con una attività concreta.
Se si parte da questa valutazione allora non è piu assolutamente naturale rilevare caratteri proletari solo nella classe operaia tradizionale e riconoscerli soltanto là dove esiste una situazione di necessità legata a condizioni materiali di vita. Se gli uomini si associano per combattere eventi minacciosi che mettono in pericolo le condizioni di vita dell’esistenza umana, nel processo di autorganizzazione della loro lotta essi esprimono tali caratteri proletari. Anche qui si tratta soltanto di elementi. In tal senso si può affermare che nelle iniziative di cittadini, nel movimento di emancipazione delle donne, nel movimento antinucleare, nella contestazione degli studenti agiscono caratteri proletari e motivazioni proletarie, anche se tutte queste iniziative e movimenti non possono essere immediatamente collegati con la rappresentazione tradizionale degli operai dell’industria. La lotta non è attuata nella prospettiva di un superamento dell’intero assetto sociale nella sua attuale struttura di potere e per l’organizzazione di una società diversa. Il movimento sta veramente nel dettaglio, nella forma elementare; esso tuttavia non è solo individuale ma esprime capacità socializzate. Molto di ciò che spinge gli uomini verso queste iniziative e movimenti rimane estraneo ad interessi di emancipazione e resta legato all’ordine esistente. Ma proprio la concentrazione su determinati punti, ai quali si saldano interessi di emancipazione, costituisce una leva materiale decisiva, un luogo concreto di contatto con la realtà oggettiva, per poter ottenere una organizzazione nuova e diversa anche dei restanti caratteri.
Se si parte dall’organizzazione elementare dei caratteri che si collegano a processi di emancipazione o restano prigionieri del sistema vigente, ciò presuppone anche un concetto diverso dell"organizzarsi e dell"organizzazione. Le organizzazioni tradizionali hanno la tendenza a stimolare e a vincolare gli uomini su determinati punti dei loro interessi e della loro fedeltà. Si diventa membro di un partito e si paga con la fedeltà per ciò che ci si aspetta da lui in termini di protezione e difesa. Di solito queste organizzazioni non sono interessate a politicizzare l’uomo nella sua totalità, vale a dire a liberare caratteri non emancipatori dalla loro naturale implicazione con legami di dipendenza. La fedeltà come principale mezzo di pagamento ha tuttavia una limitata efficacia nella modificazione della coscienza e del comportamento.
È proprio quest’idea tradizionale di organizzazione, condizionata soprattutto dal modello del circolo borghese, ad essere chiaramente corresponsabile della limitata attenzione che le organizzazioni operaie mostrano verso l’industria della coscienza e i media. Gli operai nella loro coscienza e nel loro comportamento non hanno lo status di recipienti vuoti che potrebbero essere riempiti qualora essi fossero consapevoli dei loro interessi reali. Là dove il giornale illustrato è il giornale piu diffuso tra gli
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operai, di continuo viene inculcato negli uomini materiale ideologico e propensioni a comportamenti che hanno proprio la funzione di non renderli consapevoli dei loro interessi immediati. Foucault ha localizzato il potere proprio nel particolare, negli spazi operativi che un uomo ha, nei luoghi e tempi che caratterizzano le sue condizioni di vita. Non è dunque il sistema di potere nel suo complesso ad impedire l’emancipazione degli uomini ma la dipendenza di singoli caratteri degli uomini che spesso li induce addirittura ad agire contro i loro interessi.
Le ambivalenze dei singoli caratteri penetrano negli stessi operai. È proprio lo stesso operaio quello che difende accanitamente il mantenimento del cantiere navale che produce i sommergibili per il Cile e nello stesso tempo sottoscrive risoluzioni di protesta contro il regime di terrore di questo paese. Conservare il posto di lavoro, vale a dire i concreti rapporti di realizzazione di lavoro vivo per assicurarsi il proprio sostentamento, e combattere la repressione, il cui scopo è la produzione di sommergibili, sono aspetti che convivono in uno stesso operaio e presentano soltanto i diversi lati della stessa cosa. Questa coscienza ambivalente si palesa anche in rapporto alle alterazioni ecologiche delle condizioni di vita, che vengono calcolate in termini di posti di lavoro. Dove i vari caratteri non vengono organizzati secondo la loro tendenza all’emancipazione, essi contraddistinguono l’individuo come un ammasso, in sé privo di consistenza, di tali caratteri.
L'uomo totale non è punto di partenza ma méta dell'emancipazione. Si può senz’altro dire in senso non esclusivamente metaforico che gli uomini, in condizioni di sfruttamento e oppressione, non rappresentano un’unità realmente sintetica. Un’unità sintetica potrebbe realizzarsi soltanto quando i singoli caratteri avessero raggiunto un livello di emancipazione tale da consentire una struttura dotata di identità. Ciò presupporrebbe che le potenzialità degli uomini, rivolte ad un progetto di socializzazione e di solidarietà, fossero sviluppate a tal punto da riconoscersi nella realtà concreta. La soppressione dell’autoestraniazione percorre la stessa strada del-l’autoestraniazione, ha detto Marx, e la rimozione dell’alienazione può essere attuata solo quando le forme elementari delle relazioni tra soggetto e oggetto vengono trasformate. Sensi umani sorgono soltanto quando vengono prodotti oggetti umani dei sensi.
8. La mutata posizione del soggetto nel processo rivoluzionario. In un periodo in cui le masse degli uomini, lo volessero o no, furono attratte nel vortice della polarizzazione di classe era naturale ritenere che l’elemento coercitivo nei rapporti oggettivi fosse ciò che definisce e limita in primo luogo la libertà d’azione degli uomini. Si è rimproverato sempre a Marx un autoequivoco oggettivistico, ma ora si rischia di non vedere appieno che questo oggettivismo non era una questione della semplice decisione conoscitiva ma era interamente fornito dalla storia.
Dove gli uomini sono trascinati in questa polarizzazione di classe, dove
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essi diventano semplici appendici del capitale, Marx ed Engels parlano di leggi sociali di natura. Essi non lo fanno per prolungare all’infinito queste leggi di natura ma per spiegare la scarsa efficacia dell’intervento della volontà e della coscienza degli uomini sui processi storici. Che cosa si deve pensare, chiede Engels, di una legge il cui effetto è quello di far crollare continuamente il tetto sulla testa degli uomini? Essa ha gli stessi effetti di una legge naturale, di una catastrofe naturale, le cui conseguenze possono essere limitate solo in piccola parte e nei cui confronti il singolo è nella condizione della vittima.
Se questo eccesso di oggettivismo è giustificato al tempo di Marx, l’ottica, per cosi dire, trascendentale con cui può venire considerata la vita nel XIX secolo, in presenza di uno sviluppo assai rapido del capitale, non si può estendere impunemente a rapporti nei quali, se il capitale impera come prima, tuttavia i bisogni degli uomini sono cresciuti in complessità e le loro forme di opposizione si sono differenziate in modo inimmaginabile per Marx. La formula rivolta contro l’idealismo, che è l’essere sociale che determina la coscienza e non la coscienza l’essere sociale, non è una legge indipendente dalla storia; in condizioni concrete la dialettica di essere e coscienza in essa contenuta può spostarsi a favore di uno dei due poli.
La crescita delle forze produttive non ha eliminato sfruttamento e oppressione, ma le forme, in cui esse si affermano, sono riferite, negli ordinamenti sociali capitalistici sviluppati in misura considerevolmente maggiore che al tempo di Marx, alla considerazione delle dimensioni soggettive del potere. Il capitale, nell’interesse del mantenimento dei rapporti di produzione esistenti e dell’ordinamento politico ad essi adeguato, è costretto ad occuparsi degli accresciuti bisogni degli uomini e dei loro diritti ottenuti lottando, e a sviluppare strategie dell’industria delle coscienze.
Finché era valido supporre che gli uomini non hanno da perdere altro che le loro catene, si potevano dedurre le motivazioni all’agire, ai fini del superamento della situazione attuale, immediatamente dall’emergenza delle condizioni obiettive ed era legittimo contare sul fatto che il peso delle circostanze avrebbe costretto un giorno gli uomini all’azione rivoluzionaria, qualunque pretesto avessero trovato che tale superamento non dipende da loro. Non appena questa stretta connessione tra cause dell’agire e situazione oggettiva non esiste più a motivo del differenziarsi del sistema di potere e della crescita abnorme della ricchezza sociale, anche le motivazioni per un superamento dell’attuale società si fanno più complicate.
Ci troviamo oggi in una situazione che impone una teoria rivoluzionaria dell'azione. Anche su questo punto la storia dello sviluppo del marxismo è caratterizzata da fatali esclusioni. Il divieto dell’utopia di Marx ed Engels aveva il significato positivo di esercitare una critica nei confronti di quelle concezioni che facevano della volontà rivoluzionaria e del bisogno di una società liberata le uniche leve della trasformazione. Marx ed Engels insistettero perciò giustamente sulla materialità di tutte le
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situazioni, che vanno comprese senza illusioni prima che sia possibile un’azione efficace sui nessi storici. La funzione strategica di questo divieto dell’utopia era definita dalla situazione storica in cui tutte le forze di opposizione, in qualunque campo agissero, avevano una eccessiva propensione per la coscienza, le idee e la buona volontà. Marx ed Engels erano consapevoli del fatto che semplici idee non sono in grado di conseguire nulla contro la forza compatta di una classe di capitalisti fondata su condizioni materiali.
Mentre si dichiaravano come verità eterne le originarie valutazioni di Marx ed Engels nella relazione tra soggetto e oggetto, si accamparono accanto alla teoria scientifica marxista molte indagini e teorie che occuparono gli spazi trascurati dall’analisi materialistica. Non tutte queste teorie si considerarono esplicitamente delle risposte alla perdita di soggetto del marxismo, per ciò che riguarda la sua fondazione teorica. Tuttavia mentre i marxisti ripetevano imperterriti la microanalisi della produzione di merci e del capitale, si sviluppò {accanto e completamente indipendente dalle idiozie dell’attribuzione dell’ortodossia marxiana) una teoria del soggetto che perseguiva quest’ottica del microscopico sino nelle strutture costitutive dell’individuo. La psicoanalisi di Freud, con il suo modo di concepire la vita psichica in maniera differenziata rispetto alla semplice psicologia degli interessi e del bisogno, corrisponde allo sforzo del concetto che Marx stesso ha seguito nella ricerca del nesso unitario di produzione e riproduzione della vita sociale. Se avesse conosciuto la teoria freudiana egli, con il suo istinto innato per le grandi scoperte in campo scientifico, avrebbe avuto nei suoi confronti lo stesso atteggiamento che aveva manifestato verso la filosofia di Hegel. Perché anch’essa aveva un’origine borghese e non era concepita per il futuro proletariato.
Marx ha sempre insistito sul fatto che la validità di categorie e conoscenze non si esaurisce nella loro genesi. Il nocciolo razionale che egli aveva enucleato nell’idealismo assoluto di Hegel per poter rimettere in piedi questa teoria, l’avrebbe scoperto anche nella psicoanalisi freudiana. Il fatto che questa teoria fosse ricavata da materiale relativo a situazioni patologiche di uomini psichicamente malati inseriti in una situazione sociale, nella quale incominciava già a disgregarsi il sostanziale sistema di potere della borghesia, difficilmente avrebbe costituito per lui un’obiezione contro la validità di categorie come Io, Super Io, Io Ideale, inconscio, rimozione di energie psichiche ecc.
La lotta dei marxisti ortodossi contro la psicoanalisi si rivela sempre più come un assurdo teatro e le categorie della delimitazione sono piuttosto concetti polizieschi che esigenze dell’oggetto. Ciò vale non soltanto per la storia della scienza degli anni Venti, quando marxisti importanti come Wilhelm Reich furono espulsi dal movimento comunista perché posero al centro delle loro indagini l’ambivalenza dei bisogni e degli interessi, soprattutto dei conflitti quotidiani degli operai. Se si fosse considerato con maggiore convinzione il fatto che non solo i semplici
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membri del partito obbediscono ai meccanismi di un apparato psichico in cui si trova un campo di battaglia di rimozione, compensazione, di adattamento alla realtà e censura del Super Io, ma anche i dirigenti di questo movimento, che non potevano compensare con la stretta osservanza del catalogo dei doveri dell’agire collettivo tutti i danni di socializzazione, che hanno subito dalla società borghese, non si sarebbe allora guardato al crollo del movimento operaio e al fascismo, che cresceva come una valanga, in modo impotente come di fronte ad una catastrofe naturale. Anche un cittadino e funzionario del « socialismo realmente esistente » è, per acuire in modo polemico la mia critica, condizionato da categorie come Io, Super Io, Io Ideale, già nella sua capacità al puro adattamento alla realtà e nella possibilità di organizzare le sue relazioni spaziali é temporali secondo esigenze obiettive, soprattutto nel suo atteggiamento complessivo nei confronti dell’essere sociale, se prescindiamo compieta-mente da nevrosi e psicosi che rinviano a socializzazioni fallite. L’idea che un uomo lavori soltanto secondo i principi del sistema nervoso neurofisiologico e sia in grado di elevare i suoi interessi e bisogni naturalmente a livello della coscienza, è una pura finzione; se si accettano le versioni ufficiali della psicologia, dovrebbe pur sempre esser spiegato, come possano verificarsi in questi ordinamenti sociali a livello psicologico interiore processi di identificazione cosi forti con il segretario generale di turno del partito e perché alla loro morte o destituzione, di solito non abbia luogo il compianto per la perdita.
La battaglia contro la psicoanalisi corre evidentemente lungo una linea caratterizzata dall’arcaico pregiudizio che i messaggeri di sfortuna ne siano anche la causa. Chi mette in luce la complessità del soggetto, i molteplici blocchi che si oppongono al pensiero progressista socialista, non è accettato come uno che ricerca le condizioni materiali della trasformazione dei soggetti, ma viene considerato come un propagandista della disgregazione borghese. Questo pregiudizio ha tuttavia come conseguenza che in queste società, al di sotto della coscienza ufficiale, si deposita sempre più l’inconscio, che non ha nessuna manifestazione pubblica e produce varie forme di protesta e di atteggiamenti devianti.
Ma questo pregiudizio contro la soggettività ha motivazioni sistematiche ancora più profonde. Alla base vi è certamente l’idea che il capitale, l’economia, in genere le condizioni comunemente considerate come materiali, costituiscano il duro oggetto della scienza mentre la psiche forma la materia molle} qualcosa di plastico che non ha forma. Oggi tuttavia sappiamo che gli uomini possono morire a causa di problemi psichici esattamente come per un colpo d’ascia o di oggetti materiali che feriscano la loro integrità fisica. Anche storicamente questo errore di trattare la realtà concreta come adatta alla teoria e di considerare la realtà psichica come problema non scientifico, ha prodotto conseguenze funeste sotto ogni aspetto. Lo si può spiegare con un esempio: i desideri collettivi di molti uomini che si sentirono feriti nella loro integrità nazionale a causa del
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trattato di Versailles alla fine erano una realtà molto più materiale della linea Maginot, che in pochi giorni fu travolta. È senz’altro esagerato ma non privo di senso affermare che, in questo, realtà psicologiche di massa, che indubbiamente si fondano sempre sulla psiche individuale, possono essere più concrete del calcestruzzo.
Negli anni Settanta si ripete ciò che in tutt’altre condizioni aveva rappresentato la battaglia contro la psicoanalisi in tutta la storia della III Internazionale. La dimensione dell’analisi marxiana del capitale, dimenticata nel periodo del dopoguerra, fu richiamata alla memoria nell’ortodossia inopportuna. Quanto più le analisi erano riferite al capitale tanto più scientifiche esse apparvero e tanto più energicamente furono messe al bando ricerche che provenivano dal campo psicoanalitico. Queste analisi del capitale si collegarono ad un concetto non meno rigido di organizzazione. Si può dire in generale che la rimozione della psicoanalisi è tanto più decisa quanto più Fazione dell’istanza di censura dell’Io è minacciata dalle energie psichiche respinte nel subconscio. La lotta contro la psicoanalisi è sempre un sintomo del fatto che i soggetti devono mantenere i loro bisogni reali con enormi fatiche al di sotto del livello della loro coscienza.
Se in quest’ambito si vuole considerare seriamente il concetto di ortodossia, si dovrebbe allora riempirlo di nuova vita. Un marxista ortodosso non è chi ripete le parole di Marx, come se si potesse applicare senza esitazione questa teoria, sostanzialmente storica, a qualsiasi situazione storica, ma chi porta a compimento la dialettica di concetto e oggetto. Ciò che Marx poteva dire sulla conformazione del soggetto non si fondava su una scienza sviluppata della psicologia corrispondente a quella che esisteva nel caso dell’economia politica. Sull’individuo egli poteva in fondo fare soltanto affermazioni di principio: sul suo ruolo nel processo di costituzione della società borghese e sulle sue possibilità di emancipazione. Le forme, nelle quali si compie la trasformazione dell’essere sociale in soggetto, erano ancora ampiamente sconosciute per il livello di conoscenze della psicologia di quel tempo. Per questo motivo Marx ha formulato soltanto una direzione programmatica riferita al soggetto, quando parlava di insieme di rapporti sociali o meglio di comunità interiore dell’uomo. L’idea che la comunità esteriore, la società, si rispecchia senz’altro nel soggetto, è completamente estranea al suo pensiero, perché nella società stessa vi sono già elementi soggettivi. Tutti gli elementi dell’esteriorità sociale si ripresentano anche nell’interiorità ma proprio nella forma di elementi soggettivi, nella logica, rivolta all’interno, delle loro relazioni. Se si considerano le affermazioni di Marx sull’individuo e sulla soggettività come risultato di processi di ricerca corrispondenti al grado di conoscenze raggiunto dall’economia politica e si ripetono queste affermazioni per mezzo di un’abilità di citazione appositamente istruita, sicuramente, considerato l’attuale livello conoscitivo, si dovrebbe respingere Marx ad un livello prescientifico. Marx ha abbozzato una teoria materialistica della
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soggettività ma non l’ha sviluppata in modo analogo a quella dell’economia politica, né avrebbe potuto svilupparla. Per farlo oggi è inevitabile porre fine alla vicenda dell’esclusione della psicoanalisi dal contesto scientifico marxista e nello stesso tempo riprendere quelle indagini specifiche che si fondano su una reale esplorazione del soggetto.
9. Il precario rapporto di lavoro, forze produttive e natura. Giungo ora al terzo ed ultimo punto nel quale cerco di spiegare la necessità e il significato di un rinnovamento del pensiero marxiano. Rinnovamento significa, per un verso, rigorosa fedeltà alla teoria marxiana, per ciò che riguarda il suo concetto sostanziale e non semplici espressioni letterali, per un altro, sviluppo dei programmi lasciati incompiuti, se essi sono inerenti a processi reali di ricerca e se contribuiscono ad orientarsi nel mondo attuale. Il punto più difficile di questo progetto incompiuto riguarda il mutato rapporto tra lavoro, forze produttive e natura.
Marx ha analizzato con estremo rigore le relazioni della logica del capitale ma non ha fatto altrettanto con il lato opposto del capitale, del quale il capitale vive e che costituisce il fondamento della formazione dell’oggetto: la forza lavoro vivente. Ciò è tanto più sorprendente in quanto il lavoro vivente è la fonte di valore e plusvalore, quindi interviene anche nella fondazione del contesto sociale. A rigore l’uomo per Marx nasce soltanto quando riceve il primo salario. Questa è certo un’esagerazione, perché Marx non ha lasciato dubbi sul fatto che le merci non possono andare da sole al mercato. Anche qui non si tratta solo di una questione del principio sul quale la critica deve appuntarsi, ma del problema, da un lato, dell’elaborazione scientifica differenziata, e dall’altro della direzione d’indagine definita piuttosto in modo non sistematico. Non si tratta in questo caso di deformazioni consapevoli della cosa. Se tuttavia si ammette l’inconscio nel lavoro scientifico e si cerca di definirlo, si può certamente affermare che la ricchezza categoriale nello sviluppo della logica del capitale dà la sensazione che tutto ciò che non serve immediatamente per la valorizzazione del capitale si abbassi, nella gerarchia degli oggetti della conoscenza, a livello della materia molle. Secondo l’ottica del capitale una tale svalutazione di tutto ciò che non gli serve, è assolutamente giustificata. L’obiezione contro questa valutazione differenziata della diversa attitudine scientifica degli oggetti si basa certo sul fatto che, a passare per la cruna dell’ago del capitale, è evidentemente soltanto un piccolo frammento del patrimonio complessivo di forza lavoro vivente, la cui nascita, mantenimento e altre oggettivazioni coinvolge una molteplicità di processi lavorativi per i quali il capitale non paga assolutamente nulla ma dei quali vive e si nutre.
« La determinazione di valore della merce forza-lavoro contiene un elemento storico e uno morale », scrive Marx nel primo volume del Capitale. Solo la determinazione di valore? Ma a prescindere da ciò, Marx non ha mai dimostrato un . interesse conoscitivo sistematico per nessuno dei due elementi, per quello morale e storico della forza lavoro vivente, né
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all’interno, né allf e sterno della determinazione di valore. Se è vero che il lavoro vivo è la fonte determinante (anche se non l’unica fonte) della ricchezza sociale, ma anche del plusvalore e del valore, non riesco allora a comprendere perché Marx potè dedicare così poca attenzione e discernimento alle impronte storiche e sociali della forza-lavoro. Di solito egli non aveva mai rinunciato a indagare anche il minimo fenomeno nel contesto capitalistico, se esso riguardava ['economia del lavoro morto.
Proprio in occasione di un anniversario di Marx come quello che celebriamo quest’anno, è necessario spezzare la compattezza delle ortodossie marxiste e valorizzare nuove e critiche modalità di pensiero, formulazioni ipotetiche, senza sottomettersi agli stupidi meccanismi della definizione dei confini. Una di queste ipotetiche questioni sarebbe la seguente: è totalmente assurdo ritenere che la forza di realtà del capitale, che Marx voleva comprendere fino in fondo per poterla spezzare, non abbia esercitato sullo stesso Marx un fascino tale da impedirgli di considerare forme di resistenza di lavoro vivo al di fuori del proletariato, rivalutato a soggetto collettivo?
Se fosse vero che il fascino della forza del capitale, quale Marx ha descritto espressamente nel Manifesto del partito comunista, ha agito sullo stesso Marx, allora si pone un’ulteriore domanda: se non si debba ora sviluppare il lato opposto del capitale, cioè un’economia politica della forza lavoro nelle condizioni presenti, per poter davvero comprendere l’efficacia storica del capitale. Non si tratterebbe di un annullamento dei meccanismi esaminati nel Capitale ma, al contrario, di un’integrazione di queste leggi capitalistiche in un’economia politica della forza-lavoro, come scienza che sta alla base dell’intero processo di produzione e riproduzione della società.
Il capitale del XIX secolo era pienamente compreso nell’idea di un progresso sociale che coinvolgesse tutto, anche al di fuori dell’ambito capitalistico. Ma negli sviluppi successivi del capitalismo la situazione diviene sempre più assurda; quanto più il capitale si espande tanto meno è in grado di mettere a disposizione della forza lavoro vivente concrete condizioni di realizzazione. Persino un antico privilegio del genere umano, quello di essere l’unico detentore dell’esercizio di cervello, muscoli, nervi, è minacciato dai moderni sistemi meccanizzati. Che cosa resta in queste condizioni della forza lavoro vivente? Quali sono le nuove possibilità di realizzazione se si esce dallo schema del vincolo capitalistico? Come si può impedire che singole abilità storiche si perdano perché non trovano nessuna utilizzazione concreta o vengono relegate in ambiti di lavoro che servono all’ulteriore sfruttamento e avvilimento degli uomini?
Da tempo queste non sono più questioni legate alla semplice economia delle crisi. Esse riguardano direttamente il modo di vita degli uomini, il loro rapporto reciproco e con la natura. Se si considera il Capitale secondo l’ottica predominante dell’analisi, si può presumibilmente pensare che i media borghesi, con la loro industria delle coscienze tecnologicamente
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sempre più perfezionata, siano in procinto di utilizzare la forza-lavoro espulsa dal processo produttivo per impedire agli uomini di prendere coscienza della loro mutata situazione sociale o di integrare le forze lavoro eccedenti in un proliferante apparato di impiegati e funzionari per controllare le espressioni di dissenso nelle forme di uno Stato di controllo.
Il capitalismo è sempre stato in grado di trovare ambiti di utilizzazione per la forza lavoro vivente, per impedire la catastrofe o la rivoluzione. Ma ora non è affatto rilevante quale fantasia il capitalismo sia in grado di sviluppare per governare le crisi, è pericoloso soprattutto che la sinistra, subendo il fascino paralizzante delle infinite risorse del capitalismo, perda la sua propria fantasia per una trasformazione della società. Essa contempla il vecchio concetto di lavoro e si rifiuta di concepire il lavoro in modo diverso da quella forma di lavoro retribuito definita dal capitale e chiama gioco o tempo libero tutto ciò che esula da questa rappresentazione. Lo stesso Marx aveva, invece, sul rovescio dell’analisi del capitale un’idea molto chiara del lavoro come di un mezzo di espressione essenziale per il ritrovamento dell’identità degli uomini. Nel momento in cui il soggetto si oggettivizza, l’oggetto si soggettivizza, e proprio questa dialettica di soggetto e oggetto è centrale per un concetto emancipatore di lavoro senza il quale non si può attuare una liberazione della scienza.
Si è spesso rimproverato a Marx ed Engels di avere una concezione del progresso staticamente legata allo sviluppo delle forze produttive. Vi sono effettivamente delle affermazioni di Marx ed Engels che lo confermano. Engels dice: « Macchine a vapore, elettricità e filatoi sono stati dei rivoluzionari molto più importanti dei rivoluzionari Blanqui, Raspail e Bar-bès ». Certo, rivoluzionari più grandi nella distruzione dei vecchi rapporti! Ora le forze produttive di questo tipo hanno ancora una funzione determinante, liberatoria. Ma quando i vecchi rapporti sono distrutti e si tratta ora di edificare una nuova società e cioè con motivazioni che non possono più trarre orientamento dalla forza della distruzione, ma piuttosto dalla fantasia sociologica, su come dev’essere una nuova società liberata, allora la logica dello sviluppo delle forze produttive perde la sua pregnante importanza. Le forze produttive capitalistiche hanno il compito di distruggere i rapporti tradizionali e il peso che Marx ed Engels attribuiscono a queste forze produttive può essere uno dei motivi per cui le loro teorie sono state accolte come teorie di modernizzazione da classi che attuavano la propria emancipazione nelle condizioni di ordinamenti sociali tradizionali.
Sebbene Marx ed Engels attribuiscano alle forze produttive della struttura capitalistica un ruolo determinante nello sviluppo sociale, essi hanno nello stesso tempo compreso che l’azione di rapina del capitale nei confronti degli uomini e della natura è duplice. Tradizionali legami di dipendenza vengono trascinati nel turbine della produzione di merci e sorgono le condizioni oggettive per una possibile riorganizzazione della società. Marx era consapevole che su questa via i guasti, causati dalla produzione
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all’equilibrio ecologico, sono inevitabilmente connessi alla tendenza immanente alla logica del capitale. Nel primo libro del Capitale egli osserva che con la crescente preponderanza della popolazione urbana, ammassata in grandi centri, la produzione capitalistica, da un lato, aumenta la forza motrice storica della società, d’altro lato, altera il ricambio organico tra uomo e natura. Questa alterazione consiste nel fatto che quelle componenti del terreno che l’uomo utilizza per nutrirsi e vestirsi non ritornano alla terra. Il processo di scambio tra uomo e natura è unilaterale. Se dunque l’urbanizzazione è connessa ad una concentrazione del proletariato, che fa di esso una forza storicamente attiva, a causa dello stesso processo la salute fisica dell’operaio di città e la vita spirituale del lavoratore agricolo sono minacciate. La trasformazione capitalistica del processo di produzione appare immediatamente come martirio dei produttori, lo strumento di lavoro come mezzo di sottomissione e impoverimento dell’operaio. La composizione sociale dei processi lavorativi si ribalta in una repressione organizzata della sua vitalità e libertà individuale. Ogni progresso nell’aumento della produttività del terreno per un limite prefissato è, nello stesso tempo, un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Marx riassume le sue argomentazioni relative al rapporto tra uomo e natura nel modo seguente: « Quanto più un paese, p. es. gli Stati Uniti dell’America del Nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sorge ogni ricchezza: la terra e roperaio ».
Questa dialettica di progresso e distruzione, sviluppata nel rapporto di città e campagna, accenna ad un’analisi materialistica dell’ecologia. I problemi ecologici non sono scindibili dalla tendenza intrinseca al capitale, ma non si esauriscono in essa. Marx non ha sviluppato ulteriormente questo punto, probabilmente anche perché sperava che non si sarebbe arrivati ad un vero annientamento degli operai e della terra, e che il proletariato avrebbe prima attuato la rivoluzione. Marx celebra Justus von Liebig, l’inventore del concime artificiale e consiglia l’impiego del fertilizzante quale mezzo per l’incremento della produttività. Marx non poteva chiaramente immaginare una situazione sociale, che oggi è realtà, in cui i contadini lamentano che la terra produce i frutti solo per forza d’inerzia, e che l’unico luogo in cui c’è ancora vita nel terreno sono i cimiteri.
Non si tratta di costringere nel contesto di categorie del pensiero marxiano tutti gli sviluppi sociali e i movimenti di protesta apparsi di recente sull’orizzonte storico. È tuttavia importante non rinunciare, se non è necessario, a teorie che esprimono nessi sociali complessi, anche se singoli fenomeni non sono più comprensibili con gli strumenti conoscitivi di "queste teorie. La dottrina di Marx, come teoria epocale della società, spiega nel suo insieme sempre molto di più delle teorie borghesi, frammentate in settori specifici dell’indagine empirica, che sanno bensì
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mettere a fuoco singoli fenomeni, ma trascurano il problema principale della formazione della teoria, vale a dire connessione, totalità concreta.
Ciò che vale per il concetto qualitativo di lavoro, tracciato da Marx, ma non sviluppato in un’economia politica della forza lavoro, vale in misura analoga per il concetto di natura che Marx ha esplicitamente considerato nei primi scritti e non ha completamente abbandonato neppure nel Capitale e nei Grundrisse. Fondare una teoria ecologica sul pensiero di Marx non sembra affatto scorretto. Nel terzo libro del Capitale Marx formula, in modo quasi poetico, nonostante sia occultato nelle determinazioni economiche della rendita fondiaria, una sorta di contratto di diritto naturale tra le generazioni, in cui è definito il rapporto dell’uomo con la natura. Egli dice: « Secondo il punto di vista di una formazione socio-economica superiore, la proprietà privata di singoli uomini sulla terra sembrerà altrettanto insensata della proprietà privata di un uomo su un altro uomo. Persino un’intera società, una nazione, tutte le società contemporanee riunite, non sono padrone della terra, sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e devono lasciarla come boni patres familias alle generazioni che verranno ». Gli uomini hanno un dovere, stabilito dal diritto naturale, di operare sulla terra in modo che le condizioni di vita delle generazioni future non siano compromesse.
Se si considera questa affermazione di Marx, la si può certamente collegare con l’angoscia di molti uomini nei confronti dell’energia nucleare. Le stesse argomentazioni sul fatto che la creazione di centrali nucleari vincola e mette in pericolo generazioni di uomini, sono collegate in modo non superficiale con il pensiero marxiano. Una generazione che vuole comportarsi come buoni padri di famiglia deve avere nei confronti della terra un atteggiamento di premura.
Giungo alla conclusione. Nessun movimento sociale di emancipazione può rinunciare alla teoria. Le classi dominanti si limitano ad utilizzare frammenti di legittimazione come facciate del loro potere. Ma le classi oppresse, che vogliono liberarsi, sono costrette ad allacciare l’una all’altra utopia e conoscenza nella loro lotta per l’emancipazione. Dove il marxismo rinuncia ad una teoria dell’azione rivoluzionaria degenera in un atteggiamento scientifico borghese. Il senso pratico della teoria consiste nell’affermare che è impossibile, per movimenti di emancipazione, determinare condizioni e confini dell’azione unicamente attraverso l’esperimento pratico. Dove gli uomini sbattono continuamente contro il muro e non comprendono in che cosa sbagliano, la conseguenza non può essere altro che l’irrigidimento provocato dall’insuccesso e la passività. Freud ha definito il pensiero come agire in prova. Ciò vale anche per possibili processi di apprendimento di classi e gruppi che agiscono storicamente. Perché non esiste movimento di emancipazione che possa permettersi di rinunciare alla memoria sociale della storia di resistenza e di lotta.
Ho già fatto notare che non si tratta della restaurazione di una ortodossia testuale. Marx non ha indagato tutto ciò che sarebbe necessario alla
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comprensione del mondo contemporaneo. Chiunque si occupi di rapporti attuali non avrà letto solo Marx ai fini della sua comprensione del mondo, ma anche Max Weber, altri sociologi e filosofi, e nulla di ciò che ha appreso è superfluo. Ciò che manca tuttavia a queste teorie è il punto di vista, collegato a movimenti di emancipazione, della spiegazione secondo nessi logici. La connessione è il segno distintivo di una teoria che fornisce agli uomini una guida per sapersi orientare nel mondo e nelle proprie condizioni di vita. Un rinnovamento vivace del pensiero di Marx costituirebbe un luogo di cristallizzazione essenziale per un concreto lavoro storico nel quale i molteplici movimenti di emancipazione, attualmente costituitisi, potrebbero valutare meglio la loro collocazione sociale e organizzare piu efficacemente i loro processi di apprendimento.
(traduzione di Beatrice De Gerloni)