RICERCHE SUL LAVORO IN FRANCIA: RAPPRESENTAZIONI E CONSENSO

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Title
RICERCHE SUL LAVORO IN FRANCIA: RAPPRESENTAZIONI E CONSENSO
Creator
Simona Cerutti
Date Issued
1987-04-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
22
issue
64
page start
255
page end
274
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Rights
Quaderni storici © 1983 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20231101182419/https://www.jstor.org/stable/43778431?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1987%26ed%3D1987%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A45e818b6c407e7ae233b23cd78047698
Subject
biopower
non-discursive practices
apparatus (dispositif)
institutions
extracted text
Ricerche sul lavoro in Francia: RAPPRESENTAZIONI E CONSENSO
1. All'origine di Work in France 1 è un convegno tenutosi presso la Cornell University nell'aprile del 1983, cui presero parte studiosi statunitensi, francesi e inglesi. Il volume ne raccoglie gli interventi e presenta insieme alcuni articoli di commento (18 saggi in tutto) e un'introduzione dei curatori, Steven L. Kaplan e Cynthia J. Koepp. Il progetto e gli intenti del libro vengono presentati al termine di un lungo excursus attraverso il pensiero illuminista fino alla storiografia di inizio secolo, che tende a mettere in luce la difficile identificazione dell'oggetto lavoro e le implicazioni ideologiche di cronologie esclusivamente politico-istituzionali.
Per i curatori, si tratta di riconoscere ora che quello del lavoro è sostanzialmente un tema ancora inesplorato, cui è necessario accostarsi riformulando alcuni quesiti di base. «Tornare al luogo di lavoro stesso, analizzarlo per come è vissuto, identificare il significato che gruppi e individui specifici in un dato momento e in una data società gli attribuivano» (p. 28). In questo senso Work in France interpreta e riassume le istanze per una più concreta storia del lavoro avanzata nel corso degli ultimi due decenni dagli storici, ma anche da sociologi e antropologi. Ad esse dobbiamo tentativi di ridefinizione dell'oggetto 2; proposte importanti di contestualizzazione 3 e anche la rinascita di interesse per un tema «sospetto» (in Italia e in Francia almeno) come le corporazioni di mestiere in età moderna 4.
La forza del progetto e l'unità del volume sono rivendicate soprattutto nel carattere decostruttivo di stereotipi e versioni ideologiche piuttosto che in comuni indicazioni tematiche o scelte di periodizzazione. Ma anche nel consenso sostanziale che sembra accomunare gran parte degli autori sul fatto che, all'interno di una riflessione ancora prevalentemente orientata verso
QUADERNI STORICI 64 / a. XXH, n. 1, aprile 1987



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Simona Cerutti
un confronto con il marxismo, il «“lavoro sul lavoro” può trarre vantaggio da nuovi approcci, quali quelli offerti dall’antropologia culturale» (pp. 9-10). La sua proposta teorica, più che metodologica mi pare, consente di affrontare, insieme, piani diversi della realtà del lavoro - «l’iconografìa così come i suoi ritmi» (p. 28) ad esempio - e di interpretarli allo stesso modo come espressioni coerenti del vissuto. Il termine «rappresentazione» (enfatizzato nel sottotitolo) sta ad esprimere questa affinità ontologica di ogni manifestazione sociale, ideologica, culturale. «Per rappresentazione intendiamo non solo il linguaggio, l’iconografia e le idee sul lavoro, ma anche quelle attività che sono chiamate lavoro (che rappresentano il lavoro per i membri di una determinata società) così come le rappresentazioni di quanti praticano (o evitano) tale attività. Il convegno [il cui titolo era «Represen-tations of Work in France»] ha dimostrato che le rappresentazioni non possono essere astratte o separate dall’intero tessuto dell’esperienza di lavoro» (p. 9).
L’adesione alle istanze teoriche dell'antropologia culturale di impronta geertziana si riflette concretamente nella successione e nell’organizzazione dei saggi che compongono il volume. L’andamento sotanzialmente cronologico sta a indicare l'uguale peso di ogni manifestazione sociale e culturale; se talora si verifica un addensamento di alcuni dei saggi intorno a nuclei tematici, esso è determinato più dalle analoghe scansioni temporali che da affinità di temi, fonti o metodi di analisi. L'effetto complessivo è quello di un percorso costruito con materiali di diverso tipo (corporazioni, iconografia, ideologie, pratiche di lavoro, autobiografie, statistiche ...) ma dallo stesso peso relativo. Tornerò su questo punto. Soprattutto perché, riassumendo i saggi dovrò, per motivi di brevità, fare alcune forzature sulla struttura del volume, che varrà la pena poi di ricostruire.
2. I primi cinque articoli della raccolta analizzano, da punti di vista differenti, le organizzazioni di mestiere in ancien régi-me. La loro presenza basterebbe a fare di Work in France un libro importante, dopo una rimozione trentennale del tema. Per questo motivo, e soprattutto a partire dalla mia esperienza di ricerca, sarà su questi lavori che mi soffermerò più a lungo. L’intento decostruttivo di stereotipi storiografici è qui assolutamente esplicito: in ciascuno si individuano interlocutori specifici - la storiografia d’impronta illuminista o quella movimentista - e tentativi di ridiscuterne gli assunti.




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Le fonti utilizzate da D. Roche e M. Sonensher contribuiscono intanto a mettere in discussione alcuni degli assunti sui quali l'analisi dei movimenti politici dell'anno II e in generale la storiografia sobouliana si sono fondate. E cioè il carattere armonioso e «intimo» delle relazioni all'interno della bottega tra mastri e lavoranti, determinato dalla stabilità e dalla continuità del rapporto di lavoro. L'autobiografia che Jacques-Louis Ménétra, mastro vetraio parigino stese tra il 1764 e il 1800 5, con la narrazione del passaggio attraverso tutte le fasi prescritte dalla carriera e al tempo stesso le numerose discrepanze rispetto alle normative della corporazione, consente di ricostruire ideali e traduzioni individuali dell'esperienza di lavoro e di quella associativa. Soprattutto, vengono messi in luce due elementi importanti: l'intensa conflittualità che contraddistingue i rapporti del mastro Ménétra con i jurés della corporazione e, nella fase precedente, la forte mobilità nelle botteghe parigine che segna il suo percorso come lavorante. (Work, Fellowship, and Some Economie Reali-ties of Eighteenth-Century France).
Lo stesso tema della mobilità e il problema di comprendere come essa possa coesistere con l'immagine tramandataci della familiarità all'interno dell'atelier, è centrale nel saggio di M. Sonensher (Joumeymens Migrations and Workshop Organization in Eighteenth-Century Francò). È tra i più interessanti dell'intera raccolta, dove l'analisi del rapporto tra comportamenti, ideologie e linguaggi di solidarietà viene approfondito anche rispetto alle ipotesi già formulate dall'autore in altre sedi6. Attraverso lo spoglio dei nominativi registrati nel corso di ventidue mesi (dal 1778 al 1780 circa) presso il Bureau du Placement di Rouen, l'analisi dei percorsi negli ateliers urbani di un gruppo professionale, quello dei sarti, le modalità e i tempi dell'emigrazione, si riescono a ricostruire i ritmi del mestiere e insieme a misurare la straordinaria discontinuità nella permanenza in una stessa bottega. Ma, allo stesso tempo, all'interno di questa forte mobilità Sonenscher rintraccia dei circuiti preferenziali che mostrano come essa sia fortemente strutturata e organizzata intorno a reti di relazione che gravitano al di fuori dell'atelier, concentrate soprattutto nelle locande che ospitano un gran numero di lavoranti. La regolarità dei circuiti (il ritorno di certi lavoranti presso determinati mastri) evoca quindi l'esistenza di forme di socialità, di «intimacy», che non sono tuttavia il «risultato naturale di lealtà regionali o della familiarità creata dalla condivisione di lunghi periodi trascorsi nello stesso luogo di lavoro» (p. 92); ma



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sono creazioni sociali, forme di lavoro esse stesse, prodotte nei momenti di relazione esterni all’atelier. È evidentemente una prospettiva interessante, che affronta il problema della produzione di ideologie e invita insieme a estendere Panatisi dei comportamenti sociali e politici al di fuori delle mura della bottega. Dovremo tornare su quest ultimo punto che accomuna, mi pare, questo primo nucleo di saggi.
L’articolo di Cynthia Truant (Independent and Insolent: Jour-neymen and Their «Rites» in thè Old Regime Workplacé) è in qualche modo speculare rispetto al precedente: il problema non è di comprendere le radici dell’«intimacy» ma quelle della conflittualità che nella percezione dei contemporanei esplose con più forte violenza tra i lavoranti e i mastri alla fine del secolo XVIII. Il paradosso insomma è qui la coesistenza di «caos e cooperazione come parti integranti della vita dell’atelier» (p. 132). Attraverso l’analisi dei conflitti nelle corporazioni di Nantes e Lione, Truant tende a correggerne intanto la periodizzazione - furono fattori endemici presenti già largamente nel corso del Seicento -e a fornire alcune interpretazioni dei loro effetti. Come sottolineano i curatori, l’a. oscilla qui tra l’adozione di spiegazioni fun-zionaliste, speculari rispetto a quelle di Sonenscher (se l’«inti-macy» assicura, in ultima analisi, la continuità della produzione, la conflittualità dei lavoranti riperpetua sistemi di rapporti e gerarchie), e l’enfatizzazione invece del carattere potenzialmente eversivo che i conflitti assunsero sul lungo periodo, tanto da costituire premesse dei movimenti politici di fine secolo. In ultima analisi, la comparazione tra associazioni di lavoranti (la loro struttura organizzativa e quella simbolica 7) e conflitti che caratterizzano le stesse corporazioni a Nantes e a Lione (fabbri, falegnami, sarti e parrucchieri) e la constatazione della loro sostanziale affinità, conducono all’individuazione di almeno una variabile fondamentale: l’esistenza cioè di comuni pressioni cui i piccoli produttori furono sottoposti da parte dei mercanti manifatturieri, che minacciavano le tradizionali forme di produzione, e quindi la loro posizione economica e sociale. È una progressiva trasformazione nell’ambito produttivo a dar ragione dell’aggra-varsi della conflittualità tra mastri e lavoranti e al tempo stesso della più acuta percezione della sua esistenza. Di conseguenza l’a. invita a estendere l’analisi dalle singole corporazioni all’ambito delle intere manifatture urbane.
La situazione da cui muove l’analisi di Edward J. Shephard è molto differente (Social and Geographical Mobility of thè




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Eighteenth-Century Guild Artisan: An Analysis of Guild Receptions in Dijon, 1700-1790), Bigione, capitale della Borgogna, nel corso del Settecento non conosce l’espansione industriale e il forte incremento demografico di Lione e Nantes. È tuttavia un centro prospero, sede di importanti istituzioni giudiziarie e amministrative. L'opportunità che una fonte davvero straordinaria offre alfa. - i registri completi delle lettres de maìtrise accordate tra il 1700 e il 1790 - è quella di misurare la continuità e la stabilità nel mestiere, o almeno di quella parte del mestiere che passa attraverso la corporazione. I dati mostrano una fortissima permeabilità del sistema corporativo all'ingresso di non-digionesi (all'incirca la metà dei nuovi mastri all'inizio del secolo); e, parallelamente, indicano come la trasmissione del mestiere attraverso le generazioni sia un fenomeno estremamente limitato, che interessa appena il 30% della popolazione nei primi anni del Settecento per crollare poi al 12% a partire dall'ultimo decennio del secolo. La difficile interpretazione di dati così abnormi spinge Shephard ad avanzare alcune ipotesi congetturali. Il forte ricambio nella corporazione e la scarsa fedeltà al mestiere possono essere ricondotti alle effettive possibilità di mobilità sociale che la città, con le sue numerose istituzioni, può offrire ai figli dei mastri più agiati. «Questi canali di mobilità al di fuori del sistema corporativo soddisfacevano le ambizioni sociali e di successo dei mastri e aprivano la strada a nuovi inserimenti nelle comunità di mestiere» (p. 129). È evidente che - come M. Garden sottolinea in un breve ma importante intervento di commento - solo analisi prosopografiche delle vicende familiari potranno sostanziare questa ipotesi. Per ora, il saggio fornisce almeno due indicazioni: ribadisce la necessità di superare i confini della corporazione per comprenderne le vicende e l'andamento nel tempo e, nell'intento dell'a., contribuisce a mettere in discussione un pregiudizio storiografico consolidato, che fa della corporazione un sorta di casta, il cui accesso è esclusivamente riservato ai figli e agli affini dei mastri.
Steven Kaplan (Social Classification and Representation in thè Corporate World of Eighteenth-Century France: Turgot's «Carnivai») condivide con Shephard gli obiettivi polemici e propone di «ripensare e rivalutare l'immagine stereotipata, e in realtà ben poco suffragata, della corporazione come istituzione corrotta e decrepita» (p. 34). L'argomentazione tende a dimostrare come il sistema corporativo esprimesse e interpretasse un sistema di classificazione sociale fortemente radicato, largamente


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riconosciuto e interiorizzato (p. 177). In questo senso Kaplan interroga le reazioni e le dichiarazioni dei mastri parigini proprio nel momento in cui i corpi di mestiere furono più direttamente minacciati, Testate del 1776. Secondo Kaplan, il punto di vista dei membri delle corporazioni, come emerge dalle suppliche al governo centrale, «rappresenta il modo in cui molti dei mastri dovevano rappresentarsi a se stessi» (p. 181); è quindi uno strumento per indagare la stratificazione sociale così come era vissuta. L'editto di Turgot fu un violento assalto alla condizione economica di molti mastri, ma soprattutto alla loro identità sociale (p. 182). Rappresentò il sovvertimento di un sistema di valori e di ordine di cui padroni e lavoranti, in un rapporto di interdipendenza, facevano parte. Come reazioni a questa «inversione carnevalesca» Ta. legge quindi le violente risposte alTeditto di una parte delle corporazioni, Tappoggio del Parlamento di Parigi, che seppe riconoscere i legami tra distinzione sociale e ordine sociale e anche gli ambigui effetti del ristabilimento del sistema corporativo nelTagosto dello stesso anno. L'articolo si chiude con una lunga postfazione che esplicita l'approccio adottato nell'analisi, su cui torneremo.
Un secondo gruppo di ricerche si rifà ancora al tema delle rappresentazioni, ma questa volta il riferimento è diretto, dal momento che si tratta di analisi di testi, che nascono con l'intento esplicito di presentare un'immagine del lavoro e dei lavoratori. Cynthia Koepp e William Sewell si muovono in modo parallelo nell'analizzare le rappresentazioni proposte daìVEncyclopédie'. entrambi intendono confutare l'immagine che ne fa il manifesto di una nuova dignità attribuita al mondo del lavoro. Koepp (The Alphabetical Order: Work in Diderot’s «Encyclopédie») analizza le implicazioni insite nei sistemi di classificazione - filosofico/ge-rarchico e alfabetico - proposti nell'opera e mette in luce come l'attenzione e lo spazio dedicati alle arti e ai mestieri esprimano certamente una nuova e più forte coscienza dell'utilità sociale del lavoro, cui non corrisponde tuttavia una restituzione di dignità al lavoratore, ridotto al contrario a un anonimo esecutore. In questo senso l'ordine alfabetico ricalca e riconferma quello gerarchico. Ll Encyclopédie insomma, «sottrae la sfera del lavoro dalle mani e dalle labbra dei lavoratori e la consegna, stampata, allo sguardo di una élite di imprenditori illuminati» (p. 257).
Il percorso di Sewell attraverso l'iconografia del lavoro nel corso dei secoli XVI e XVII fino alTEncyclopédie conduce, in parte, a conclusioni analoghe anche se diversamente formulate,




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perche piuttosto che di un «nuovo ordine» illuminista, fa. analizzando le tavole dell'opera, preferisce parlare di «proiezioni utopiche, scientiste, individualizzate, del mondo del lavoro immaginate dai philosophes». In contrasto con le raffigurazioni umanizzate dei secoli precedenti e soprattutto con qualche decennio di anticipo sulla diffusione delle grandi manifatture, i lavoratori divengono «docili automi che svolgono compiti scientificamente prescritti con l'efficienza - e la mestizia - delle macchine» (p. 277). Il processo di costruzione deH'immagine «robotizzata» non è tuttavia lineare, e Sewell rintraccia altre scansioni temporali (gli anni trenta e sessanta dell'Ottocento) in cui le antiche rappresentazioni umanizzate fanno la loro ricomparsa, come espressione della vittoria del carattere sociale del lavoro sulle sue proiezioni utopiche o, più tardi, come semplici evocazioni nostalgiche (Visions of Labor: Illustrations of thè Mechanical Arts before, in, and after Diderot"s «Encyclopédie»).
Della nuova concezione illuminista è in parte erede secondo A. Rabinbach (The European Science ofWork: The Economy of thè Body at thè End of thè Nineteenth Century) la scienza del lavoro che si sviluppa in Europa a partire dalla metà dell'Ottocento, in conseguenza però di tre fattori fondamentali: la comparsa di un discorso scientifico sulle leggi dell'energia del corpo; 1'affermarsi di nuovi modi di produzione e nuove tecniche di lavoro intensificato; infine, lo sviluppo di un settore statale, seppur debole, in grado di mediare i conflitti tra forza lavoro e capitale (p. 513). Rabinbach analizza i fondamenti teorici della scienza del lavoro (le influenze della teoria sull'energia di Helmholtz, le posizioni di Marey e Mosso ecc.), mettendo in guardia soprattutto da una sua assimilazione con le pratiche del taylorismo cui era estraneo proprio l'assunto, fondamentale, della «determinazione del punto di efficienza ottimale sia per la forza lavoro sia per il capitale» (p. 511); assunto alla base di una proposta di mediazione tra le parti sociali.
Joan Scott affronta ancora il tema delle rappresentazioni «alte» del lavoro e dei lavoratori compiendo un'analisi puntuale di un documento molto ricco, la Statistique de l’industrie, redatta dalla Camera di Commercio di Parigi tra il 1847 e il 1848 (Stati-stical Representations of Work: The Politics of thè Chamber of Commerce s "Statistique de l* Industrie à Paris”, 1847-48). I curatóri sottolineano nell'introduzione come l'a. sia interessata a due livelli di rappresentazione: il modo in cui una fascia della società francese percepiva il mondo del lavoro al tempo delle



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rivoluzioni del '48; e, parallelamente, il modo in cui gli storici leggono e descrivono queste rappresentazioni, soprattutto quelle fortemente oggettivizzate come la Statistique. In breve, Scott è interessata a condurre un'attenta critica della fonte, che si sviluppa in tre momenti: la contestualizzazione all'interno del dibattito sulla condizione operaia che si sviluppò tra gli anni '30 e '40; l'analisi delle categorie di classificazione utilizzate nella presentazione dei dati; infine l'indagine delle metafore - familiari e sessuali - utilizzate dai redattori per imporre le proprie interpretazioni. La conclusione - il fatto cioè che la Statistique fosse uno strumento di riaffermazione di una visione dell'ordine sociale ed economico gravemente minacciato dai movimenti politici -sta forse meno a cuore all'a. della scomposizione reale del testo. Gli interlocutori sono insomma soprattutto gli storici, e la loro fiducia positivistica nelle fonti, in particolare quelle seriali. Un atteggiamento che produce serie distorsioni: «presume di poter separare un problema in realtà indivisibile o integrale, quello della natura delle realtà e delle sue rappresentazioni; nega gli aspetti politici inerenti alla rappresentazione; in ultima analisi sottoutilizza le fonti» (p. 337).
I tre saggi che seguono, ancora legati alle rappresentazioni (due sono analisi di testi), rovesciano però la prospettiva, e si interrogano sull'esistenza di una cultura del lavoro intesa soprattutto come coscienza e dignità di gruppo. W. Reddy interpreta in questo senso la produzione di canti e poesie dei tessitori di Lille intorno alla metà dell'Ottocento (The Moral Sense of Farce: The Patois Literature of LiUe Factory Laborers, 1848-70). In opposizione alla simmetria proposta dai gruppi dirigenti tra povertà e degradazione morale, i racconti biografici e le novelle rappresentate pubblicamente affermavano la dignità e i valori morali dei tessitori. La forte ironia che li pervade, gli scherzi e le satire, sono più che artifici letterari. Esprimono opposizioni a rappresentazioni avvilenti e degradanti di se stessi.
Michelle Perrot (A Nineteenth-Century Work Experience as Re-lated in a Workers Autobiography: Norbert Truquin) e Jacques Rancière (The Myth of thè Artisan: Criticai Reflections on a Cate-gory of Social History) hanno il merito di scomporre intanto l'«unità» artigiana e operaia; entrambi poi si interrogano sul rapporto tra pratica del mestiere e partecipazione politica. L'autobiografia di Norbert Truquin traccia un percorso di vita segnato da una intensissima mobilità geografica e da una pluralità di esperienze di lavoro che non si accompagnano ad autentiche




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qualificazioni professionali. Il lavoro per Truquin non è oggetto di investimento personale, fonte di orgoglio e di identità sociale, ma «Fatto astratto attraverso cui la propria forza lavoro viene scambiata per un salario» (p. 311). Le matrici del suo radicalismo politico vanno cercate più profondamente nelle differenti esperienze che, anche al di là del rapporto con il mestiere, intessono la sua vita (cfr. le osservazioni di C. H. Johnson, p. 558).
Contro la stessa connessione tra qualificazione professionale, coscienza e impegno politici, Rancière riprende le argomentazioni polemiche già avanzate in più sedi 8. Le due leggi di «proporzionalità inversa» che propone, in modo un po' paradossale, provengono Luna - «l'attività di militanza è inversamente proporzionale alla coesione organica del mestiere, alla forza dell'organizzazione e all'ideologia del gruppo» (p. 321) - dalla considerazione che l'attivismo di sarti e calzolai nelle rivoluzioni di metà secolo 9 si spiega in realtà con la loro scarsa qualificazione professionale, la discontinuità nel mestiere, l'assenza di una identità di corpo che consentirono un più forte coinvolgimento politico. La seconda - «quanti esaltano il proprio lavoro sono tra coloro che, più intensamente, ne hanno sperimentato la degradazione» (p. 324) - nasce invece dall'ambiguità evidente nelle stesse dichiarazioni di apologeti ed eroi del lavoro, quali ad esempio Agricole Perdiguier 10. In questo caso, al di là del paradosso, l'invito è a decodificare le dichiarazioni di adesione ma anche quelle di distanza dal lavoro e a individuarne le tensioni soggiacenti. Ma più in generale Rancière, attaccando il mito dell'artigiano, vuole discutere procedimenti tipici e preconcetti della storiografìa del lavoro (e soprattutto della sua ramificazione politica), che inducono a parlare di identità professionali piuttosto che di carriere individuali, e annullano le differenze di identità in comuni ideologie del mestiere. «Attribuiamo troppa importanza alla coesione dei lavoratori e non abbastanza alle loro divisioni; consideriamo con troppa attenzione la cultura dei lavoratori e non abbastanza i suoi incontri con altre culture» (p. 329). L'invito a riflettere sui differenti contesti in cui analizzare il lavoro e i lavoratori è in questo caso esplicito.
Infine, un ultimo gruppo di saggi affronta i temi più classici della storiografia economico-sociale del lavoro, legati ai processi di accumulazione del capitale, proletarizzazione e industrializzazione; ai rapporti e alle lotte all'interno della fabbrica. R. Amin-zade (Reinterpreting Capitalist Industrialization: A Study of Nine-teenth-Century Francé) ha studiato due situazioni urbane nel



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corso del secolo XIX che esemplificano altrettante situazioni produttive apparentemente marginali: la tessitura domestica dei nastri di seta a St. Etienne e le produzioni artigianali a Tolosa (abbigliamento, prodotti alimentari ecc.). La vitalità di queste forme di produzione su piccola scala nel corso di tutto il secolo e, insieme, le trasformazioni al loro interno, mostrano come «la crescente subordinazione del lavoro al capitale» non passi per l'espropriazione dei mezzi di produzione ma attraverso cambiamenti importanti «nei rapporti di classe tra mercanti capitalisti, mastri artigiani e lavoranti» (p. 395). Sostanzialmente, il crescente indebitamento dei tessitori nei confronti dei mercanti a St. Etienne; la crescita di piccole manifatture che comportano divisioni del lavoro più intense; nuove pressioni competitive nelle stesse botteghe a Tolosa.
Al contrario di Aminzade, che accenna appena alle possibili trasformazioni nelle mansioni e nei rapporti familiari che i cambiamenti produttivi dovettero comportare, il lavoro di M. P. Ha-nagan - in questo senso Punico della raccolta ad accogliere gli importanti suggerimenti di M. Garden nel suo articolo di commento - considera invece cruciale il nesso famiglia / lavoro (Proletariati Families and Social Protest: Production and Reproduction as Issues of Social Conflitct in Nineteenth-Century France). Il campo di analisi è dato da due comunità minerarie dello Stéphanois, scosse tra il 1840 e il 1880 da fasi alterne di lotte e scioperi. La condizione dell'intero nucleo domestico e il raggiungimento di un «salario familiare di sussistenza» (sulla cui determinazione non solo monetaria l'autore si sofferma a lungo) sono le variabili determinanti per spiegare i diversi cicli delle lotte. In particolare Hanagan pone una forte enfasi sulle possibilità di impiego delle donne con ciò che esso comporta nei termini dei cambiamenti delle strutture familiari e nelle strategie di fertilità. L'analisi dell'intero equilibrio familiare - in una situazione in cui viene postulata l'assenza di risorse non dipendenti dai salari, il lavoro agricolo ad esempio, o le istituzioni assistenziali - spiega tempi e modi delle lotte all'interno della miniera che risultano quindi sollecitate da fenomeni ad essa estranei.
La raccolta si chiude con un saggio di Yves Lequin che ridiscute i termini della «crisi dell'apprendistato in Francia nel corso dell’Ottocento sottolineando, al di là del rifiuto dell'ideologia di dipendenza che esso sottintendeva, la reale continuità delle pratiche di apprendimento (Apprenticeship in Nineteenth-Century France: A Continuing Tradition or a Break with thè Post?). Un




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lungo articolo di P. Fridenson (Automobile Workers in France and Their Work, 1914-83), una sorta di excursus sull’introduzione, l’espansione e la crisi del «fordisme à la francai se», attraverso le reazioni e le lotte dei lavoratori dell’industria automobilistica. Infine, un saggiò di bilancio di Christopher H. Johnson, su cui tornerò.
3. Ho accennato nelle prime pagine all’opportunità di ritornare alla struttura originaria del volume, sulla quale ho dovuto operare qualche forzatura. In effetti, l’organizzazione tematica dei saggi ne stravolge in alcuni punti l’ordine cronologico sostanzialmente ricercato dai curatori, dove i contributi sulle rappresentazioni del lavoro (che ho raggruppato) sono distribuiti invece in uno svolgimento lineare. Ho sottolineato come questa scelta, non neutra, in consonanza con le indicazioni dell’antropologia interpretativa, rivendichi la sostanziale coerenza delle differenti espressioni del vissuto. Ma è una scelta anche che. ha effetti diretti sull’immagine complessiva del volume e disegna un percorso preciso, noto nel suo andamento e nei suoi approdi: l’ancien régime (le corporazioni), il suo superamento (il pensiero illuminista), la nascita dei movimenti politici (Perrot e Rancière), i controlli sui ceti operai (Scott), cui fanno riscontro culture di resistenza (Reddy), la crescita del capitalismo (Aminzade, Ha-nagan), l’ideologia (Rabinbach) e la realtà della meccanizzazione (Fridenson e, in funzione di cerniera, Lequin).
Quello che più colpisce, mi pare, è la ricomposizione complessiva di un ordine che alcuni almeno dei saggi, come spero di aver mostrato, hanno cercato di ridiscutere. E soprattutto, il ruolo oggettivo, di diretta espressione dei mutamenti sociali che le idee -le rappresentazioni - vengono ad assumere. La continuità del percorso produce insomma una sorta di reificazione dei «discorsi» - quelli illuministi come quelli razionalistici di metà e fine Ottocento - che solo talvolta è giustificata dal contenuto degli stessi saggi. L’«idealistic bias» che Johnson rimprovera a Koepp e a Sewell è in parte coerente con questa struttura del volume; ma non il saggio di Joan Scott, ad esempio, che, nella sua critica delle fonti (l’unica che si ritrovi in tutto il libro) tende al contrario a sottolineare come il tipo di rappresentazione da lei analizzata sia l’espressione della proposta politica di un gruppo sociale ben definito. Questo processo di reificazione è tanto più denso di significato dal momento che proprio i «discorsi» costituiscono nel volume le chiavi di volta dei grandi mutamenti sociali.



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Ora, mi pare interessante che il concetto di rappresentazione che sottolinea la costruzione sociale e culturale di ogni realtà e sollecita quindi analisi intensive e pluridimensionali, diventi una sorta di legittimazione all’assunzione passiva delle fonti; in questo caso, in particolare, di quelle «ideologiche» (la presentazione cioè di «discorsi su»). Insomma, da strumento di «decostruzione» delle realtà si trasformi in un mezzo per reificarne i discorsi. Ed è ugualmente interessante che la prospettiva dell’antropologia culturale di ispirazione geertziana, certamente pervasiva nel corso degli ultimi anni dell’intera produzione statunitense, abbia comunque trovato le sue applicazioni più compiute proprio tra gli storici del lavoro. Mi riferisco in particolare al libro, molto discusso di W. Sewell11. Si tratta, come è noto, di un’analisi del linguaggio - «sistema di rappresentazioni» - del lavoro dall’an-cien régime al 1848, che mira a sottolineare la continuità dei codici corporativi e la loro incidenza nella stessa formazione politica dei lavoratori (dove alle determinazioni economiche della storiografia sobouliana vengono opposte variabili culturali). Sewell adotta esplicitamente le prospettive teoriche dell’antropologia interpretativa, cui dedica un intero paragrafo della sua introduzione. Come in Work in France, intende trattare in una stessa prospettiva fenomeni considerati in genere di tipo differente, cui si attribuiscono metodi di analisi differenti («le opere filosofiche di Diderot, i discorsi politici dei sanculotti, l'organizzazione della produzione negli ateliers, le tariffe salariali degli artigiani . ..»). La finalità unificante è, anche qui, la ricostruzione della coerenza concettuale di ogni forma di vissuto operaio. Ma è molto interessante l’effetto auspicato da questa prospettiva di analisi: «l’adesione degli operai a ideologie politiche affermate non apparirà più come una brutale intrusione di idee esterne, ma come 1’inserimento e l’elaborazione di un’altra struttura simbolica in seno a esistenze che [...] erano già animate da domande e problemi concettuali. Questo approccio ci consentirà di considerare la coscienza di classe non come idee imposte da teorici borghesi a una classe operaia intellettualmente inerte, ma come la realizzazione concettuale collettiva di milioni di operai che la svilupparono e la scoprirono come un mezzo più soddisfacente di interpretare la loro esistenza inevitabilmente interpretata» (pp. 28-29).
Al di là dell’intento, molto interessante, su cui torneremo, l’idea di sostanziale consenso che viene proposta è molto forte: sia tra diversi gruppi sociali che all’interno dello stesso gruppo. La




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partecipazione a una «struttura comune di discorso» (p. 31) stempera agli occhi di Sewell le dissonanze e fonda un corale unanimismo. Questa prospettiva - in parte corretta nel corso delKintroduzione da immagini diacroniche e più conflittuali dei rapporti tra culture (p. 31) - viene in realtà sostanzialmente adottata in tutta la ricerca. In questo senso si sono orientate le critiche rivolte all'autore (in parte estendibili al progetto di Work in France), soprattutto quelle più solide di M. Sonen-scher 12. È interessante che quest'ultimo non si sia limitato a sottolineare i possibili intenti manipolatori del linguaggio corporativo opponendoli alla «realtà» dell'atelier (carattere atomizzato e irregolare del lavoro ecc.). Ne ha invece scomposti i contenuti, mostrandone gli usi differenti in contesti diversi: è un linguaggio pubblico; non è uno specchio dei rapporti sociali ma una loro metafora; non esprime versioni condivise, ma neppure ideologie esterne, dal momento che è uno strumento di pressione dei lavoranti sul comportamento dei mastri.
Sonenscher insomma, scomponendo le diverse realtà del «discorso» ha messo in discussione proprio l'idea di sostanziale consenso che sembra ispirare questo uso delle rappresentazioni. Incrociando contesti diversi, il linguaggio, la vita nell'atelier, i rapporti tra mastri e lavoranti - senza bisogno di istituire gerarchie di verità tra di loro - ne ha mostrato le interrelazioni. Il suo procedimento di analisi e le critiche mosse a Sewel mi pare mettano bene in luce i limiti insiti in un'interpretazione riduttiva della proposta ‘culturalista. La rivendicazione di una sostanziale identità degli oggetti di analisi - sociali o culturali - non può evidentemente tradursi in una passività del ricercatore al loro riguardo, e soprattutto in analisi monodirezionali. La ricostruzione della coerenza del vissuto non sembra poter passare per la composizione di grandi mosaici in cui le varie tessere, accostate appena, non si toccano.
Anche perché, allora, nella costruzione di un percorso, l'individuazione dei nessi causali deve avvenire al di fuori degli stessi contenuti delle singole rappresentazioni e del loro rapporto reciproco, in un quadro teorico già dato. È questa, sostanzialmente, la sensazione che, con un po' di disagio, si ricava dal disegno complessivo di Work in France che ricompone in una successione lineare, canonica, dettata dalle fasi della modernizzazione e dello sviluppo del capitalismo industriale, anche saggi che propongono fratture e cronologie differenti.
Credo che questo risultato sia frutto di ima interessante



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mediazione che si è realizzata recentemente tra la storiografia statunitense di ispirazione marxista e l’antropologia geertziana, dopo una fase di scontro più diretto. C. Johnson, nel saggio conclusivo, vi fa specifico accenno. Uno dei momenti del percorso è certamente il libro di Charles Sabel13, improntato a «un culturalismo anti-marxista [...] fortemente influenzato dall'antropologia culturale di C. Geertz e dalla sociologia di Max Weber» (Johnson, p. 549). Parlando di carriere individuali dettate da diverse esperienze, piuttosto che di coscienza di classe; e soprattutto sottolineando che sono i modelli di lotta a ridefinire la divisione del lavoro e ad alterare significativamente il percorso del capitalismo, Sabel (qui riassunto molto grossolanamente) ha suscitato reazioni differenti nell’ambito della storiografia marxista. Rimproveri, legittimi, per le letture riduttive della teoria marxista, ma anche dichiarazioni di aperto sdegno e rivendicazione di ortodossia. Me Donnell, ad esempio, in un saggio dal titolo significativo, You are too Sentimental14, indirizzato contro il «culturalismo» di Gutman e Montgomery, si preoccupa di rintracciare già in E. P. Thompson matrici pericolose di un analogo anti-marxismo alla Sabel. (È interessante notare a questo proposito, con buona pace di Me Donnell, come il convegno sui «Processi lavorativi» tenutosi a Gòttingen nel giugno 1978, cui Thompson prese parte attiva, rifiutò esplicitamente le suggestioni dell’antropologia culturale - «uno storicismo in qualche modo rivisitato» -lavorando invece sul concetto di habitus 15).
A mediare tra queste posizioni, gli interventi di R. Price ad esempio 16, dello stesso Johnson in Work in France, e mi pare, degli organizzatori del convegno e del volume. In questo senso vanno lette le indicazioni di ricerca: senza ignorare i limiti imposti dalle forze esogene (cioè il mercato e i cambiamenti tecnologici), si tratta di «esplorare la vasta arena di interazione umane aH’interno di esse e di definire l'impatto di queste vicende sugli stessi confini delle strutture economiche di base» (Johnson, p. 557). Così, come si legge nell’introduzione del libro, all'interno di una riflessione orientata a un confronto con il marxismo, vengono accolti nuovi approcci, e prima di tutto quello offerto dall'antropologia culturale.
Ma, alla luce delle considerazioni appena fatte, la mediazione non pare totalmente riuscita. Il connubio non è stato equanime, dal momento che i «nuovi approcci» si sono limitati a legittimare l'accostamento di ambiti e rappresentazioni diversi, ma non hanno spinto all'analisi dei loro rapporti reciproci. Si è quindi




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arricchito un quadro teorico complessivo senza scalfirlo nel suo andamento. In questo senso, 1 effetto «decostruttivo» che il volume esplicitamente ricercava è molto parziale. Dal momento che il contesto generale di analisi risulta in qualche modo già dato con le sue scansioni cronologiche, non vengono affrontati problemi preliminari di definizione dello stesso termine lavoro, da cui muoveva ad esempio rincontro di Gòttingen cui ho già accennato. E neppure - ma qui il discorso si sposta dall organizzazione dell'intero volume ai singoli contributi - ci si interroga effettivamente sugli ambiti in cui analizzarlo. La specificità dei mestieri e il loro ruolo nel definire una cultura del lavoro (non necessariamente espressa nei movimenti politici) che altrove ha dato risultati importanti17, non è oggetto di attenzione specifica in nessun saggio. Così come il rapporto famiglia/lavoro, su cui solo Hanagan si sofferma: è un nesso importante, mi pare, dal momento che, «spostando lanalisi verso i meccanismi dell'offerta del lavoro piuttosto che verso quelli della domanda» 18 può consentire di riformulare alcuni interrogativi sulla composizione e il comportamento delle classi lavoratrici. (Penso in particolare che ciò avrebbe giovato al saggio di Aminzade).
Non è mia intenzione ovviamente compilare un elenco delle assenze nel volume, ma mettere in luce come un'insufficiente discussione dei contesti di analisi - o la loro identificazione aprioristica - possa inibire l'identificazione del ventaglio di possibilità aperte alla ricerca e tenda a costringere il tema in ambiti artificiosamente ristretti. Lo stesso Johnson conclude il suo intervento auspicando riflessioni più aperte, dove il lavoro non sia isolato dagli altri momenti sociali: «forse un'eccessiva preoccupazione per il lavoro ci allontana inavvertitamente dallo studio della vita nella sua complessità» (p. 563). Non basta, forse, a correggere questa tendenza, la giustapposizione dei «discorsi» e delle rappresentazioni.
4. Mi pare che questo ripiegamento su se stesso del tema lavoro sia tanto più evidente proprio quando al centro dell'analisi stanno le sue organizzazioni.
Abbiamo già visto come molti dei saggi, nel tentativo di spiegare le particolarità dei singoli corpi e i comportamenti dei loro membri, introducano contesti di analisi che superano quello del mestiere e anche, più in generale, quello dei rapporti tecnico-produttivi. Il ruolo della socialità che si sviluppa nelle locande, trattato da Sonenscher, ne è un esempio esplicito. Ma anche



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nel caso di Digione, Lione e Nantes, le conclusioni degli aa. (la mobilità aperta ai figli dei mastri in altre istituzioni urbane; le differenti pressioni sullo status economico e sociale dei produttori) rimandando a una lettura dei corpi di mestiere all'interno della geografia degli altri corpi urbani. Eppure le ricerche si fermano qui. Evocano appena questa possibilità ma circoscrivono sostanzialmente l'analisi della corporazione nell'ambito dei rapporti produttivi. Si legge insomma una forte resistenza a liberarsi da una lettura sostanzialista dei gruppi sociali19, e a riconoscere fino in fondo che l'aspetto associativo della corporazione costituisce di per sé un oggetto di studio; che in quanto aggregazione sociale il corpo di mestiere va messo in relazione con gli altri gruppi e le altre istituzioni urbane, connotate da differenti statuti funzionali. Nel caso di Digione, in particolare, sembrano necessarie analisi comparative delle varie possibilità istituzionali aperte agli artigiani e ai mercanti; ma anche nel caso di Lione e Nantes le pressioni sui produttori andrebbero misurate non solo in ambiti economici, ma anche nelle sfere in cui ai mastri era possibile esercitare forme di controllo economico e di governo politico. Insomma, mi pare che l'analisi dei comportamenti collettivi dei mastri all'interno dei corpi non possa esulare dalla considerazione delle possibilità di rappresentanza dei propri interessi, economici ma anche politici, nell'ambito della intera città 20. Situare i corpi di mestiere in rapporto alla configurazione dei gruppi urbani può contribuire a liberarci da un determinismo economicista che, facendo coincidere in un rapporto di necessità il mestiere e la sua organizzazione (nonostante tutte le evidenze della parzialità del fenomeno corporativo), esclude totalmente, come oggetto di analisi, le scelte che spinsero gli individui ad aggregarsi e dar vita ad un corpo sociale. Rimane spazio così per analisi comparative dei processi di formazione e di istituzionalizzazione dei gruppi che, mi sembra, sono fondamentali per una storia sociale dei rapporti tra norme, istituzioni e comportamenti 21.
Il problema della definizione di una pluralità di contesti in cui analizzare la corporazione di mestiere è invece più estraneo alla trattazione di Kaplan. Del resto, se classificazione corporativa e stratificazione sociale si sovrappongono nella percezione degli attori (p. 223) e se l'ideologia corporativa è l'espressione della totalità delle aspirazioni sociali dei membri delle arti,(p. 224), allora è coerente un'indagine solo intrinseca ai corpi, dal momento che il problema è appunto quello di cogliere il punto di




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vista dei contemporanei e non gli aspetti «oggettivi» dell organizzazione sociale (ibid.). L ordine corporativo rappresenta quindi una tassonomia sociale, traduzione soggettiva della stratificazione. Vediamo come si realizza secondo Kaplan: «la produzione e rimposizione della tassonomia sociale sono strettamente legate all'esercizio del potere. Gli strumenti di distinzione usati per forgiare il sistema di classificazione sono strumenti di controllo sociale e politico [...] attraverso istituzioni sociali e di governo la tassonomia ufficiale viene inculcata (inculcateci). Una volta interiorizzata dai suoi membri - come sembra sia avvenuto in Francia nel corso di gran parte dell’ancien régime - essa serve da potente mezzo di integrazione e di stabilità» (p. 177). Mi sembra si possano riconoscere in questa immagine molti e diversi tipi di influenza. Soprattutto, quella di un Mousnier rivisitato alla luce di Foucault ed Elias, dove all'idea di sostanziale consenso sul sistema di classificazione si aggiungono teorie verticistiche della sua emanazione e processi sociali di interiorizzazione. Ma è soprattutto l'idea di consenso - così presente in tutto il libro attraverso la reificazione dei «discorsi» - che mi colpisce. È legittimo intanto attribuire a tutti i mastri dichiarazioni che in realtà furono espresse dai membri dei Sei Corpi, le organizzazioni più prestigiose, ricche e «politicizzate» della città? 22 Ma, più in generale, come può conciliarsi un consenso sull'ordine corporativo con il fatto che la maggior parte della popolazione parigina non aderì mai a questo sistema; che la città era frammentata da enormi isole immuni dal controllo dei corpi23; che i faux-ou-vriers, su cui Kaplan stesso sta lavorando24, erano ben più numerosi dei membri delle arti?
In un saggio importante, Armand Arriaza ha analizzato recentemente la teoria della stratificazione sociale di Mousnier25, mettendola in stretta relazione, quasi filologica, con gli studi cui l'autore si è direttamente ispirato, quelli di B. Barber 26. Al di là della quasi totale e imbarazzante aderenza dei due testi, Arriaza mostra come la teoria «reificata» del consenso di Mousnier (p. 54) si faccia strada attraverso una espunzione totale di quello che era stato per Barber il punto, essenziale, di superamento dei maestri Parsons e Merton: il concetto cioè di «disfunzionalità» come elemento inerente a ogni sistema concreto di stratificazione. Mousnier elimina il concetto, o meglio lo devia al di fuori del sistema sociale; «polarizza armonia e conflitto così che quest'ultimo viene eliminato come parte inerente della struttura sociale [...] Quello che in Barber è un misto di sistemi di valore


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variabili e talvolta conflittuali tra loro, diventa nelle mani di Mou-snier un sistema di valori fisso e monolitico, ufficialmente stabilito, mentre il conflitto emana da una minoranza sovversiva che provoca ribellioni e rivolte» (p. 49). Sono portata a pensare che l'influenza di Mousnier suH'immagine della classificazione di Kaplan sia stata davvero intensa, dal momento che, come motori del cambiamento sociale, le «minoranze sovversive» cambiano appena di aspetto e diventano «i philosophes e i membri di una nuova élite, generata in parte dalla crescita del capitalismo. Esclusi dal potere, vistesi negate le forme di gratificazione sociale cui ritenevano di aver diritto, questi gruppi aggredirono il governo e il sistema tassonomico attraverso il quale esso regolava la società» (Kaplan, p. 177).
Ma l'articolo di Kaplan, al di là quasi dei suoi contenuti, nasce da un proposito importante e in realtà presente nella sensibilità di tutti gli autori della raccolta: quello cioè di ripensare modi e forme di analisi delle idee e delle ideologie, e i loro rapporti con i comportamenti sociali. Il concetto di «rappresentazione» è certamente un tentativo in questo senso, basti pensare alle dichiarazioni di Sewell che ho citato, dove si pone esplicitamente il problema di riconsiderare le adesioni ideologiche non come imposizioni dall'alto. Ma la critica è anche, giustamente, rivolta a una storia sociale frettolosa che rimuove il tema o lo semplifica, secondo Kaplan, parlando ad esempio di pure razionalizzazioni (p. 224). Non credo tuttavia che la strada delle rappresentazioni, almeno con le forti enfasi sul consenso collettivo che qui la connotano, possa contribuire a far avanzare di molto il problema. E neppure la scelta di non istituire nessi tra le diverse rappresentazioni, ma di delegarne il compito al lettore, sembra proficua.
Mi pare più utile non abbandonare, sul piano dell'analisi, prospettive di stretta interrelazione tra ideologie e comportamenti. Il problema è semmai di articolare domande più complesse: non accontentarsi di prospettive - che mi paiono ora limitate - tese a stemperare il peso dell'ideologia nella pratica sociale, ma di porre con più chiarezza la questione degli effetti «retroattivi» (feedback) dei «miti» e dei sistemi di valore sui comportamenti 27.





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NOTE AL TESTO
1 Work in France. Representations, Meaning, Organization and Practice, a cura di S. L. Kaplan e C. J. Koepp, Cornell U.P., 1986.
2 In questo senso Social Anthropology of Work, a cura di S. Wallman, ASA Mo-nograph 19, 1979, riunisce saggi non solo di antropologi, ma di economisti e psichiatri.
3 Ne è un esempio il progetto di ricerca «Work and Family in Pre-Industrial Europe» coordinato da C. Poni e S. Woolf presso l'European University Insti tute di Firenze, che pone l'enfasi sul rapporto tra lavoro, famiglia e istituzioni assistenziali.
4 Si veda intanto la sintesi sul pensiero politico di A. Black, Guilds and Civil Societies, London 1984. Il tema in Francia ha avuto un nuovo impulso soprattutto dopo il libro di W. H. Sewell, Work and Revolution in France, C.U.P., 1980, su cui si vedano in particolare le «reazioni» di M. Sonenscher cit. alla nota 6. Le ricerche di S. Kaplan a partire da le Réflexions sur la police du monde du travail. 1700-1815, in «Revue Historique», 529 (1979), costituiscono un corpus coerente (si vedano in particolare The Luxury Guilds in Paris in thè Eighteenth-Century, in «Francia», 9 (1982); The Character and Implications of Strife among thè Masters inside thè Guilds of Eighteenth-Century • Paris, European University Institute Working Paper, no. 20/86, Firenze 1986). Ma l'interesse diffuso per le corporazioni è evidente anche dalla comparsa del tema nelle edizioni del «Que sais-je?» (A. Cotta, Le corporati-sme, 1984) o dalla recente ristampa anastatica di H. Hauser, Ouvriers du temps passé (XVe-XVIe siècles), Slatkine 1982. In Italia, oltre i contributi al progetto «Work and Family», è importante segnalare la pubblicazione nei «Quaderni» del Centro di studio sulla storia della tecnica del CNR dei primi risultati di un'importante ricerca condotta da studiosi genovesi su mastri e garzoni a Genova tra XV e XVI secolo.
5 II saggio è una rielaborazione della presentazione a Journal de ma vie: Jacques Ménétra, compagnon vitrier au XVIHe siècle, Paris 1982.
6 The Sans-coulottes of thè Year II: Rethinking thè Language of Labour in Revo-lutionary France, in «Social History», 9, 3 (1983) e la versione francese, arricchita, in «Annales E.S.C.», 5 (1985).
7 Su questo aspetto, l'a. ha fornito altrove analisi più compiute: Solidarity and Symbolism among Journeymen Artisan: The Case of Compagnonnage, in «Comparative Studies in Society and History», 21 (1979).
8 La parole ouvrière, 1830-1851, a cura di A. Faure e J. Rancière, Paris 1976; La nuit des prolétaires, Paris 1981. Ma si veda soprattutto The Myth of thè Artisan: Criticai Reflections on a Category of Social History, in «International Labor and Working Class History», 4 (1983) e ivi le repliche di W. H. Sewell e C. H. Johnson (tutti autori di Work in France). Il dibattito riprese poi in ivi, 25 (1984). D. Reid, The Night of thè Proletarians. Deconstruction and Social History, in «Radicai History Review», 28-30 (1982), traccia un percorso molto interessante dell'itinerario biografico-politi-co, oltre che scientifico, di Rancière.
9 Sottolineata in particolare da C. H. Johnson, Utopian Communism in France: Cabet and thè Icarians, 1839-51, Ithaca 1974 e portata ad esempio di uno stretto legame tra difesa della qualificazione professionale e coscienza politica.
10 Biographie de l’auteur du Livre du Compagnonnage, Paris 1946.
11 Cit. alla nota 4. I numeri di pagina delle citazioni si riferiscono però alla ediz.francese (Paris 1983). In una prospettiva molto diversa, l'accostamento tra lavoro e rappresentazioni è stato proposto da M. Godeuer, Work and its Representations: A Research Proposals, in «History Workshop», 10 (1980).



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12 The Sans-coulottes of thè Year II cit.
13 Work and Politics: The Division of Labor in Industry, C.U.P. 1982.
14 «Journal of Social History», 17, 4 (1984).
15 Cfr. R. Berdahl, A. Lùdtke, H. Medick, D. Sabean, Il «processo lavorativo» nella storia: note su un dibattito, in «Quaderni Storici», 40 (1979).
16 Theories of Labour Process Formation, in «Journal of Social History», 18, 1 (1984).
17 Si veda ad es. il numero monografico di «Quaderni Storici», Culture del lavoro, 47 (1981), in particolare il saggio di C. Poni, Misura contro misura: come il filo di seta divenne sottile e rotondo, e le osservazioni conclusive. M. Sonenscher, in un libro di prossima pubblicazione sui cappellai francesi nel corso del '700, ha adottato analoghe prospettive di analisi.
18 Questa formulazione si trova in A. Arru, Lavorare in casa d’altri: servi e serve domestici a Roma nell’800, in Subalterni in tempo di modernizzazione, Milano 1985. In questa stessa prospettiva va letto il progetto su «Work and Family» già cit.
19 Contro questa impostazione si muove il libro di L. Boltanski, Les cadres. La formation d’un groupe social, Paris 1982. Ma analoghe considerazioni sono presenti già in K. Polanyi, Our Obsolete Market Mentality, in «Commentary», III (1947).
20 È quanto ho cercato di mostrare in Da corpo a mestiere: l’università dei sarti a Torino tra Sei e Settecento, European University Institute Working Paper, no. 27/86, Firenze 1986. Per un’analisi delle corporazioni in rapporto agli altri corpi urbani cfr. G. Bossenga, Etat et communautés urbaines, comunicazione presentata al convegno «La culture politique de l’Ancien Règi me», Chicago, 11-15 sett. 1986 (di prossima pubblicazione in «Annales E.S.C.»).
21 Penso restino molto importanti le considerazioni e le analisi di S. N. Eisen-stadt, in particolare Essays on Comparative Institutions, New York-London-Sidney 1965, parte I. Ma anche la letteratura antropologica sulle «voluntary associations» fornisce indicazioni metodologiche molto ricche. (Per una buona bibliografìa si veda D. E. Brown, Corporation and Social Classification, in «Current Anthropology», 15, 1 1974).
22 Si vedano, a questo proposito, le considerazioni di J. Revel, Les corps et communautés, comunicazione tenuta al convegno di Chicago cit., e l’interessante analisi del ruolo assunto dal Parlamento di Parigi che si distacca dall’interpretazione di Kaplan.
23 Cfr. le considerazioni di J.-L. Bourgeon, Colbert et les corporations: l’exemple de Paris, in Un nouveau Colbert, Paris 1986, già presentirei resto, in P. Boissonnade, H. Hauser, H. Sée, E. Coornaert.
24 Si veda intanto S. L. Kaplan, Les faux-ouvriers à Paris pendant le 18e siècle, in La France d’ancien régime: Etudes réunies en l’honneur de Pierre Goubert, Toulou-se 1984.
25 Mousnier and Barber: The Theoretical Underpinning of thè «Society of Orders» in Early Modem Europe, in «Past & Present», 89 (1980). L’articolo fa riferimento soprattutto a Les hiérarchies sociales de 1450 à nos jours, Paris 1969; non il saggio più convincente, come sottolinea anche Kaplan (p. 184), ma certo il più esplicito.
26 Social Stratification: A Comparative Analysis of Structure and Process, New York 1957.
27 In questo senso mi paiono ancora punti importanti di riferimento le discussioni anglosassoni sviluppatesi nel corso degli anni '50, e in qualche modo sintetizzate in S. E. Finer, In Defence of Pressure Groups e E. Devons, The Rote of thè Myth in Politics, in «The Listener», 55 (1956).