Una società esortata all'ascetismo: Misure legislative e motivazioni economiche nel IV-V secolo d.C.

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Title
Una società esortata all'ascetismo: Misure legislative e motivazioni economiche nel IV-V secolo d.C.
Creator
Rita Lizzi
Date Issued
1989-01-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
30
issue
1
page start
129
page end
153
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Rights
Studi Storici © 1989 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20231101183738/https://www.jstor.org/stable/20565873?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1989%26ed%3D1989%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A1e1fc102754ac6ec1e9036bb35b17195
Subject
sexuality
extracted text
Una società esortata all’ascetismo:
MISURE LEGISLATIVE E MOTIVAZIONI ECONOMICHE NEL IV-V SECOLO D.C.
Rita Lizzi
Gran parte della letteratura religiosa nella seconda metà del IV secolo si articola intorno ai temi della sessualità e del corpo. La relazione fra l’emergere di tali motivi e il progredire della cristianizzazione dell’impero non fu semplicemente di ordine cronologico. Argomenti del genere fornirono ai Padri la possibilità di scandagliare le emozioni dell’animo, di analizzare gli effetti della summa voluptas\ di suggerire i modi per ridurre il turbamento a ordine e misura, proponendosi come arbitri morali della regolazione fisica e mentale dell’individuo. Il controllo della psicologia dei fedeli fu una via che la Chiesa segui per allargare e consolidare il proprio potere: non fu, tuttavia, l’unica.
Parlare di corpo e di sessualità significò anche intervenire nei modelli comportamentali e ridisegnare la funzione sociale del matrimonio e della famiglia. Non era necessario, in tale ambito, innovare totalmente per favorire la conversione. Il cristianesimo, come è stato suggerito, si limitò a ereditare e approfondire tendenze già presenti nella morale del primo impero. Cambiamenti significativi nelle relazioni sessuali e coniugali erano infatti maturati fra I a.C. e II d.C., in seguito ai mutamenti politici che accompagnarono il passaggio dalla repubblica al principato e la trasformazione di un’aristocrazia politicamente competitiva in una di servizio2.
Il cristianesimo, tuttavia, intensificando alcune suggestioni più di altre, fissò una morale sostanzialmente originale. È possibile coglierne gli aspetti più significativi nelle opere che sostennero e accompagnarono il processo di istituzionalizzazione della Chiesa. In una trentina d’anni, fra 370 e 400, ai trattati de virginitate e de vìduis, prodotti in buon numero sia in Oriente che
1 P. Brown, Sexuality and Society in thè Fifth Century a.D.: Angustine and Juiian of Eclanum, in Tria Corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como, 1983, pp. 49-69.
2 P. Veyne, La faville et Pamour sous le Haut-Empire romain, in «Annales ESC», 83, 1978, pp. 35-63; Id., L’Impero romano, in Ph. Ariès-G. Duby, La vita privata dall’Impero romano all’anno Mille, Bari, 1986, pp. 4-171. Sulla stessa linea il saggio di A. Rousselle (Pomeia, Paris, 1983, pp. 167-182; 227-244) secondo cui la diffusione dell’ascetismo nel IV secolo andrebbe spiegata in relazione alle precedenti esperienze pagane di volontaria continenza sessuale. Un’analisi degli ultimi scritti in argomento in A. Cameron, Redrawing thè Map: Earty Christian Territory afier Foucault, in «JRS», 76, 1986, pp. 266-271.



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in Occidente, si aggiunsero lettere, epitaffi, biografie elaborate a elogio e a esortazione di quanti rifiutarono matrimonio o seconde nozze per professare verginità e vedovanza consacrata. Paradossalmente, l’ideologia cristiana della famiglia si organizzò trattando i temi della rinunzia al sesso, ai beni terreni, alle relazioni coniugali. E, con significativo mutamento di prospettiva, per la prima volta nella letteratura antica, furono le donne le principali destinatarie di quegli scritti di cui erano anche soggetto ideale.
E nostra intenzione capire perché i Padri, in quel preciso frangente storico, furono spinti a concentrarsi su tali argomenti e quali effetti concreti le loro esortazioni ebbero nella società dell’epoca. Le fonti raccontano che patrimoni a volte ingenti furono devoluti all’istituzione ecclesiastica da vergini e vedove consacrate: sarà necessario prendere in considerazione i riflessi economici del fenomeno. La Chiesa, nella seconda metà del IV secolo, non fu la sola a interessarsi di verginità e matrimonio. Nello stesso periodo, una certa quantità di costituzioni intervennero a regolare i rapporti coniugali e la condizione delle donne che preferivano rinunziarvi. È sembrato utile, dunque, confrontare gli scritti patristici con la legislazione prodotta in argomento per una valutazione d’insieme della società in cui si svilupparono le pratiche di continenza sessuale consacrata.
1. Gli effetti dei cambiamenti etici introdotti dal cristianesimo sulla struttura sociale del mondo mediterraneo e le finalità che sostennero la Chiesa nel promuoverli sono stati al centro di un saggio recente di J. Goody3. Lo studioso non è interessato al problema della verginità consacrata. Aspetto peculiare dell’ideologia matrimoniale cristiana sarebbe infatti stata la definizione di una casistica di unioni incestuose e le nuove limitazioni imposte al divorzio, all’adozione e alle seconde nozze. Tali proibizioni, operando a partire dalla fine del IV secolo, avrebbero progressivamente alterato la struttura per tradizione endogamica delle regioni intorno al Mediterraneo. La dispersione dei patrimoni familiari, provocata dall’indebolimento delle corporazioni di parentela, avrebbe permesso l’accumulo in mano ecclesiastica delle ricchezze di cui la Chiesa risultò detentrice in età medievale4.
Una revisione critica del libro di J. Goody ne ha in sostanza negato i presupposti. L’endogamia non sembra essere stato il carattere preminente della realtà sociale occidentale in età anteriore alla diffusione del cristianesimo. Per quanto i matrimoni fra parenti ed affini non fossero proibiti prima del IV secolo, essi non erano stati neppure consueti e, in una discussione sui modelli di trasmissione della proprietà, più delle regole contano i comportamenti5. L’esogamia della società medievale non fu,
3 J. Goody, The Development of thè Family and Marriage in Europe, Cambridge, 1983.
4 J. Goody, op. cit., pp. 6-33, in particolare, 4-5, 7, 9, 36, 39.
^ B.D. Shaw-R.P. Saller, Close-Kin Marriage in thè Roman Society?, in «Man», n.s., 19, 1984, pp. 432-444.



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dunque, il risultato delle restrizioni in materia matrimoniale imposte dalla Chiesa, né quelle apparentemente determinarono alcuna reale frattura nella continuità sociale dell’antico Mediterraneo.
Il problema può essere esaminato da una differente angolazione. La determinazione delle unioni incestuose fu davvero parte originale della cosiddetta ideologia cristiana della famiglia? Nelle fonti tardoantiche tali proibizioni si presentano, in primo luogo, in una serie di costituzioni emanate dall’imperatore. Significato e finalità di tale legislazione possono essere male intesi ove la questione sia mal posta. E indubbio che la Chiesa potrebbe aver esercitato la sua influenza sul legislatore. Non si può prescindere, tuttavia, dal considerare tempi e modi di tale influsso. E potremmo anche chiederci se in una materia come quella familiare, in cui fattori di diversa natura potevano entrare in gioco, non si debba piuttosto pensare a influenze reciproche anziché unidirezionali. Attraverso l’esame delle costituzioni sulle unioni incestuose e degli interventi dei Padri in materia potremmo appurare se il problema fu cosi centrale per la Chiesa tardoantica da riflettersi sulla normativa imperiale, o se quella legislazione possa spiegarsi in altro modo.
Le prime leggi che allargarono l’impedimento della parentela e dell’affinità in campo matrimoniale furono emanate da Costanzo II fra il 340 e il 355. Il matrimonio fra zio e nipote, ammesso per ragioni personali da Claudio6, non proibito da Diocleziano7, fu dichiarato incestuoso e punito con la pena capitale8. E difficile dire quanto il provvedimento, diretto ai provinciali di Fenicia, non intendesse al momento intervenire soltanto in una situazione locale. Le pratiche matrimoniali nel mondo romano non erano uniformi ed è noto che, in Egitto, fratelli e sorelle continuarono a sposarsi anche dopo che l’estensione della cittadinanza romana a seguito della Costitutio Antoniniana ebbe reso illegittime tali unioni9. Nel 355, con una nuova costituzione, fu negata la possibilità che un uomo sposasse la moglie del fratello o la sorella della moglie, una volta sciolto il primo matrimonio10. Due concili, a Elvira nel 304-305 e a Neocesarea nel 314, avevano già sanzionato la scomunica parziale o totale per chi avesse praticato levirato o sororato11. E difficile tuttavia poter pensare che Costanzo, a distanza di un quarantennio, fosse stato spinto dalla preoccupazione di rispettare la volontà di due lontani sinodi provinciali. Né si
6 Gaius I, 62; Tit., Ulp. 5,6.
7 L’editto de incesti! nuptiis di Diocleziano è conservato in Moiaicarum et Romanarum Legni» Collatio 6, 4, 5.
* CTh 3, 12, 1 (31 marzo 342).
9 La costituzione del 212 provocò in Egitto vari tentativi di camuffamento (cfr. O. Montevecchi, Endogamia e cittadinanza romana in Egitto, in «Aegyptus», 59, 1979, pp. 137-144).
10 CTh 3, 12, 2 (30 aprile 355).
11 C.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des concile! d’aprè! le! documenti originaux, I, 1, Paris, 1908, pp. 256, 328.



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conoscono altri interventi conciliari al proposito fino al VI secolo12.
Voler interpretare la legislazione in esame come prova dell’interferenza di una Chiesa interessata a limitare certi tipi di unione appare storicamente inesatto. In primo luogo, la preoccupazione di definire i matrimoni moralmente accettabili per i cittadini non fu prerogativa dei soli imperatori cristiani. L’editto de incestis nuptiis di Diocleziano aveva condannato con toni di pia indignazione i matrimoni fra parenti stretti, confrontandoli con gli accoppiamenti fra gli animali o fra le bestie selvagge. Lo scopo dell’editto era stato quello di conservare sul popolo il favore degli dei nella convinzione, propria anche di un sovrano pagano, che la conservazione stessa dell’impero potesse essere minacciata dai matrimoni empi13.
La Chiesa, d’altra parte, non sembrò particolarmente attenta al problema. I provvedimenti dell’ariano Costanzo non suscitarono alcun tipo di reazione in ambiente ecclesiastico. Essi, anzi, non vennero neppure utilizzati da Basilio e da Ambrogio, gli unici vescovi che in tutta la seconda metà del IV secolo si trovarono a dare un parere in materia di unioni proibite. Basilio, vincolato dalle proibizioni del secondo canone di Neocesarea, a fatica riuscì a giustificare la propria opposizione a un caso di matrimonio con la sorella della moglie contro chi ne sosteneva la legittimità su base biblica. Le argomentazioni da lui addotte, oltre a un generico riferimento al retto istinto di natura, ribadivano la differenza tra cristiani e giudei in fatto di costumi sociali14. Ambrogio, interpellato sulla liceità di un’unione fra zio e nipote, citò una legge non pertinente di Teodosio, trascurando di prendere in considerazione quella appropriata di Costanzo.
La vicenda, cui due sue lettere alludono, è significativa15. La personalità di Aemilius Florus Paternus uno dei due destinatari, la sua origine spagnola, i suoi legami con il più noto Maternus Cynegius, le relazioni di parentela della loro famiglia con quella imperiale teodosiana sono state illustrate da J. Matthews16. Intorno al 396, dunque, in qualità di Comes sacrarum largitionum a Milano, Paternus sollecitò Ambrogio a pronunziarsi sulla possibilità di legare in matrimonio suo figlio Cynegius, il destinatario della seconda lettera, con la nipote. Il caso era, secondo Paternus, perfettamente legittimato dalle Scritture (Sedprius sacrae legis scita interrogemus. Praetendis enim in tuis litteris...\ ma di fronte ai dubbi manifestati dal vescovo che avrebbe dovuto celebrare l’unione, egli aveva deciso di rivolgersi personalmente ad
12 C. Castello, Osservazioni sui divieti di matrimonio fra parenti e affini. Raffronto fra concili della Chiesa e diritto romano, in «RIL», 72, 1938-39, pp. 319-340.
13 Recentemente T. Barnes ha attribuito l’editto a Galerio piuttosto che a Diocleziano (The New Empire ofDiocletian and Costantine, Cambridge, 1981, pp. 54, 62-63; Id., Costantine andEusebius, Cambridge, 1981, pp. 19-20, 295). In ogni caso, non fu cristiano l’imperatore che lo emanò.
14 Bas., Ep. 160 PG 32, pp. 621-628.
15 Ambr., Ep. 60 a Paternus, PL 16, 1234-1237; Ep. 84 a Cynegius, PL 16, 1338.
16 J. Matthews, A Pious Supporter ofTheodosius I: Matemus Cynegius and His Family, in «JThS», n.s., 18, 1967, pp. 438-446. “



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Ambrogio. Dal momento che eventuali impedimenti legali avrebbero potuto essere facilmente superati, Paternus voleva evidentemente liberarsi da una sorta di scrupolo di coscienza17. La cosa non stupisce in un uomo che, secondo la ricostruzione dei suoi rapporti di parentela, apparteneva a una famiglia di fede cristiana intransigente. È invece significativo che il matrimonio, come suggerito dal Matthews, fosse celebrato nonostante il parere negativo di Ambrogio. Dal sondaggio di opinione in ambiente legale e religioso, Paternus dovette rendersi conto che né la Chiesa, né lo Stato riservavano speciale interesse per problemi di tale natura. Ci si chiede chi fosse l’altro vescovo implicato nella storia di questo matrimonio18. Se nel 396 Paolino di Nola fosse già stato vescovo, potrebbe essere stato lui il prete scelto da Paternus per celebrare il matrimonio di suo figlio. Fu infatti Paolino, che intorno al 421 accordò a Flora l’onore di seppellire il figlio di Cynegius, probabile frutto dell’unione «proibita», nella basilica si san Felice19. In tal caso, la relazione con Nola della famiglia di Paternus andrebbe anticipata all’ultimo decennio del IV secolo. Essa risulterebbe giustificata dalla presenza nella città campana di un uomo con cui i Cynegii potevano aver avuto precedenti contatti in terra spagnola, là dove Paolino era stato ordinato presbitero e presumibilmente come quelli possedeva vaste proprietà .
Nonostante le esitazioni mostrate dal presule scelto a contrarre l’unione e l’esplicito divieto di Ambrogio, il matrimonio fra il figlio e la nipote di Paternus era stato probabilmente facilitato da una dispensa legale di Onorio. Allo stesso imperatore si deve peraltro una nuova costituzione sulle proibizioni matrimoniali, una sorta di elenco comprensivo dei casi previsti da Costanzo e di quello di matrimonio fra cugini vietato da Teodosio21. La possibilità prevista dalla legge di ottenere speciali concessioni dovette creare una certa confusione, perché una nuova disposizione del 409 precisò i casi in cui sarebbe stato lecito rivolgere una supplica22. Quasi in quello stesso periodo, Agostino rifletteva nel De civitate Dei sui motivi che avevano guidato l’umanità a evitare le unioni incestuose praticate dai primi uomini dopo la cacciata dal Paradiso. Secondo il vescovo, la volontà di allargare «i rapporti di amore» fra le famiglie e una
17 Ambr., Ep. 60, 4, 1235 e 9, 1236.
18 Ambr., Ep. 60, 3,1235: Super hoc igitur meam a sancto viro episcopo vestro expettari sententiam dicis.
19 J. Matthews, op. di., pp. 443 sgg.
20 Sulla vita di Paolino e le relazioni contratte nell’ambiente dei proprietari terrieri gallici e spagnoli, cfr. P. Fabre, Saint Pauiin de Noie et Pamitié chretienne, Paris, 1949, pp. 7-51. Paolino fu ordinato presbitero nel 394 a Barcellona (ivi, 35); si trovava a Nola non prima dell’autunno 395 (ivi, 37). Pur non sapendo con precisione quando fu eletto vescovo, non è improbabile che egli lo fosse già nel 396.
CTh 3, 12, 3 (8 dicembre 396). La costituzione di Teodosio non è pervenuta, ma ad essa fanno riferimento Ambrogio (Ep. 60, 8, 1236) e VEpitome de Caesaribus (48, 10, ed. R. Grùndel, Lipsia, 1961, p. 1759).
22 CTb 3, 10, 1 (23 gennaio 409).



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sorta di istinto naturale che non era mancato neppure alle genti pagane avevano da tempo regolarizzato i rapporti matrimoniali23.
Era quello l’esplicito riconoscimento che le recenti proibizioni d’incesto non intendevano modificare una situazione, ma ribadire quanto era già nell’uso. In linea con tutta una serie di interventi legislativi in aree che, come quella familiare, erano per tradizione d’interesse imperiale, fu proprio tale normativa probabilmente a influenzare in origine la Chiesa, spingendo i Padri ad adottare regole diverse da quelle previste nell’Antica Scrittura. La natura della costituzione di Onorio e delle coeve riflessioni di Agostino chiariscono i termini della reciproca influenza esercitatasi fra Stato e Chiesa in ambito matrimoniale. Costituzioni e canoni conciliari emanati per risolvere situazioni locali o contingenti avevano acquisito, alla fine del IV secolo, un valore più generale per il processo stesso di formalizzazione. La rarità degli interventi legislativi e lo scarso interesse dei padri a escogitare motivazioni teologicamente fondate convincono, peraltro, che la definizione delle unioni proibite fu un problema secondario sia per lo Stato sia per la Chiesa tardoantichi.
2. L’ideologia cristiana della famiglia si sviluppò approfondendo altri nuclei ideologici. L’esortazione alla continenza sessuale consacrata divenne uno dei caratteri dominanti della predicazione e della trattatistica dei Padri. La frequenza del suo ricorrere nelle fonti è confrontabile solo con la centralità assunta nel medesimo periodo dalla persuasione all’elemosina. Come fenomeno letterario si esaurì nell’arco di un cinquantennio, ma esso appare abbastanza singolare da porre una serie di interrogativi. Tenteremo, in primo luogo, di mostrare in che modo lo sviluppo del movimento ascetico femminile fu strettamente legato al processo di rafforzamento della Chiesa.
Nel redigere il proemio del suo de vìrginitate^ Gregorio di Nissa tentò di giustificare la composizione della sua opera distinguendola dalla massa di scritti sullo stesso soggetto circolanti, all’epoca, in ambiente orientale. Lamentò, dunque, il proliferare di elogi della verginità, sottolineando che la castità femminile era ormai diventata un tema d’apparato, che serviva all’ambizione dei retori24. L’affermazione, al di là della specificità polemica che anima l’intera opera, fa riflettere sulle possibili connessioni fra quel tipo di trattati e la retorica. I temi della donna e della continenza sessuale, con la rilevanza data allo stato verginale di Maria, erano di fatto legati all’intera articolazione della dottrina cristiana. La verginità, come metafora dei paradossi di fede, poteva aiutare a spiegare i dogmi dell’incarnazione miracolosa e della redenzione meglio di altri argomenti retorici. Non stupisce, allora, che la maggior parte degli elogi della verginità venisse
23 Aug., De civ. Dei 15, 16, PL, 41, 457-460.
24 Gr. Nyss., De virg. I, 1, PG 46, 321.



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prodotta proprio nel momento in cui la Chiesa definì la sua ortodossia. In tale frangente, la retorica della verginità diveniva il veicolo centrale di una dottrina la cui vera essenza voleva essere l’inesprimibile, l’indecifrabile, il nascosto25.
Al centro di tale ideologia cristiana fu lasciato irrisolto il conflitto fra la concezione biblica della bontà della creazione fisica e la fede in una redenzione che esprimeva pessimismo verso il mondo e le sue possibilità. Tentativi di sanare tale contraddizione, come quelli proposti dalla corrente gnostica attraverso la nozione del «cattivo demiurgo», o da Origene con la spiritualizzazione della prima creazione, furono anatematizzati come eretici26. Il tema della verginità consacrata si situa, dunque, fra le pieghe di tale strutturale ambivalenza della cristianità verso il corpo e la sessualità. La donna, sede del male, causa di peccato, metafora di tentazione, d’inganno, di menzogna, poteva riscattarsi solo liberandosi dalla duplice punizione riservatale da Dio: il dominio da parte dell’uomo e la condanna a mettere al mondo figli. In tal senso, l’ideologia cristiana della famiglia, almeno nella sua definizione tardoantica, fu fortemente influenzata dalle scelte compiute in materia dottrinale. Lungi dal chiedersi quali tipi di unione fossero leciti o no, essa si sviluppò nel contesto di una generale denigrazione del matrimonio.
Alcuni elementi ritornano topicamente in tutti i trattati e nelle omelie de virginitate e de viduis. In essi l’esortazione alla vita ascetica è condotta elencando i principali aspetti negativi del matrimonio e della procreazione. Solo scegliendo di rimanere vergine la donna avrebbe potuto liberarsi dal mercanteggiamento delle nozze, dalle pesanti servitù al marito, dai dolori del parto, dalla difficile opera dell’educazione e dell’allevamento dei figli. Nella verve dell’esortazione, alcuni scrittori ecclesiastici giunsero anche a praticare una sorta di psicoanalisi ante litteram^ invitando le donne a riflettere sul rapporto fra se stesse e il proprio corpo, fra sé e l’accettazione della propria immagine. In particolare, Ambrogio suggerì che la strenua ricerca di piacere all’uomo, alterando con colori ricercati il proprio viso, adornandosi di vesti dorate lunghe fino a terra, appesantendo le orecchie di gemme, rivelava debolezza interiore e confusione, una sorta di rifiuto di se stesse. L’alternativa era vestire miseramente, preferibilmente non lavarsi neppure, rinunziare totalmente all’apparenza. Molti di questi elementi erano già stati teorizzati da Tertulliano e da Cipriano: solo nel IV secolo, tuttavia, essi furono ripresi e resi funzionali alla diffusione del movimento ascetico27.
25 A. Cameron, Virginità as Metaphor. Women and thè Rhetoric ofEarly Christianity, in A. Cameron, ed., Histoiy as Text, London, 1988. Ringrazio l’autrice di avermi fatto leggere il dattiloscritto del suo articolo in via di pubblicazione.
26 R.R. Ruether, Misogynism and Vìfginal Feminism in thè Fathers of thè Church, in R.R. Ruether, ed.. Reiigion and Sexism, New York, 1974, pp. 150-183.
27 Ambr., de virginibus I, 27-28, PL 16, 207; cfr. Hier., Epp. 22, 17; 130, 18. La condanna della civetteria femminile, per l’assunto che il trucco altera nella donna l’immagine di Dio, era già



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Si comprende facilmente che l’esaltazione della condizione virginale, intessuta dei temi del sacrificio, dell’astensione, dell’allontanamento da quanto era corporeo o materiale, era parafrasi del desiderio di disciplinare la partecipazione femminile alla cristianità, stabilendone chiaramente i limiti. Anche questo rientrava nel processo attraverso cui la Chiesa conquistò la sua rispettabilità sociale, rifiutando come eretici quei gruppi marginali in cui le donne avevano invece rivestito funzioni e ruoli diversi da quelli per tradizione assegnati loro28. In tal senso, non fu un caso che i Padri si rivolgessero sia alle donne che potevano scegliere la verginità, sia alle vedove che, nelle prime comunità apostoliche e in più tarde sette eretiche, erano state impiegate in qualità di ministri e inserite nella gerarchia29. Di fronte a tali esperienze, alla fine del IV secolo, si volle ribadire che la scelta della vedovanza come della verginità doveva unicamente rispondere all’esigenza di vivere continenti, in obbedienza alla Chiesa e ai suoi rappresentanti.
A vergini e a vedove furono dunque rivolte, nella letteratura tardoantica, esortazioni analoghe e i due temi furono trattati con la stessa topica. Vergini e vedove divennero oggetto di parti integranti di uno stesso sermone30, o di trattati distinti ma complementari31. È significativo, in quest’ultimo caso, che la loro elaborazione sia stata spesso opera di vescovi all’inizio dell’episcopato, o di sacerdoti che intraprendevano per la prima volta la loro attività pubblica. È quanto fecero sia Ambrogio, sia Giovanni Crisostomo32. La denigrazione del matrimonio in funzione dell’esortazione alla vita ascetica, non fu solo espressione di riflessione dottrinaria, ma anche parte significativa dell’azione pastorale. Essa va dunque letta e interpretata in relazione al rafforzamento del
presente in Cipriano (De habitu vifg. 15 e 17) e nel De cultu feminarum di Tertulliano, opere che influenzarono in varia misura gli autori del IV secolo. Per gli sviluppi che tale tema ebbe nAVHexameron di Ambrogio, cfr. Y-M. Duval, Sur une page de Saint Cyprien chez Saint Ambroise. Hexameron 6, 8, 47 et De habitu l/irginum 15-17, in «REAug», 16, 1970, pp. 25-34. Gregorio di Nazianzo pensò che tali consigli non fossero inutili neppure a una giovane sposa. Invitato al matrimonio di Olympias e Nebridius, si scusò di non potervi partecipare con 1 'Ep. 193 (PG 37, 316) e con un Carmen ad Olympiadem sviluppato intorno al tema della toilette della donna cristiana. Per l’evolversi e il costituirsi, soprattutto ad opera del pensiero patristico greco, dei precetti relativi alla virgo, cfr. E. Giannarelli, La tipologia femminile nella biografia e nell'autobiografia cristiana del II/ secolo, Roma, 1980. Per il carattere essenzialmente «aristocratico» assunto in Occidente dall’ascetismo femminile, cfr. F.E. Consolino, Modelli di comportamento e modi di santificazione per ? aristocrazia femminile d'Occidente, in Società romana e impero tardoantico, a cura di A. Giardina, I, Roma-Bari, 1986, pp. 273-306.
28 E. A. Clark, Devili Gateway and Bride of Christ: Women in thè Early Christian World, in Id., Ascelle Piety and Women’s Faith (Studies in Women and Religion, 20), Queenston, Ontario, 1986, pp. 26-60.
29 A. Cameron, Neither Male nor Female, in «Greece & Rome», 27, 1980, pp. 60-68.
30 Zeno, Tr. II, 7 CC 22 (ed. B. Lofstedt, Turnhout, 1971), pp. 171-175.
31 Ambr., de viduis 1, PL 16, 247; de exhort. virg. 20, PL 16, 342. Cfr. F.E. Consolino, Dagli «exempla» ad un esempio di comportamento cristiano: il «de exhortatione virginitatis» di Ambrogio, ih «RSI», 94, 1982, 2, pp. 455-477, in particolare pp. 460 sgg.
32 Per Ambrogio, cfr. J.R. Palanque, Saint Ambroise et l'empire romain, Paris, 1933, p. 493; per Giovanni Crisostomo, cfr. B. Grillet, Introduction a Jean Chrysostome, A une jeune veuve - Sur le mariage unique, in SC, 138, Paris, 1968, pp. 8 sgg. Cfr. E. A. Clark, Introduction io John Chiysostom, On Virginity;



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potere del vescovo all’interno della città, oltreché alla luce della centralità che la Chiesa, in quanto istituzione, intendeva raggiungere.
Sono le fonti a rivelare che vergini e vedove erano considerate motivo di grande prestigio per la comunità cristiana. Esse vennero elencate da Agostino fra gli elementi che costituivano honor et ambitio saeculi per un vescovo: absidae gradatae, cathedrae velatae, sanctimonialium occursantium atque cantantium gregei3. Non fu solo una questione ideale. Esse potevano costituire un gruppo di forza e di pressione in casi di dispute dottrinarie o al momento dell’elezione di un nuovo vescovo. Ambrogio ne sperimentò gli effetti quando, recatosi a Sirmium per sostenere un candidato niceno in una sede fino ad allora retta da ariani, a stento evitò di essere fatto a pezzi dalle vergini infuriate34. Non stupisce, allora, che egli avesse deciso di spendere molte energie per avviare a Milano un movimento ascetico femminile ortodosso. Stimolare l’adesione dei fedeli, dare riconoscimento ad una categoria cui egli assegnò un preciso ruolo furono i suoi primi impegni pastorali. È noto che gran parte della sua predicazione nei tre anni iniziali di episcopato fu concentrata sul tema della verginità. Meno chiaro è il modo in cui egli riuscì a reclutare dai luoghi più disparati delle fanciulle disposte ad essere consacrate nella sede milanese. Con l’aiuto di vescovi amici e contando sulla propensione ad abbracciare la vita ascetica di schiave per l’occasione manomesse, egli organizzò l’arrivo in Milano di folti gruppi di donne. Da Piacenza, da Bologna, dalla lontana Mauretania, giunsero giovani desiderose di ricevere la velatio dal nuovo presule35. E probabile che l’operazione fosse stata preceduta dalla costruzione di edifici adatti ad ospitarle. Anche ciò poteva costituire un mezzo di persuasione per quante avessero propensione alla vita ascetica. Negli stessi anni, in Terrasanta, l’opportunità di trovare alloggio e inquadramento in una struttura regolare richiamava folle da posti e gruppi sociali disparati36.
L’azione di Ambrogio nel suo complesso, dalla recita di sermoni alla composizione di trattati, dalla costruzione di edifici alla consacrazione di gruppi di vergini, è indicativa dell’importanza che i vescovi riservarono al movimento ascetico. Risulta anche chiaro, tuttavia, che quello poteva essere causa di prestigio e di forza solo se le gerarchie fossero state in grado
Against Remarriage, in E. Clark, op. cit., pp. 229-264.
33 Aug., Ep. 23, 3 PL 33, 96.
34 Paul. Med., Vit. Ambr. 11, PL 14, 33.
35 Ambr., de virg. I, 57-61, PL 16, 215-216. L’ipotesi che le donne giunte dalla Mauretania per farsi velare a Milano fossero schiave manomesse si fonda sui termini impiegati da Ambrogio: contuemini quam dulcispudicitiaefructus si/ qui barbaricis quoque inolevit affectibus... et cum sint omnesfamiliae in vinculis, pudicitia tamen nescit esse captiva. N. McLynn (PhD thesis, Oxford) pensa che si trattasse di schiave provenienti dalle terre possedute da Ambrogio, fatte venire a Milano grazie all’intervento del fratello Satyrus, allora in Africa per amministrare il patrimonio comune.
36 Hier., Ep. 108, 20, 1, p. 202 (ed. A.R. Bastiaensen-J.W. Smit, Milano, 1983):... plures vifgines, quas e diversis provinciis congregarat, tam nobiles quam medii et infimi generis. Cfr. anche Hier., E/>. 130, 5 e 7.



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di organizzarlo e dirigerlo. Questo aspetto, in particolare, emerge dall’analisi interna dei trattati de virginitate e de viduis. La giustificazione ideale della continenza sessuale, poiché non esistevano accenni in tal senso nel Vangelo, riposava unicamente sulle esortazioni che Paolo aveva rivolto a celibi e vedove. I trattati ascetici furono perciò presentati come una sorta di commento ai passi paolini: come tali sono tuttora intesi da alcuni37. Essi, in realtà, non sono una semplice spiegazione del testo, ma ne offrono piuttosto una peculiare interpretazione. Dalle discrepanze fra il pensiero apostolico e quello degli scrittori del IV secolo si può avere la misura delle varie esigenze che animavano la Chiesa tardoantica.
Paolo sosteneva che, nonostante l’utilità del matrimonio come «controllo» del desiderio sessuale, il celibato sarebbe stato preferibile perché permetteva di spendere tutte le proprie energie al servizio di Dio (I Cor. 7, 1-9; 25-40). Poiché egli credeva che Cristo sarebbe tornato a fondare il regno promesso in un periodo di tempo che avrebbe coinciso con la lunghezza di vita di molti del suo auditorio (I Tess. 4, 15), suggeriva di non impegnarsi in matrimonio, ma di consacrare se stessi a Dio. Nel IV secolo, le speranze escatologiche della prima cristianità erano rapidamente cadute, mentre l’entusiasmo messianico era riguardato come un’eccentricità ormai impopolare. Per tale diversa disposizione mentale, tutti i commenti di Paolo sull’escatologia furono interpretati in riferimento alla vita ultraterrena38.
La prima conseguenza fu una diversa giustificazione della scelta ascetica, motivata per i Padri dall’esigenza di vivere sulla terra «come angeli» in cielo39.
Le alterazioni del testo apostolico sono evidenti. Rimanere vergini o vedove non significava più scegliere un modo di vita migliore nell’attesa del ritorno di Cristo, come per Paolo, bensì acquisire uno stato ontologico che portava l’umanità a condurre un’esistenza semidivina. Verginità e vedovanza non erano più condizioni di vita di alcune persone beneficiate dal dono di Dio, una misura pratica per aspettare il suo regno. Si volle che esse fossero professiones, dallo status ben definito, in cui la pratica della continenza fosse frutto di sforzo, macerazione, rinunzia. Tale sostanziale travisamento del testo di Paolo si coniugava con l’esigenza della Chiesa di fissare i ruoli dei propri adepti. Adottare lo stato virginale significava impegnarsi per il resto della vita. E infatti, nel commentare l’opinione di Paolo che una vergine non fa peccato se si sposa (I Cor. 7, 28), i Padri del IV secolo si sentirono in dovere di sottolineare che l’apostolo non aveva certo inteso parlare di una fanciulla che avesse formalmente rinunziato al matrimonio per la verginità, bensì di una giovane donna che non aveva
37 R. Grillet, op. rii., p. 8.
38 E.A. Clark, Introdurti™, cit., p. 235; cfr. loh. Chrys., de virg. 49, 1-2; 5-6; 6-8.
39 Ambr., de virg. I, 11; loh. Chrys., de virg. 11,1.



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ancora scelto fra le due condizioni40. Lo stesso si sosteneva per le vedove: pensare a un secondo matrimonio, dopo essersi votate alla vedovanza perpetua nella Chiesa, avrebbe significato rompere una promessa41.
Queste non erano semplici proposizioni teoriche. Ambrogio fu pronto a denunziare il caso di una vedova della sua parrocchia che aveva desiderato sposarsi di nuovo. Per tale problema pastorale egli compose il de viduis. La donna non fu troppo felice di vedere in tal modo pubblicizzato il proprio caso, anche perché le ben dosate sfumature retoriche, che conferiscono all’operetta moderazione ed equilibrio, non necessariamente caratterizzarono l’invettiva orale. Ambrogio stesso dovette capire di aver passato la misura se senti il bisogno di una formale retractatio scritta42. In altra occasione egli non si trattenne dal proibire il progettato matrimonio di una vergine consacrata: le critiche, ancora una volta, furono portate direttamente in chiesa durante il sermone per la festa dei santi Pietro e Paolo. La gravità della situazione si può cogliere dal modo con il quale il vescovo optò per una pubblica identificazione dell’opposizione e dalla varietà delle giustificazioni che egli ritenne di dover addurre43.
Gli squarci di vita pastorale che tali trattati offrono, cosi come la tensione protrettica dei sermoni sugli stessi argomenti, rivelano lo sforzo dei Padri nell Organizzare e nell’istituzionalizzare una vocazione alla continenza femminile che poteva essere tanto entusiastica quanto limitata nel tempo. Giovanni Crisostomo assicurava che la comunità di Antiochia annoverava un numero cospicuo di donne celibi: tremila vedove e vergini erano assistite dalla Chiesa44. Ci si può chiedere quante di queste rimanessero neWordo per tutta la vita o quante, invece, avessero un ripensamento come le pagine ambrosiane rivelano. L’invettiva condotta nel de lapsu virginis contro una giovane che, dopo la velario, aveva contratto una relazione amorosa senza avere il coraggio di confessarlo45, rivela adeguatamente l’incontrollabilità e la fluttuazione del gruppo di vergini e vedove.
Le città raramente avevano edifici per ospitarle e molte giovani, dopo la consacrazione, continuavano a vivere in famiglia, in stanze separate, affidate alla sorveglianza dei genitori. Altre tendevano a coagularsi in piccoli gruppi in maniera organica, riunendosi in camere d’affitto o nella proprietà di campagna di qualcuna di esse46. L’informalità delle strutture è
40 loh. Chrys., de virg. 39,1; cfr. Pseud. Ambr., de lapsu virg. 21, PL 16, 389.
41 loh. Chrys., de virg. 39,2.
42 Ambr., de virginitate 46, PL 16, 292; cfr. de viduis 56-57, PL 16, 251.
43 Ambr., de virginitate 10, 282; 24, 286.
44 loh. Chrys., Hom. 66 Mattò. 3, PG 58, 630. Il numero può essere stato esagerato per conferire maggior forza alle argomentazioni. Il Crisostomo, infatti, intendeva confrontare l’avarizia dei cittadini di Antiochia con lo sforzo di carità sostenuto dalla Chiesa per nutrire tutti i bisognosi della città.
45 Pseud. Ambr., de lapsu vifg. 20, 388.
46 E. A. Clark, Ascetic Renunciation and Pedinine Advancement: A Paradox ofLate Ancient Christianity, in Id., op. cit., pp. 175-208.



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indicativa deU’informalità del movimento che, nei primi secoli cristiani, rappresentò una zona di eccezionale fluidità e libera scelta47. I trattati sulla verginità e sulla vedovanza furono prodotti in quantità anche per la necessità di controllare queste molteplici spinte, fornendo alle future ascete modelli ben precisi di comportamento. Nello stesso periodo, trattati normativi vennero scritti per sacerdoti e per vescovi, perché ogni ruolo nella Chiesa avesse la sua giustificazione ideologica e ogni suo membro fosse socialmente distinguibile nel vestito, nell’atteggiarsi del volto, nel camminare, nel modo di rimanere in silenzio.
Nelle basiliche del periodo venne organizzata una speciale sezione recintata, ad uso esclusivo delle vergini. Matrone di alto rango facevano la fila per ricevere un bacio di grazia da quelle che sostavano disposte dietro una barriera, su cui erano incisi i precetti della loro vocazione48. Non sappiamo se tale struttura fosse stabile o se di essa si facesse uso al momento di organizzare le cerimonie di velario delle nuove vergini.
Celebrate in occasione delle grandi festività ecclesiastiche in un tripudio di luci, di inni, di colori, la loro suggestività dovette raramente essere lasciata all’improvvisazione.
3. Un insieme cosi concertato di pressioni, dalla retorica dei trattati e dei sermoni, alla sublimazione emotiva provocata dalle cerimonie di velario, ebbe davvero l’effetto di persuasione desiderato? Sarebbe interessante poter quantificare i risultati del fervore ascetico che, secondo alcuni, caratterizzò la società della fine del IV secolo. Uno dei principali ostacoli a ciò, tuttavia, è dato dal carattere stesso di fluidità che, nonostante i tentativi di controllo, molti gruppi continuarono a conservare. Dalla documentazione si può capire soltanto che il fenomeno ebbe risonanza diversa nelle singole città e nei diversi ambienti sociali. Il quadro offerto da Ambrogio delle resistenze psicologiche e degli impedimenti concreti che si opponevano alla scelta virginale in Milano può riflettere una situazione più generale. In molte cittadine dell’Italia settentrionale, ad esempio, in comunità socialmente ben strutturate e senza grossi squilibri, il matrimonio dovette rimanere la normale aspettativa di vita per la vasta maggioranza delle donne. Non a caso l’ostacolo maggiore alle nuove consacrazioni era costituito dalle famiglie. Non soltanto le madri o i padri proibivano alle figlie di prendere il velo, inseguendole perfino sull’altare; uguale opera di dissuasione era svolta anche dalle vedove49. A Verona, secondo il vescovo Zenone (362-380), poche donne intendevano rimanere univire e quelle del gruppo cristiano si risposavano anche più spesso di
47 E. A. Clark, ìohn Chrysostom and thè «Subintroductae», in Id., op. cit., pp. 265-280.
48 Pseud. Ambr., de lapsu virg. 24, 390.
49 Ambr., de idfg I, 32, 62, 65.



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quelle pagane50. Siamo lontani da situazioni come quelle descritte da Basilio, in cui la decisione di consacrare le figlie alla verginità veniva presa dalla famiglia stessa per liberarsi dal pagamento della dote. In quel caso, la verginità era vissuta come alternativa all’esposizione dei nati51.
A metà del IV secolo, tuttavia, in alcuni ambienti il fenomeno della verginità consacrata doveva essere già abbastanza cospicuo tanto da apparire ad occhi attenti uno tra i punti di forza dell’istituzione ecclesiastica. Giuliano, a detta degli storici ecclesiastici, avrebbe progettato di far vendere beni e arredi sacri delle chiese e di far maritare le donne consacrate52. Il suo successore cristiano decretò la pena di morte per chi avesse tentato di rapire o anche solo di sollecitare alle nozze una vergine o una vedova53. Gioviano avrà inteso rassicurare la Chiesa che i progetti di Giuliano erano ormai lettera morta. La sua non fu tuttavia l’unica costituzione del genere. Sia Costanzo in precedenza, sia Teodosio II, molti decenni più tardi, presero misure analoghe54. Anche Costantino aveva emanato nel 320 una costituzione de raptu virginum vel viduarum, senza però avere in mente vergini o vedove consacrate. Ed infatti, più che proteggere tali donne, egli volle assicurare l’autorità delle famiglie sulla scelta dei pretendenti. Lo conferma il fatto che nel testo veniva preso in esame anche il comportamento della rapita. Se quella non avesse gridato abbastanza forte da ricevere aiuto, sarebbe stata ritenuta complice e privata del diritto di ereditare55.
Le costituzioni sul ratto di vergini e vedove consacrate emanate da Costanzo II in poi farebbero supporre che il numero di costoro fosse già tale, intorno al 350, da imporsi all’attenzione del legislatore. Poiché, tuttavia, nei testi legislativi il problema del rapimento è sempre connesso con quello della capacità ereditaria del soggetto in questione, ci si chiede se essi più che indicare la rilevanza numerica del fenomeno ascetico, non siano rivelatori della consistenza economica di quante praticavano tale genere di vita. Non tutte le donne consacrate erano infatti povere da dover essere assistite e nutrite dalla Chiesa, come il Crisostomo pretendeva. Le sostanze di alcune di esse potevano essere tanto attraenti da indurre alcuni a sfidare leggi severe che comminavano la pena capitale o la confisca dei beni e l’esilio per deportazione.
Dalle fonti non è chiaro quanto la scelta di rinunziare al matrimonio potesse pregiudicare la situazione patrimoniale di una giovane. Se le «spose di Cristo» perdevano probabilmente ogni diritto alla dote, non necessariamente esse venivano private della legittima eredità. Ambrogio spese molte parole per convincere le ragazze milanesi che la casta paupertas era di gran
50 Zeno, Tr. II, 7, 11, p. 112; cfr. anche Hier., Ep. 79, 11; 123, 9.
51 Bas.,E/>. 119, 18.
52 Theod., HE 3, 8; Soz., HE 6, 3.
53 CTb 9, 25, 2 (19 febbraio 364).
54 CTb 9, 25, 1 (22 settembre 354); 9, 25, 3 (8 marzo 420).
55 CTb 9, 24,1 (1 aprile 320); Costanzo e Valentiniano iterarono le interdizioni, moderando la



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lunga migliore dei pesi della dote tranquillizzandole, peraltro, con la rassicurazione che quasi mai la minaccia di venir diseredate era poi portata a compimento56. Non sappiamo neppure se venissero stipulati accordi informali fra una vergine e la chiesa locale a cui ella afferiva, in relazione ai suoi beni. Le esortazioni affinché la rinunzia al sesso fosse accompagnata da una totale rinunzia alle ricchezze, d’altra parte, non sempre dovettero essere seguite. Spesso la vergine poteva decidere di conservare le proprie sostanze, impiegandole magari per il mantenimento di se stessa e di altre aspiranti vergini. In tal caso, però, le minacce per le giovani consacrate non rimanevano limitate a un eventuale rapimento a scopo di matrimonio.
Due lettere di Ambrogio gettano qualche luce su uno scabroso episodio verificatosi a Verona al tempo del vescovo Siagrio (circa 394 d.C.)57. Una vergine del luogo, Indicia, nota ad Ambrogio per aver speso i primi anni dopo la consacrazione in compagnia della sorella Marcellina a Roma, era stata accusata di aver contratto una segreta relazione e aver ucciso il piccolo nato da questa. L’accusa poteva comportare gravi sanzioni penali58. Nonostante la delicatezza della situazione avesse richiesto di agire con cautela, il vescovo veronese non aveva informato Ambrogio e aveva pensato di risolvere il caso affidando a ostetriche un’ispezione della vergine. Ambrogio reagi con estrema durezza. Riunito un gruppo di vescovi, dopo un vero processo in cui molti testimoni furono ascoltati e confrontati, il caso fu risolto. L’indagine rivelò che era stato il cognato della vergine a subornare falsi accusatori. Per quanto Ambrogio non dica chiaramente quale fosse il fine che aveva animato il giovane, fra le righe si comprende che la manovra avrebbe permesso alla sorella di Indicia e al marito di costei di venire in possesso della parte di eredità della vergine. Tra le sue proprietà vi erano terre e una casa di campagna da cui il cognato era stato escluso59. Possiamo presumere che Indicia avesse deciso di riunire nella villa altre giovani, seguendo l’esempio offertole da Marcellina sorella di Ambrogio.
Anche la vita delle vedove che avessero deciso di militare nella Chiesa non era priva di rischi. A parte la categoria delle diaconesse, che nella Chiesa orientale sembra comportasse una regolare imposizione delle mani e una consacrazione pari a quella delle vergini60, in Occidente i Padri furono
pena per i rapitori: CTh 9, 24, 2 (12 novembre 349) e 9, 24, 3 (14 novembre 374).
™ Ambr., de virg. I, 62-63, PL 16, 217.
57 Ambr., Epp. 5-6 a Syagrius, PL 16, 929-943.
58 F. Martroye, L’affaire Indicia: une sentente de saint Ambrose, in «Mélanges Fournier», 1929, pp. 503-510.
59 Ambr., Ep. 5, 17, 935:... aliaque, quibus doloret quod virgo in agro affinitatissuae refugisset consortium.
60 Olympias fu consacrata diaconessa intorno al 390: Vita Olymp. VI, 419,56 13bis (ed. A-M. Malingrey, Paris, 1968). L’iniziativa fu presa dal vescovo Nettario (Soz., HE 8, 9, GCS 50, 361). Sull’istituzione delle diaconesse a Costantinopoli, cfr. A.M. Malingrey, Introduction a Jean Chrysostome. Lettres à Olympias, in SC 13bis, p. 20, n. 3.



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molto incerti se creare o no un ordo viduarum^. Qualche concilio ne regolava il comportamento: ma anche per le vedove che avessero deciso di non risposarsi, la vita non doveva differire molto da quella di altre donne normali62. Per questo molte pressioni si esercitavano sulle vedove da parte di nuovi pretendenti. La misura degli interessi toccati è data dal fatto che i vescovi non esitarono a porsi in conflitto con funzionari statali, pur di proteggere e controllare tali vedove.
Un episodio è ricordato da Gregorio di Nazianzo nell’orazione funebre di Basilio, a prova del coraggio manifestato dal vescovo nell’aiutare i cittadini deboli e indifesi della diocesi fino a rischio della propria vita. Nell’esercizio dei suoi doveri di carità, Basilio aveva accettato di ospitare una giovane donna decisa a non contrarre seconde nozze, sfidando in tal modo l’ira di un assessor che da tempo esercitava sulla vedova forti pressioni. Si può immaginare con quale accusa il funzionario ordinò una perquisizione nella casa del vescovo e successivamente riuscì a trascinarlo in tribunale. Il fatto ebbe larga risonanza nella comunità e solo l’intervento inferocito della folla, decisa a liberare il proprio vescovo, permise a Basilio di evitare ulteriori conseguenze giudiziarie63.
È singolare che nel 380, da Tessalonica, Teodosio abbia emanato una costituzione che minacciava una multa di dieci aurei, la perdita dell’incarico e il divieto d’ingresso nella provincia in cui quello era stato svolto a qualunque funzionario che, giovandosi della propria autorità, servendosi di minacce e collusioni di potere, si fosse riservato in matrimonio una vergine o una vedova contro la loro volontà64. Non sappiamo quanti casi del genere si presentassero, ma la precisazione del Nazianzeno, che la vedova protetta da Basilio era di nobili natali, può spiegare perché donne del genere fosse cosi ambite.
Per tutelare i propri averi, le vedove molto spesso li affidavano in deposito ai vescovi. Ambrogio affermava di aver condotto numerose battaglie adversus regales impetus per conservare intatti simili depositi65. Che il problema rappresentasse un ambito di conflittualità fra Chiesa e Stato è suggerito dal
61 II c. 27 del concilio d’Orange del 441 ricorda unaprofessio viduitatis fatta di fronte al vescovo, in seguito alla quale la donna avrebbe indossato un vestito speciale (Hefele-Leclercq, Histoire, 2,1, p. 452). Gelasio, tuttavia, interdisse velatio e benedizione delle vedove. Egli voleva evitare che una cerimonia religiosa desse solennità a una promessa che poteva in seguito non essere osservata: Ep. 14, 13 e 21 (ed. Thiel), pp. 369 e 374.
62 II c. 72 di Elvira puniva con una scomunica di durata variabile eventuali loro sregolatezze (Hefele-Leclercq, Histoire, 1, 1, p. 259). Rinnovando prescrizioni anteriori, il c. 4 del concilio di Cartagine (c. 348) interdiceva alle vedove di abitare con persone che non fossero loro parenti (ivi, 1, 2, p. 841). Cfr. J. Gaudemet, L’Eglise dans t’empire romain (IVe-Ve siede ), Paris, 1959, pp. 186 sgg.
Gr. Naz., Or., 43, 56 PG 36, 576-579. Per la composizione sociale del gruppo di cittadini insorti a protezione di Basilio, cfr. L. Cracco Ruggini, I vescovi e it dinamismo sodate net mondo cittadino di Basilio di Cesarea, in Basitio di Cesarea, la sua età e il Basilianesimo in Sicilia (Messina 4-6 dicembre 1979), Messina, 1983, pp. 97, 124, in particolare pp. 103 sgg.
64 CTb 3, 11, 1 (17 giugno 380).
65 Ambr., De off. II, 150 PL 16, 152: Meministis ipsi quoties adversus regales impetusprò viduarum, imo omnium depositis certamen subierimus.



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modo in cui nel De Officiis egli si dilungò sull’argomento. Perché ai futuri ministri fosse chiaro il comportamento da tenere, egli citò anche un episodio di recente accaduto al vescovo di Pavia (allora Evenzio, terzo dopo Siro e Pompeo fra il 386 e il 397). Probabilmente durante il rastrellamento di vettovaglie e danaro condotto da Massimo per finanziare la propria campagna in Italia66, gli alti burocrati dell’usurpatore avevano tentato di appropriarsi del deposito di una vedova custodito da Evenzio. Da sempre le chiese dovevano funzionare come luogo di raccolta e custodia delle somme in danaro dei propri fedeli, essendo peculiare carattere del messaggio evangelico l’azione caritatevole. L’imperatore, peraltro, doveva avere fondati motivi legali per esigere la consegna del deposito, se fu in grado di produrre con il proprio rescritto anche statata magistri officiorum e di far intervenire un agens in rebus. Il deposito della vedova fu coattivamente consegnato agli ufficiali imperiali, ma Ambrogio seppe trovare un ingegnoso espediente perché l’imperatore non potesse usare la somma di cui si era impadronito e, piegato dalle citazioni bibliche prodotte, decidesse di restituirlo al vescovo67.
4. Motivazioni di ordine economico s’intrecciarono dunque a fattori ideali di prestigio o di definizione dottrinaria nel suscitare l’interesse dei vescovi per vergini e vedove. In fase di consolidamento, e come istituzione e come potenza economica, la Chiesa definì in tal modo la partecipazione delle donne alla cristianità. La retorica della continenza sessuale femminile, esaltando nelle donne la propensione a vivere in totale rinunzia di beni e di sesso, favori la loro esclusione dalle gerarchie e l’eventuale incameramento dei loro beni. Dalla difesa e dalla protezione di vedove e vergini la Chiesa trasse enormi vantaggi, poiché costoro rappresentarono una tra le fonti di maggiore arricchimento dell’istituzione ecclesiastica. Non fu necessario, come il Goody ritiene, alterare la struttura endogamica della famiglia romana per facilitare il flusso di ricchezze nel patrimonio della Chiesa. La via dei benefici ereditari era piu semplice e diretta. Dispersione e ridistribuzione dei patrimoni attraverso lasciti testamentari era già una distinta caratteristica della società del primo impero68. La possibilità di usufruire di tale consuetudine fu esclusivamente legata alla capacità del vescovo di raggiungere un alto grado di autorità e di rispettabilità sociale all’interno della comunità. In tal senso, tutti i cittadini avrebbero potuto contribuire piamente al consolidamento del patrimonio ecclesiastico, in maggior misura però lo avrebbero fatto vergini e vedove, su cui controllo e protezione episcopale si esercitavano direttamente.
66 L. Cracco Ruggini, Ticinum: dal 476 d.C. alla fine del regno gotico, in Storia di Pavia, I, Pavia, 1986, p. 276.
h Ambr., De off II, 150-151 PL 16, 152.
68 B. Shaw-R.P. Saller, op. cit., pp. 438-439.



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Valentiniano cercò di tutelare i patrimoni familiari da forme di eccessiva generosità verso il clero. Egli, infatti, proibì ai chierici di accettare qualsiasi tipo di donazione ed eredità da vergini e vedove che non fossero loro parenti69. La costituzione, tuttavia, dovette ledere in modo molto trascurabile l’economia ecclesiastica. Dal testo e dalle limitate reazioni suscitate in ambiente religioso, si comprende che quella non intendeva minare l’impalcatura delle comunità cristiane e rispondeva piuttosto a esigenze moralizzatrici variamente sentite70. La scappatoia legale dei fedecommessi, come lo stesso Gerolamo ricordava, dovette rendere praticamente ineffettivo il divieto imposto dalla costituzione71. Nel prendere decisioni che riguardavano gli interessi della Chiesa, inoltre, gli imperatori furono sempre più soggetti a gruppi di pressione. È significativo che, nel giro di appena due mesi, Teodosio si trovò ad abrogare, a Verona, una costituzione che aveva emanato a Milano con l’intenzione di regolare le norme di consacrazione delle diaconesse e la questione della trasmissione dei loro beni72. Entrambe sono dirette al prefetto del pretorio orientale ed è probabilmente in ambito costantinopolitano che andranno cercate le cause di un mutamento cosi repentino di opinione73.
Non è possibile peraltro stabilire se la costituzione veronese con cui Teodosio abolì la precedente, fortemente restrittiva, abrogasse di fatto anche quella di Valentiniano. La fluttuazione della legislazione e la frequente incoerenza con quella della pratica d’uso fecero si che, ancora a metà del V secolo, il problema della legittimità del clero a ricevere legati da vedove fosse motivo di discussione in senato. Un resoconto del dibattito accesosi sulla validità del testamento di una certa Hypatia, che aveva nominato un presbitero erede della parte più cospicua dei propri beni, è dato nella Novella 5 di Marciano del 455. Dopo un’analisi delle varie costituzioni precedentemente emesse in argomento, l’imperatore dichiarò la liceità della Chiesa di divenire beneficiaria di ogni tipo di liberalità ricevuta per via testamentaria da vedove74.
La pratica dei lasciti testamentari non fu l’unica via attraverso cui la Chiesa incamerò molte ricchezze dei propri fedeli. Vergini e vedove desiderose di «disperdere sulla terra quelle ricchezze che contavano di accumulare, tesoro inviolabile, in cielo», ancora in vita fecero dono alla Chiesa dei loro
69 CTh 16, 2, 20 (30 luglio 370).
70 Hier., Ep. 52, 6 (ed. J. Labourt, Paris, 1951, II, p. 180, 18-30); Ambr., Ep. 18, 16. Sulla pretestuosità delle argomentazioni di Ambrogio, teso a dimostrare che il clero cristiano era stato ancora più colpito di quello pagano nel diritto successorio, cfr. D. Vera, Commento storico alle Relationes di Q. A. Syrnmachus, Pisa, 1981, pp. 45-47.
71 Hier., Ep. 52, 6, p. 180, 24-27: Provida severaque legis cautio, et tamen nec sic refrenatur avaritia. Per fideicommissa legibus inludimus...
72 CTh 16, 2, 2 7 (21 giugno 390); CTb 16, 2, 28 (23 agosto 390).
73 Cfr. oltre, circa la possibilità di connettere tali costituzioni con il caso di Olympias.
74 Nov. 5 di Marciano (23 aprile 455).



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immensi patrimoni. A conclusione della nostra indagine, l’analisi di questi specifici casi di verginità e vedovanza consacrata offre la possibilità di mettere a fuoco alcuni problemi sollevati nel corso del lavoro. Avremo un’idea più precisa della quantità di donne che, in un determinato ambiente sociale, risultarono affascinate dall’esaltazione della continenza sessuale e della rinunzia ai beni terreni. Potremo conoscere meglio anche il processo con il quale le loro proprietà vennero devolute alla Chiesa e le reazioni manifestate dall’ambiente senatorio o dallo stesso imperatore verso una forma di carità che le fonti descrivono come totale e assoluta. Olympias, la donna che sostenne materialmente e psicologicamente Giovanni Crisostomo durante gli anni del tormentato episcopato a Costantinopoli, nella lotta contro gli oppositori, poi nella pena dell’esilio, proveniva dal gruppo della nuova aristocrazia senatoria della capitale orientale75. Il nonno, un cretese di umili origini, ottenne grande influenza sotto Costantino che lo fece membro del senato, ma egli sperimentò sotto il successore gli effetti degli intrighi e delle lotte per il potere che accompagnano il consolidamento di ogni nuova aristocrazia. Accusato di aspirare al regno, fu messo sotto accusa e giustiziato. Molte proprietà accumulate da Ablabius dovettero però essere salvate e ampliate dal figlio Seleucus se Olympias, orfana e vedova ad appena vent’anni, disponeva ancora di un vasto patrimonio. Dopo anni di carità disordinata e incontrollata, i beni che essa poteva donare alla Chiesa, a parte 10.000 libbre d’oro e 100.000 d’argento, comprendevano proprietà in Tracia e in Asia Minore e vari immobili in città. Fra questi, la F7ta ricorda almeno tre oikiai al centro di Costantinopoli, comprensive di terme, forni, un tribuna/. Esse non dovevano differire troppo dalle immense domus descritte da Olimpiodoro76. Alla Chiesa Olympias cedette anche gli immobili nei dintorni della capitale e la parte di annona pubblica a cui, in quanto senatrice, essa aveva diritto77.
In tal modo l’istituzione ecclesiastica otteneva benefici che andavano oltre il semplice arricchimento economico. Cinquant’anni più tardi, la Chiesa di Costantinopoli fu autorizzata a estendere la propria giurisdizione su quelle regioni, come la Tracia e la Bitinia, in cui era diventata proprietaria di terre78. Nell’immediato, il suo clero potè controllare la vita economica dei
75 Secondo il profilo della vita di Olympias tracciato da A. Malingrey {SC 13bis, pp. 13-20), suo nonno fu FI. Ablabius, vicarius e praefectus praetorio Orientis sotto Costantino (PURE I, pp. 3-4). Il padre Seleucus occupò un posto importante a corte fra i comites dell’imperatore. Educata da Therasia, sorella del vescovo di Iconio, Anfìlochio, fu lasciata orfana ancora giovane e, sposata nel 386 a Nebridius, probabilmente il cognato di Flaccilla prima moglie di Teodosio, rimase vedova nel giro di pochi mesi. È probabile che anche Gregorio di Nazianzo prese parte all’educazione di Olympias negli anni del suo episcopato a Costantinopoli.
76 Olympiod., Hist. Frg 44, FHG IV, pp. 67 sgg.
77 Vita Olym. V, 22-23, pp. 416-418; cfr. G. Dagron, Naissance d'une capitale. Costantinople et ses institutions de 330 à 431, Paris, 1974, pp. 500-506. .
78 Concilio di Calcedonia, c. 28 (Hefele-Leclercq, Histoire, 2, 2, pp. 815-818).



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nuovi quartieri in cui era venuta a possedere larghe domus e ridistribuire al mondo dei poveri il panis aedium ereditato dalla ricca Olympias79. La consacrazione della donna forni al Crisostomo un’altra opportunità non indifferente. Il monastero che quella fece costruire nell’angolo meridionale della grande chiesa fu probabilmente il primo fondato a Costantinopoli per ospitare giovani vergini e forse vedove80. In una città in cui il controllo dei gruppi ascetici maschili e femminili rimase per anni il problema centrale di vescovi e imperatori81, la nuova costruzione permetteva al vescovo di contare sull’assoluta fedeltà di tutte le donne che vi fossero confluite82.
La Chiesa di Costantinopoli si trovò cosi a detenere, grazie al fervore ascetico di Olympias, un patrimonio che in altri periodi sarebbe rimasto all’interno dell’aristocrazia senatoria, o sarebbe confluito fra i beni della famiglia imperiale. Il processo attraverso cui tale cessione fu attuata non fu però privo di contrasti. Un indizio potrebbe essere offerto anche dalle due costituzioni già citate di Teodosio. Emanate in Occidente, esse furono tuttavia dirette al prefetto orientale, proprio nel periodo in cui a Costantinopoli si dibatteva il problema della destinazione dei beni della ricca vedova. La costituzione milanese, che proibiva di consacrare una vedova che non avesse raggiunto i sessantanni di età, fu probabilmente suggerita dagli ambienti di corte per bloccare l’iniziativa del vescovo Nettario di nominare diaconessa l’appena trentenne Olympias. D’altra parte, l’abrogazione della legge, ordinata a Verona sulla via per tornare nella capitale orientale, intendeva forse ratificare quell’ordinazione condotta nonostante le recenti disposizioni, evitando un conflitto aperto fra l’imperatore e il vescovo di Costantinopoli. Tale interpretazione non si allontana dalle scarne indicazioni della fonte secondo cui Teodosio al ritorno dall’Occidente, appreso con quale ardore Olympias praticasse la vita ascetica, sarebbe stato spinto a renderle la libertà di disporre dei suoi beni83.
9 Vita Olym. VII, 1-6, p. 420. Sul significato del panis aedium a Costantinopoli, dove il privilegio annonario perse il carattere sociale che aveva a Roma, essendo esteso anche all’aristocrazia senatoria, cfr. G. Dagron, op. cit., p. 540.
80 Vita Olym. VI, 1-7. Sulla ubicazione di tale monastero, cfr. R. Janin, La Geographie ecclesiastique de l’empire byzantin, I, 3, Paris, 1953, pp. 3-4, 395-396.
81 CTh 16, 3, 1 (2 settembre 390). Sulla difficoltà di controllare i movimenti monastici di Costantinopoli, cfr. G. Dagron, Les moines et la ville. Le monachisene à Costantinople jusq’au concile de Chalcedoine, in «T&MByz», 3, 1970, pp. 220-276. Per un episodio di conflitto fra gruppi probabilmente eretici e Gregorio di Nazianzo, cfr. R. Lizzi, Monaci, mendicanti e donne nella geografia monastica di alcune regioni orientali, in «AIV», 140, 1982-1983, pp. 341-353.
82 II monastero di Olympias fu in grado di ospitare subito dopo la sua fondazione 250 donne, di cui 50 erano ex schiave e 4 erano parenti della vedova (Vita Olym. VI, 1-28, pp. 418-420).
83 La Vita racconta che Olympias, alla morte del marito, fu variamente sollecitata da Teodosio a sposare il parente di quello Elpidius, forse di origine spagnola (c. II, pp. 410-412). Di fronte al suo fermo rifiuto, l’imperatore ordinò che tutti i beni della giovane fossero confiscati finché quella non avesse raggiunto i trenta anni. Il prefetto della città Clementinus aggiunse l’interdizione di frequentare i vescovi e di assistere agli offici sacri. Solo dopo quattro anni, quando Teodosio tornò dall’Occidente, l’ordine fu revocato e Olympias iniziò la cessione delle sue proprietà alla Chiesa di Costantinopoli.



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Le tensioni suscitate nella capitale orientale dal problema della destinazione della grande fortuna di Olympias sono confrontabili, in entità e carattere, solo con quelle provocate a Roma dalla spettacolare rinunzia ai propri beni da parte di Melania e Piniano. Nelle Vitae di entrambe sono ricordati gli ostacoli insormontabili che tali eroine della fede riuscirono a superare: l’opposizione dei membri della propria famiglia per Melania, l’intervento diretto dell’imperatore nel caso di Olympias in ordine a forzarla a un nuovo matrimonio, l’azione persecutoria attuata contro l’una e l’altra dal prefetto della città84. Di fatto tali elementi, singolarmente in comune, sono solo vaghe allusioni ai conflitti che potevano contrapporre Chiesa e Stato allorché si profilasse la minaccia del passaggio di ingenti fortune da un’istituzione all’altra.
Non sempre però, la condizione personale dei nuovi aspiranti asceti (o la giovane età, o la presenza di eredi collaterali, o la possibilità di contrarre un nuovo matrimonio) lasciavano margine alle opposizioni. Anche la rinunzia al mondo di Therasia e Paolino suscitò scalpore fra i senatori secondo la testimonianza di Ambrogio85. Niente, tuttavia, lascia supporre un’analogia con le manovre scatenatesi in seguito alla liquidazione delle proprietà intrapresa da Melania o al loro diretto trasferimento alla Chiesa voluto da Olympias86.
84 Anche per Melania la conquista ascetica sembra essere stata molto tormentata. La V'ita (ed. D. Gorce, SC 90, Paris, 1962) insiste sui conflitti d’interesse e di sentimenti accesisi quando essi decisero di vendere tutti i propri beni (1, 3, 4, 6-8), sulla composizione della fortuna colossale posseduta da lei e dal marito (11, 15, 17, 20, 21, 37), sui problemi pratici che pose la loro liquidazione (10, 14, 15, 19, 30, 37). Solo dopo la morte del padre Publicola, Melania fu libera di disporre della eredità. La minaccia della rivolta di schiavi che si ribellarono su istigazione del fratello di Pinianus, Severus, spinse la coppia a rivolgersi a Serena, moglie di Stilicone, per avere da Onorio un decreto che ordinasse ai pubblici ufficiali di vendere le loro proprietà nelle varie province. Un prefetto di Roma, probabilmente Gabinius Barbarus Pompeianus tentò, d’accordo con il senato, di confiscare le loro proprietà. Poiché quello fu ucciso durante i tumulti provocati dalla carestia, i loro beni furono salvi. Su Melania esistono recenti studi in cui si tenta d’interpretare i fatti narrati dalla Vita alla luce degli avvenimenti coevi che sconvolsero Roma (cfr. È. A. Clark, The Life of Melania thè Younger, New York, 1984, con traduzione e ampio commento della Vita; Id., Piety, Propaganda and Politics in thè Life of Melania thè Younger, in Id., op. cit., pp. 61-94). Ringrazio A. Giardina di avermi permesso di ^eggere ancora in bozze il suo Carità eversiva: le donazioni di Melania la Giovane egli equilibri della società tardoantica, ora in «Studi Storici», 29, 1988, 1, pp. 127-142. Il portato ideologico e i risvolti pratici dell’azione di Melania e Piniano sono analizzati all’interno del sistema di valori aristocratici tradizionali e alla luce della realtà economica tardoantica. L’autore, peraltro, sottolineando la carica eversiva di tali comportamenti, ne mette in risalto anche la fondamentale unicità. Essi, infatti, come questo studio cerca di dimostrare, non possono essere considerati paradigmatici dell’intero fenomeno ascetico femminile nel Tardoantico.
85 Ambr., Ep. 58, 3, PL 16, 1229.
86 Come per altre conversioni all’ascetismo, quella di Paolino e Therasia risultò dalla tragedia personale legata alla morte e alle vicissitudini politiche di un’epoca in cui usurpazione ed eresia potevano rivelarsi fatali. D’altra parte, nel loro caso, la morte del figlio e dell’unico fratello di Paolino li aveva lasciati senza immediati successori. Non è impossibile che Paolino abbia venduto le sue proprietà a rami collaterali della famiglia (cfr. J. Harries, Treasure in Heaven:



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Casi come quello di Olympias e Melania dovettero, infatti, rimanere isolati. Con modi e precauzioni completamente diverse si avviarono verso la Terrasanta le altre ascete «entusiaste» che le nostre fonti lasciano conoscere. Né senato, né funzionari imperiali pensarono di dover intervenire a bloccare le pratiche di trasmissione delle proprietà condotte da Melania Seniore, o da Paola, o da Marcella e Albina. Pur con ferventi affermazioni di rinunzia, la maggior parte di queste senatrici si preoccupò, infatti, di assicurare la trasmissione dei propri beni secondo le tradizionali regole di matrimonio ed eredità. Melania Seniore aspettò dodici anni dopo la morte del marito (dal 362 al 374) e parti per Gerusalemme allorché il figlio, già pretore urbano, poteva pienamente disporre del patrimonio familiare87. Poiché i figli avevano priorità sulla moglie per legge di trasmissione, quando Paola lasciò Roma con la più giovane delle figlie, il patrimonio doveva essere già in mano di Toxotius e delle altre sorelle. Quando Albina conobbe il rifiuto di Marcella di risposarsi, alienò la proprietà lasciandola ai figli del fratello. In tal caso, era seguita la regola di successione agnatizia pur di preservare comunque i beni all’interno della famiglia88.
È questa una prova ulteriore che per tali donne la rinunzia al sesso coincise con l’abbandono effettivo di tutti i beni, dunque con la povertà assoluta? La brillante suggestione di J. Harries, qui seguita, lascia irrisolti alcuni problemi che le fonti agiografiche, con le loro incongruenze, possono aiutare a chiarire.
Nel ripercorrere il testo dell’epitaffio di Paola redatto da Gerolamo, troviamo una quantità esattamente uguale di passi per credere che la nobildonna romana spogliò se stessa e i propri figli di tutto il patrimonio, o che all’opposto essa diseredò se stessa per elargire loro tutte le ricchezze; che visse in assoluta povertà o che, al contrario, continuò ad avere sostanze sufficienti per distribuire denaro ai poveri e ai santi del deserto, per fondare celle, monasteri, un asilo per i pellegrini89. Gerolamo dice di averla
Property and Inheritance Among Senatori of Late Rome, in E. Craik, ed., Marriage and Property, Aberdeen, 1984, pp. 54-70, in particolare pp. 63-64).
87 Hier., Chron. ad ann. 374: unico tuncpraetore urbanofilio derelicto. Alcuni editori però preferiscono leggere praetori intendendo che Melania lasciò il figlio sotto la tutela di un pretore urbano e interpretando in tal senso le allusioni di Paul. Noi., Ep. 29, 9 (cfr. J. Harries, op. cit., p. 59).
88 J. Harries, op. cit., pp. 54 sgg.
89 Hier., Ep. 108, 2, 2 (lasciò la figlia ricca di fede e di grazia); 4, 2 (la figlia Paolina lasciò Pammachio erede del suo ideale e dei suoi beni); 5, 2 (spogliava i suoi figli dell’eredità, fra le critiche dei parenti); 6, 5 (amò i suoi figli a tal punto che, prima di partire, elargì loro tutti i suoi beni, diseredandosi in terra per avere un’eredità in cielo); 7, 3 (percorrendo tutti i monasteri della regione, lasciò ai monaci quante risorse aveva); 10, 1 (a seconda delle sue modeste possibilità, distribuì denaro ai poveri e ai monaci); 14, 4 (a Betlemme costruì celle e monasteri e fondò un ostello per i pellegrini); 15, 5 (in generosità eccedeva la misura e «distribuendo le sue rendite spesso contraeva debiti»); 15, 5-7 (Gerolamo la redarguiva invitandola alla misura; egli voleva che fosse più cauta nell’amministrare il suo patrimonio); 16, 1 (potè donare sempre ai poveri, non per dovizia di mezzi, ma «per saggezza nel dispensare»).



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redarguita piu volte perché amministrasse cautamente il suo patrimonio: perché farlo, se Paola non ne avesse avuto più uno?90
Una via per interpretare affermazioni cosi contrastanti, senza dubitare totalmente del testo, è aperta dalla conoscenza della condizione giuridica della donna in età tardoantica. Una moglie in manu non aveva proprietà proprie e ogni cosa data o lasciata a lei era assorbita nella proprietà del marito. Se sui iuris, tuttavia, come di frequente dalla prima età imperiale, la piena parte di eredità ricevuta dal padre era tenuta indipendentemente dal marito e trasmessa in piena libertà91. Se vedova, nelle sue mani confluivano le ricchezze ereditate dal padre e quelle del marito. Dotate di estesi diritti come eredi testamentarie, il loro potere di lascito fu progressivamente ristretto allo scopo di assicurare il ritorno dei beni del marito alla proprietà familiare. Nessun vincolo, viceversa, sembra essere stato posto all’amministrazione della eredità paterna.
Una costituzione di Valentiniano del 371 esigeva per il secondo matrimonio di una giovane donna sui iuris il consenso del padre e, in mancanza di questo, dei parenti stretti. Altre costituzioni dal 381 in poi stabilirono un tempus lugendi di dieci mesi (rispetto agli otto precedenti), la cui violazione era punita con infanga e con pesanti sanzioni pecuniarie92. Tale legislazione, interpretata come espressione dell’influenza della nuova morale cristiana contraria al secondo matrimonio, rivela nel suo complesso la preoccupazione del legislatore di limitare e controllare la libertà della giovane vedova sui iuris, mantenendo l’autorità delle famiglie nella scelta dei pretendenti. Egualmente forte era la volontà di evitare che la confasti sanguinis ledesse i diritti ereditari dei primi figli: le fonti cristiane assorbirono volentieri tale terminologia trovando nello spirito della legge una motivazione in più per dissuadere dal secondo matrimonio93. Con l’estensione del matrimonio sine manu dopo l’età repubblicana, la donna potè amministrare il patrimonio ereditato e lo faceva spesso con incredibile oculatezza94. Gregorio di Nissa ricordò con orgoglio la crescente ricchezza della sua famiglia95. Nella 1/ita Macrinae affermò che sua sorella era anche più ricca dei suoi genitori, sebbene la fortuna familiare fosse stata
90 Hier., Ep. 108, 15, 5; 7.
91 J.F. Gardner, Women in Roman Law and Society, London, 1986, pp. 5-80, 163-204.
92 CTh 3, 7, 1 (16 luglio 3 71); 3, 8, 1 (30 maggio 381); 3, 8, 2 (17 dicembre 382); 3, 8, 3 (22 giugno 412); 3, 9, 1 (14 febbraio 398).
93 Zeno, Tr. II, 7, 6, pp. 174, 105: Quis has diligatjilius, quis maritus, confondentes sanguinis iura...\ cfr. Ambr., de vid. 88 sgg. PL 16, 275-276.
94 Un’analisi del ruolo pubblico e delle attività economiche della donna in età ellenistica e imperiale si può trovare in alcuni studi recenti: R. MacMullen, UTomen in Public in thè Roman Empire, in «Historia», 29, 1980, pp. 208-218; R. Van Bremen, Women and Wealth, in A. Cameron-A. Kuhrt, Images ofWbmen in Antiquity, London, 1983, pp. 223-242. Per la presenza di donne come dominae e qffìcinatores di fabbriche di mattoni, cfr. T. Helen, Organisation of Roman Brick Production in thè First and Second Centuries A.D., Helsinki, 1975, pp. 22 sgg.
95 Gr. Nyss., Ep., I, 33. Per l’attribuzione al Nisseno, anziché al Nazianzeno della lettera, cfr. P. Maraval, E'authenticité de la Eettre 1 de Grégoire de Nysse, in «AC», 102, 1984, pp. 61-70. La lettera è inclusa fra quelle del Nazianzeno da J. Gallay, Saint Grégoire ofNazianze. Lettres, II, pp. 139-148.



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divisa fra nove fratelli e sorelle96. Ciò significa che in una generazione (fra il 350 e il 370), il patrimonio si era decuplicato. La situazione economica generale della parte orientale dell’impero potrebbe aver permesso un rapido arricchimento delle classi proprietarie terriere. Difficilmente, tuttavia, ciò sarebbe avvenuto per la famiglia del Nisseno senza una buona amministrazione della madre che sopravvisse di molti anni al marito. Del resto, testimonianza palese della capacità delle vedove di mantenere, se non aumentare, il patrimonio ereditato è data dallo stesso Crisostomo, in una sezione del de viduitate tesa a rassicurare la donna di non aver bisogno di un secondo marito per proteggere il suo patrimonio97.
Tutte le ascete aristocratiche che abbandonarono Roma per vivere la loro vedovanza in Terrasanta dovevano avere, accanto all’eredità del marito vincolata ad essere trasmessa ai figli, un patrimonio personale, proveniente dalla famiglia paterna (di solito altrettanto nobile e facoltosa di quella dei consorti), che esse potevano amministrare in totale libertà. Possiamo credere che proprio questo esse portarono con sé, decise ad impiegarlo per attivare monasteri maschili e femminili, ospizi per pellegrini e altre fondazioni pie. Si trattò di semplice carità, o per alcune di loro rappresentò il modo di tutelare dei beni che, per specifiche contingenze, rischiavano di andar perduti? La predicazione ascetica del IV secolo, contrariamente all’immagine che spesso viene data della società tardoantica, non dovette avere risultati numericamente rilevanti fra l’aristocrazia. Nelle fonti potremo contare una quindicina di casi in tutto, nell’arco di circa un cinquantennio. Di molti di essi, perciò, è possibile ricostruire la situazione storica, ipotizzare le cause e gli sviluppi.
Non è nota alcuna diretta connessione fra la partenza da Roma di Melania seniore, verso il 374, e la serie di processi per adulterio, avvelenamento e magia che colpi uomini e donne dell’aristocrazia senatoria dopo il 37098. Più certo sembra, però, il rapporto fra il progressivo ritiro verso il Sud (prima in Sicilia e poi in Africa) della nipote, Melania la giovane, e lo stato di tensione e pericolo provocato nella capitale da Alarico. L’uccisione di Stilicone, le costituzioni emanate per ordinare la confisca dei beni dei suoi partigiani99, l’esecuzione di Serena100 sono stati variamente connessi con la scelta della giovane coppia di vendere tutto e abbandonare l’Italia.
Anche dietro la scelta ascetica di Therasia e Paolino si profila uno scenario di tragedia personale e politica. Prima di trasferirsi in Campania, essi
96 Gr. Nyss., Vita Macr. 20, SC 178 (ed. P. Maraval, Paris, 1971), pp. 206-209.
97 loh. Chrys., De vid. 4, 223-270.
98 Amm. Marc., 28, 1, 56.
99 J. Matthews (IVestem Aristocracies, cit., p. 290, n. 5) collega il tentativo di Pompeianus di confiscare le proprietà di Melania con la richiesta di fondi avanzata da Alarico.
100 Secondo E. A. Clark (The Life of Melania, cit., p. 104), la caduta di Serena può aver facilitato l’accusa di complicità portata contro la stessa Melania, favorendo l’azione di confisca dei suoi beni.



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avevano già dovuto lasciare l’Aquitania per la Spagna. La loro decisione, che è stata connessa con la morte violenta del fratello di Paolino, fu presa proprio all’indomani della sconfitta dell’usurpatore Massimo da parte di Teodosio: la relazione fra i fatti è destinata a rimanere ipotetica. In seguito al dramma familiare, comunque, Paolino stesso «riuscì a sfuggire alla pena capitale e alla confisca dei beni solo per l’aiuto di san Felice»101. C’era di che per decidere di vendere tutto, abbandonare la terra d’origine contaminata dall’eresia di Priscilliano e dall’usurpazione di Massimo e iniziare una nuova vita.
La liquidazione delle proprietà per alcuni di questi asceti comportò in genere pratiche complesse e molto estese nel tempo. Ancora dopo sette anni dalla loro partenza, Melania e Piniano poteva aspettarsi di ricevere dalla vendita delle ultime terre spagnole una somma sufficiente per organizzare il viaggio in Egitto. Se Paolino iniziò la vendita dei propri possedimenti già all’indomani del trasferimento in Spagna, nel 389, intorno al 394-395 il processo di alienazione non era ancora ultimato. E una prova della stagnazione del mercato della terra in età tardoantica, o dell’oculatezza con cui tali transazioni furono condotte? Le esortazioni rivolte da Gerolamo a Paolino fanno credere che l’urgenza di disfarsi dei beni terreni per seguire la nuova vocazione alla povertà non era stata per lui cosi forte da spingerlo a venderli incautamente o senza tener conto del miglior guadagno: «Festina, quaeso te... Nemo renuntiaturus saeculo bene potest vendere, quae contempsit ut venderei...»102.
Anche Melania e Piniano, pur nella pressione di una partenza provocata dall’incalzare di Alarico e dalla nuova compattezza di un senato che non tollerava eccentricità, si preoccuparono di non svendere i propri averi. Per quanto neppure la «regina» Serena fosse in grado di comprare al giusto prezzo la loro sontuosissima villa celimontana, a quanto pare essi non si risolsero ad abbassarlo. La casa, rimasta invenduta, fu incendiata dai barbari103. Se la V'ita si limita a commentare laconicamente l’evoluzione poco fruttuosa di tale potenziale affare, non è tuttavia muta sulla soddisfazione provata da Melania e Piniano per la tempestività con cui essi erano riusciti a liquidare le altre proprietà. Venduti i possedimenti in Roma, in Italia, in Spagna, in Campania, essi s’imbarcarono per l’Africa. «E subito Alarico arrivò sulle terre che essi avevano venduto. Ed essi, glorificando il Signore dicevano: Felici quelli che non hanno atteso l’arrivo dei barbari per vendere i propri beni»104.
La vocazione alla vita ascetica si sposò, in alcuni casi, con la necessità di tutelare patrimoni in pericolo, che rischiavano di essere confiscati o resi
101 P. Fabre, op. di., p. 33.
102 Hier., Ep. 53, 11, CSEL 54, pp. 464-465.
103 Vita Melaniae 14, ed. D. Gorce, SC 90 (Paris, 1962), pp. 154-156. Sull’appellativo di «regina» a Serena, cfr. M. A. Cavallaro, Intorno ai rapporti tra cariche statali e cariche ecclesiastiche nel basso impero: note storico-epigrafiche sul subiculariato, in «Athenaeum», 50, 1972, pp. 165 sgg. Sull’episodio, cfr. anche A. Giardina, Carità eversiva, cit., pp. 129-130.
104 Vita Mei. 19, 164.



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improduttivi dalle recenti invasioni. Gerolamo, cosi insistente nell’esor-tare i suoi potenziali protettori a non abbracciare la vita ascetica senza essersi prima totalmente disfatti dei propri beni, ordinò al fratello di vendere le sue proprietà solo quando la minaccia barbarica si fece imminente105.
Dalla vendita di terre sparse in tutto l’impero, uomini e donne dediti all’ascetismo ricavarono somme ingenti, una ricchezza che, prima di essere accumulata «tesoro inviolabile in cielo», fu ridistribuita e reimpiegata in Terrasanta. Allora, all’oculatezza della vendita, si aggiunse la circospezione del reinvestimento106. Di fatto, non sappiamo che cosa realmente significò per donne come le due Melanie, o per Paola, o per Olympias donare i propri beni alle varie chiese locali. Anche Melania, come Paola nel primo periodo, continuò a disporre di larghi mezzi per distribuire denaro ai monaci, fare viaggi, fondare monasteri. E tutto ciò anche dopo che essa aveva amato essere iscritta nella lista dei poveri della chiesa di Gerusalemme con la madre e il marito107. Si trattò di concessioni fiduciarie delle loro proprietà? I monasteri da loro fondati e «dotati di rendite» furono delle nuove unità economiche produttive, da cui esse ebbero altre rendite? Le fonti sono mute. Non una parola è spesa per dire come i monasteri furono concretamente organizzati, come riuscirono a sopravvivere e ampliarsi ospitando gruppi sempre più numerosi di asceti.
D’altra parte, nulla è detto nelle fonti per descrivere il tipo di autorità che Olympias, Paola, le due Melanie esercitarono sui loro monasteri. È tuttavia evidente che esse mantennero su quelli un totale controllo, trasmettendolo in via ereditaria a figlie o parenti108. La loro autorità non fu di tipo carismatico, né di tipo legale (secondo le categorie usate da Max Weber), bensì tradizionale-patriarcale, basata cioè sul loro status personale109. Tale status derivava loro dalla nascita aristocratica e, in misura non minore, dalla ricchezza che continuarono ad amministrare anche fra i Padri del deserto.
105 Hier., Ep. 66, 14, p. 665.
106 Vita Mei 20, 170.
107 Vita Mei 35, 194.
108 E. A. Clark, Authority and Humility: a Conflict ofValues in Fourth Centuiy Penale Monasticism, in Id., Ascetic Piety, cit., pp. 209-228.
109 Per la tipologia dei vari tipi di autorità, cfr. M. Weber, Economji and Society: An Outline of Interpretation Sociologi trad. inglese New York, 1968,1, p. 231; III, pp. 1006-1008. Egli, tuttavia, caratterizza come carismatica l’autorità dei fondatori dei movimenti religiosi (I, pp. 241-245; III, pp. 1111-1120). Per una critica alla nozione weberiana di autorità carismatica, cfr. B. Holmberg, Paui and Power. The Structure of Authority in thè Primitive Church as Reflected in thè Pauline Epistles, Lund, 1978.