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Title
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Storia degli ebrei in Italia e storia d'Italia
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Creator
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Corrado Vivanti
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Date Issued
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1990-04-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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31
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issue
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2
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page start
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349
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page end
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393
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Studi Storici © 1990 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20231101193827/https://www.jstor.org/stable/20565391?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1990%26ed%3D1990%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Af39d853e4fbaecee83912b1fc5a59c0c
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Subject
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sexuality
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religion
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extracted text
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Storia degli ebrei in Italia e storia d'Italia
Corrado Vivanti
PerA.D.M. (Job. 8.8-10)
In alcune pagine del suo recente libro sui «taccuini di lavoro» di Croce, Gennaro Sasso discute con riguardosa cautela l’atteggiamento del grande pensatore verso gli ebrei, ricordandone anzitutto la «preoccupata attenzione» per la loro sorte fin dall’avvento al potere di Hitler in Germania1. Di «quella stoltezza che si chiama antisemitismo» già nella Storia d’Italia aveva rilevato l’incongruenza per la pretesa - dopo che con le persecuzioni era stata rafforzata «la separazione e la solidarietà degli ebrei contro le altre genti» - di domare le conseguenze di quelle persecuzioni con la ripresa delle persecuzioni, cioè col riprodurre la causa del male»2. Negli anni seguenti Croce ebbe modo di manifestare anche pubblicamente la sua sollecitudine per gli ebrei. «Eppure -nota Sasso - nel dopoguerra egli fu al centro di una polemica che [...] lo contrappose ad alcuni scrittori israeliti» per avere sostenuto che gli ebrei avrebbero dovuto cercare di «fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli, e che come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire»3.
Una «stravaganza», avrebbe definito tale opinione Arnaldo Momigliano, che la imputò alla «mancanza di qualsiasi contatto con la cultura ebraica» da parte di Croce4. E a tale «mancanza» è verosimilmente da attribuire l’altra sua asserzione, che gli ebrei «non riconoscono [...] le origini storiche della nostra civiltà e a loro ripugna la nostra storia che non è storia loro»5. In ogni modo, il consiglio
1 G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, 1989, PP - 179 sgg.
2 B. Croce, Storia dTtalia dal 1871 al 1914, Bari, 1928, p. 97
3 Sasso, 1 Taccuini, cit., pp. 180 e 185 (per la citazione di Croce).
4 A. Momigliano, Storie e memorie ebraiche del nostro tempo (1980), in Id., Pagine ebraiche, a cura di S. Berti, Torino, 1987, pp. 143-151 (cfr. in particolare p. 147: «Era dunque per affetto e simpatia che Croce si lasciava andare a siffatta stravaganza [...] Solo la mancanza di qualsiasi contatto con la cultura ebraica può spiegare che persino Benedetto Croce non riuscisse a capire che gli ebrei italiani hanno il diritto - che soggettivamente può essere dovere - di rimanere ebrei»).
5 B. Croce, in «Quaderni della Critica», n. 14, luglio 1949, p. 39. Ma già nel 1918, in La storicità e la perpetuità dell'ideologia massonica, Croce aveva scritto che esisteva «la realtà di una “questione semitica’’» e che era compito degli ebrei trovarvi soluzione «col cercar di mettersi a paro della più alta cultura e del più alto pensiero raggiunti dalla civiltà classico-cristiano-europea, e col formarsi, essi antistorici, essi vissuti per secoli fuori della storia, una mente storica» (cfr. Sasso, 1 Taccuini, cit., p. 182). C’è da domandarsi se non sia da mettere in rapporto con tale valutazione
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del filosofo napoletano «di cancellare quella distinzione e divisione» non era estemporaneo, né dettato dalla reazione emotiva alle notizie dello sterminio perpetrato dai nazisti: già nel passo della Storia d'Italia sull’antisemitismo aveva espresso la speranza di un superamento della diversità ebraica attraverso la «lenta e sicura opera agguagliatrice dell’intelligenza e della civiltà».
D’altra parte, secondo Sasso, Momigliano aveva formulato un giudizio in qualche modo in sintonia con le idee di Croce - addirittura riecheggiando una pagina della Storia d’Europa nel secolo decimonono - quando considerò la peculiarità ebraica alla stregua di una delle «caratteristiche regionali» italiane. In un’importante, seppur breve recensione - ripubblicata ancora nell’ultima sua raccolta di scritti, Pagine ebraiche -, Momigliano aveva infatti osservato che «la formazione della coscienza nazionale negli ebrei [italiani] è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi, nei napoletani e nei siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo». Precisava pertanto: «Come dal XVII al XIX secolo, a prescindere dalle tracce anteriori, i piemontesi e i napoletani si sono fatti italiani, cosi nel medesimo tempo gli ebrei abitanti in Italia si sono fatti italiani»6.
A ben considerare, era questa un’ipotesi sostanzialmente diversa dall’auspicio formulato da Croce, in quanto questi non pensava a un processo storico già compiuto, ma rivolgeva le sue attese, per gli ebrei, al futuro, quando fosse maturata quella tendenza all’unità umana (alla menschliche Einheit, per dirla con Sasso), prospettata, secondo una visione derivata dal pensiero illuministico, come obiettivo della civiltà universale7. Per parte sua, Momigliano - e l’avrebbe coerentemente dimostrato anche in altri studi - rilevava il persistere di «peculiarità ebraiche» in ambienti e personalità che, per i loro interessi culturali e gli sviluppi della società in cui erano inseriti, avrebbero potuto essere indotti a cancellare ogni distinzione dovuta alle loro origini. Si può notare che l’ipotesi di Momigliano è rimasta fino ad oggi allo stato di enunciazione, e se «questa lenta, ma infine risoluta conquista di una coscienza italiana [è] facile a documentarsi», nondimeno una ricerca specifica gioverebbe a precisarne i termini. I problemi in campo sono abbastanza controversi e proprio su quell’arco di tempo sono particolarmente lacunosi gli studi recenti8.
di «astoricità» il silenzio, nella Scoria de/ Regno di Napoli, sugli ebrei e sulla loro espulsione ai tempi della dominazione spagnola.
6 A. Momigliano, recensione a C. Roth, Gli ebrei a Venezia, Roma, 1933, in «La Nuova Italia», 20 aprile 1933, ora in Pagine ebraiche, cit., pp. 237-239; alle pp. 241-242 viene riportata la nota redatta da Gramsci nei Quaderni del carcere (pp. 1800-1801 dell’edizione critica) per approvare le osservazioni di Momigliano. A proposito di queste, Sasso rileva (pp. 197-198) l’«implicito, ma chiaro accenno» alle pagine conclusive della Scoria d'Europa nel secolo decimonono di Croce (si veda in particolare p. 354).
7 Sasso, I Taccuini, cit., p. 186.
8 Anche la grande indagine di Shlomo Simonsohn (cui si accenna più avanti) si arresta alle soglie dell’età contemporanea. Alcuni studi mostrano l’interesse e l’ampiezza delle ricerche da affrontare: si veda S. Caviglia, Dal ghetto alla città. Gli ebrei romani dal 1870 al XX secolo, in Aa. Vv., Itinerari ebraico-cristiani. Società, cultura, mito, Roma, 1987, pp. 229-237; M. Livi Bacci, Ebrei, aristocratici e cittadini: precursori del declino della fecondità, in «Quaderni storici», n. 54, 1983, pp. 913-939; S. Della Pergola, Aspetti e problemi della demografia degli ebrei nell’epoca preindustriale, in Gli ebrei a Venezia. Secoli XIV-XVIII. Atti del Convegno internazionale
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Senza dubbio si conoscono vari episodi e documenti che attestano il manifestarsi di quel processo, e parimenti è noto che nel periodo postrisorgimentale si celebrò la lotta d’indipendenza italiana per aver consentito 1’«emancipazione» degli ebrei: in effetti la loro liberazione dallo stato di emarginazione e oppressione in cui erano stati ridotti, e che ebbe quasi a simbolo (oltre che a strumento) i ghetti, ebbe luogo parallelamente al grande moto liberale. E come il Risorgimento nazionale italiano derivava storicamente dalle idee di libertà e di eguaglianza sviluppatesi nel secolo XVIII e affermatesi con la rivoluzione francese, cosi questa medesima matrice era riconosciuta all’emancipazione ebraica. Si può anzi supporre che quando taluni pensatori e politici democratici dell’Ottocento asserivano che la liberazione di una popolazione oppressa avrebbe avuto effetti liberatori per l’oppressore stesso, muovessero anche da una riflessione sulla «questione ebraica».
Ma per tornare agli ebrei d’Italia, proprio alle positive conseguenze che ebbe nei loro riguardi il movimento nazionale si deve la loro adesione sincera e appassionata ai valori risorgimentali: questi vennero identificati infatti con le garanzie stesse dei loro diritti e della loro parificazione agli altri cittadini dello Stato unitario. E poiché tali garanzie erano conseguenza di quelle assicurate dallo Statuto di Carlo Alberto, la venerazione per Casa Savoia si radicò a fondo negli ebrei. «Questo spiega - ha scritto argutamente Momigliano9 - perché mia nonna piangeva ogni volta che sentiva la Marcia reale, l’inno della monarchia italiana, e se si può piangere per una musica cosi atroce, si può piangere per qualsiasi cosa». Per la verità, quasi ogni ebreo credo abbia avuto qualche avo pronto a commuoversi per quelle note e comunque all’evocazione del re d’Italia: finché nel 1938 Vittorio Emanuele III non liquidò insieme quelle garanzie e questa venerazione, apponendo la propria firma alle leggi razziali fasciste.
Tuttavia altre precisazioni sembrano necessarie. Lo stesso Momigliano, ad esempio, nel discutere (e negare) l’applicabilità agli ebrei della definizione di «popolo paria» coniata da Max Weber, ricorre più di una volta alla locuzione: «gli ebrei credenti». Ora, nel nostro tempo, credenza religiosa ed ebraismo (o, se si vuole, ebraicità) non hanno più coinciso. Almeno fin dalla metà del secolo XIX, nell’occidente d’Europa «gli ebrei - ha osservato Isaiah Berlin -presentavano uno spettacolo quanto mai anomalo», proprio perché era diffìcile definirli «alla luce di concetti quali nazione, razza, associazione, religione o con gli altri termini che servono comunemente a descrivere gruppi coerenti di un certo tipo ereditario o tradizionale»10. E certo vero che «quando nei tempi moderni subivano discriminazioni o persecuzioni, nella maggior parte dei casi non erano le loro pratiche religiose la causa principale dell’odio», e significativamente
organizzato dall'Istituto di storia della società e dello stato veneziano della Fondazione Cini, a cura di G. Cozzi, Milano, 1987, pp. 201-209- Fra i rari studi di storia della cultura e della mentalità, da segnalare A. Caracciolo, Una diaspora da Trieste: i Fesso nell’Ottocento, in «Quaderni storici», n. 54, cit., pp. 897 sgg.
9 A. Momigliano, Gli ebrei d’Italia (1985), in Pagine ebraiche, cit., p. 134.
10 I. Berlin, Impressioni personali, a cura di H. Hardy, Milano, 1989, p- 54 (dal saggio Chaim Weizmann del 1958).
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i loro avversari appartenevano a tendenze nazionalistiche. Del pari significativo è il fatto che la più importante corrente di pensiero ebraico contemporaneo, il sionismo, abbia identificato l’ebraismo con l’idea moderna di nazione, assumendo invece, nei confronti delle antiche credenze, atteggiamenti agnostici e prendendole in considerazione soltanto come patrimonio culturale11. Ciò comportò che, in quanto movimento nazionale, il sionismo offri una soluzione solo a coloro che ad esso aderirono e, a maggior ragione, dopo la costituzione dello Stato d’Israele, soltanto agli ebrei che ne sono divenuti cittadini potè essere applicato il principio di nazionalità. Come valutare allora il fatto che molti si sono considerati ebrei, pur non essendo credenti e pur respingendo l’idea di una nazione ebraica?
Valga ad esempio la nota dichiarazione di Freud (citata anche da Sasso in una rassegna delle opinioni e dei giudizi espressi da alcuni grandi intellettuali sull’ebraismo)12: egli, pur ignorando la «lingua sacra» ed essendo «estraneo alla religione dei padri» e non condividendo «ideali nazionalistici», non rinnegava «l’appartenenza al proprio popolo», anzi sentiva «come ebraico il suo particolare modo di essere», talché se gli si fosse domandato: «Che cosa c’è ancora di ebraico in te?», avrebbe risposto: «Moltissimo, probabilmente la cosa principale». Una posizione analoga, portata fino ai limiti del paradosso, venne sostenuta dallo storico tedesco Ernst Kantorowicz nella lettera indirizzata nell’aprile del 1933 al ministro dell’Educazione nazionale di Hitler, per motivare le sue dimissioni dalla cattedra universitaria. La sua fedeltà alla causa nazionale tedesca - asseriva - non era da mettere in discussione: la attestavano il suo arruolamento come volontario nel 1914, la sua partecipazione alla repressione del moto spartachista di Berlino e della repubblica dei Consigli di Monaco nel 1919, la sua opera scientifica, il suo «atteggiamento fondamentalmente entusiasta verso un Reich diretto in senso nazionale». Non pensava pertanto di dover «essere spogliato del suo incarico per la sua ascendenza ebraica». Tuttavia concludeva: «Io, come ebreo, sono costretto a trarre determinate conclusioni da quello che sta accadendo». E poco dopo aver rinunziato alla cattedra, abbandonava la Germania13.
Anche senza arrivare a questa forma, drammaticamente aberrante, di «doppia appartenenza», un forte sentimento nazionale per il paese in cui abitavano e la coscienza della propria ebraicità convissero in molti ebrei nell’arco di tempo che va dalla seconda metà del secolo scorso ai primi decenni del Novecento. Qualcuno, come Alessandro D’Ancona, accentuava in senso etico il vincolo familiare e, nel riferirsi agli ebrei, si diceva loro «correligionario», spiegando:
11 Sul pensiero dei maggiori esponenti del sionismo, un’utile rassegna in Sh. Avineri, The making of modem Zionism. The intellectual origins of thè Jewish State, New York, 1981.
12 Sasso, I Taccuini, cit., pp. 186 sgg. (in particolare p. 203). Si veda il testo di Freud in Totem e tabu, Torino, 1969, p. 27. Sull’argomento da segnalare F. Trincia, Religione, ebraismo e storia in Freud: un contributo filosofico alla ricerca storica, in Itinerari ebraico-cristiani, cit., pp. 297 sgg.
13 Cfr. A. Boureau,IwWaw»^aE. H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, 1989, pp. XVI-XVII. Per il testo della lettera di Kantorowicz, Boureau rinvia a R. E. Giesey, Ernst H. Kantorowicz. Scholarly Triumph and Academic Travails in Weimar Germany and thè United States, 1985.
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«Dico correligionario, sebbene non professi nessun culto esterno, e non connazionale, come taluno affetta di dire: poiché non so delle goccie del sangue, ma dei sensi e del cuore e della tempra dell’animo e della mente posso affermare che nulla vi è in me che non sia italiano». E continuava: «Dell’essere israelita mi ricordo solo quando altri me lo dica e creda rinfacciarmelo», e quando sentiva delle vessazioni a cui soggiacevano ebrei di altri paesi. Allora pensava «che sarebbe viltà rifiutare un nome che i miei vecchi mi hanno trasmesso senza volersene essi spogliare per minacce, persecuzioni e condanne»14.
Altri, persino quando parlava degli ebrei come nazione, appariva mosso a ciò dalla forza che tale concetto aveva assunto nel secolo XIX, ma lo usava senza condividere posizioni in qualche modo ricollegabili al sionismo. È il caso di Salvatore Besso che, in una lettera al figlio, scriveva: «La nostra Pasqua assomiglia perfettamente al Te Deum degli americani per la loro indipendenza [...] Se noi non l’avessimo osservata come festa religiosa durante 34 secoli, non saressimo più nazione, ma immischiati cogli altri popoli»15. Riflessioni come questa inducono a pensare che l’ebraismo sia stato vissuto come fatto di cultura, nel senso antropologico del termine, fino a spiegare l’attaccamento a festività e riti anche da parte di ebrei non credenti. Sarebbe errato ignorare simili atteggiamenti, diffusi fra coloro che sono stati detti ebrei «assimilati», perché trascureremmo una componente importante dell’ebraismo contemporaneo o finiremmo col giudicarlo passivamente subalterno alle spinte culturali della società moderna. In tal modo si corre il rischio di non capire più il rapporto fra l’ebraismo dei nostri tempi e quello di età più remote, considerando il primo come irrimediabilmente segnato da una spezzatura profonda con la tradizione.
Seppure in forma empirica, la ricerca storica può offrire alcune risposte, senza dubbio indirette, eppure capaci di prospettare delucidazioni a taluni problemi che sono stati evocati. In questi ultimi anni i contributi si sono moltiplicati, rivelando l’interesse crescente per le vicende degli ebrei in Italia16. Nel cercare
14 Lettera di Alessandro D’Ancona a Ruggero Bonghi del 2 settembre 1891 (inedita, conservata presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, e gentilmente comunicatami, per interessamento dell’amico A. Stussi, dalla dott. Lida Maria Gonelli, che desidero ringraziare). La lettera conclude: «Ringrazio il cielo di esser nato in tempi e in luoghi in che, invece di vegetare facendo l’arte del cambio, a cui sarei inetto, o peggio commerciando e rivendendo roba vecchia, ho potuto vivere amando e non odiando chi mi sta attorno, e adoperare in vantaggio della mia patria e della cultura nazionale quel poco d’ingegno e di operosità che Dio mi ha concesso».
15 Caracciolo, Una diaspora da Trieste, cit., p. 902. In quale senso sia da intendere il termine «nazione» in questi testi appare chiaro da un passo delle memorie del figlio Marco Besso {Autobiografia, Roma, 1925, p. 8): criticando «certe pratiche degli israeliti» di carattere religioso, egli le giudicava comprensibili «in tempi andati, intese a mantenerli in un compatto corpo nazionale di comune e reciproca difesa, quando da ogni nazione erano reietti»; ma ormai le considerava «non [...] più conciliabili con la loro fusione nella vita sociale e pubblica dei paesi civili».
16 Si veda Sh. Simonsohn, Lo stato attuale della ricerca storica sugli ebrei in Italia, in Italia Judaica. Atti del I Convegno internazionale: Bari 18-22 maggio 1981, Roma, 198 3, pp. 2 9 sgg. Simonsohn si riferisce a G. Gabrieli, ItaliaJudaica, Roma, 1924; A. Milano, Bibliotbeca histonca italo-judaica, Firenze, 1954, e Id., Supplemento 1954-1963, Firenze, 1964; D. Carpi, A. Luzzatto
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di dare qualche ragguaglio su alcuni recenti studi riguardanti le loro vicende fra Medioevo e prima Età moderna, devo avvertire che tralascerò - per insufficiente conoscenza linguistica - le pubblicazioni in ebraico, nonostante il loro valore, non di rado assai notevole. Anche senza ricordare specificamente i lavori in ebraico di studiosi quali Roberto Bonfil, Daniele Carpi, Giuseppe Sermoneta, Shlomo Simonsohn, Ariel Toaff, basti citare le riviste «Italia», dell’Università ebraica di Gerusalemme, e «Michael», del Diaspora Research Insti tute dell’Università di Tel Aviv (peraltro con articoli anche in italiano), che da sole attestano l’importanza delle iniziative e la qualità dell’impegno scientifico di un ragguardevole numero di studiosi israeliani. Per il momento, posso solo formulare l’augurio che altri, più qualificato e meglio dotato, voglia dare un’ampia informazione su quell’intenso lavoro storiografico, che arriva a illuminare da nuovi scorci la stessa storia d’Italia.
Ab Jove principium... Cominciamo dunque dalla grande iniziativa di Shlomo Simonsohn, A documentary history of thè Jews oflta/y, intrapresa nell’ambito delle pubblicazioni del Diaspora Institute. Fino ad oggi ne sono apparsi sei volumi, quattro concernenti il ducato di Milano, curati dallo stesso Simonsohn, e due (su tre) per il Piemonte, a cura di Renata Segre. Sono in preparazione i volumi riguardanti la Sicilia, la Toscana, l’Umbria e Roma. Alla fine disporremo di un vastissimo materiale, presentato con scrupolo e competenza esemplari, che documenterà attraverso le fonti d’archivio il passato delle comunità ebraiche in quelle parti d’Italia, dal Medioevo ai tempi moderni, fino all’emancipazione promossa dagli eserciti rivoluzionari francesi.
I criteri adottati per quest’opera, già oggi imponente, prevedono un’ampia introduzione storica e il regesto o, nei casi più importanti, la trascrizione testuale dei documenti reperiti, debitamente annotati. Naturalmente i risultati variano a seconda della qualità e quantità delle testimonianze pervenuteci: è chiaro che la Sicilia presenterà peculiarità diverse da altre regioni dove la permanenza degli ebrei si è protratta oltre il 1492. Ma già nei volumi da lui curati, Simonsohn rileva differenze non trascurabili rispetto a quelli pubblicati da Renata Segre17.
Sarà opportuno ricordare che l’impresa di Simonsohn ha, come antecedente, il suo libro sugli ebrei di Mantova18, nonostante le diverse caratteristiche di quest’opera. Con essa lo studioso israeliano si era proposto di ricostruire la storia di tale comunità, per molti aspetti non meno importante di quelle di
e M. Moldavi, Bibliotheca italo-ebraica. Bibliografia per la storia degli ebrei in Italia. 1964-1973, Roma, 19 81. Ora A. Luzzatto ha pubblicato Biblioteca italo-ebraica. Bibliografia per la storia degli ebrei in Italia. 1974-1983, Milano, 1989. Da tali bibliografìe risulta che fra il 1924 e il 1954 furono pubblicati - fra articoli, saggi e libri - non meno di 1.600 titoli; nel ventennio successivo, 3.350, e negli ultimi dieci anni, 2.396.
17 «The earlier documents in Piedmont which bave survived are to a large degree records of Treasury, much more so than in Milan. Whereas documents such as ducal correspondence and administrative directives abound for thè Jews in thè Duchy of Milan, there are relatively fews of these for Piedmont» (prefazione a R. Segre, The Jews in Piedmont, Jetusaìem, 1986, voi. I, p. V).
18 Sh. Simonsohn, History of thè Jews in thè Duchy of Man tua, Jerusalem, 1977 (traduzione dell’edizione in ebraico del 1962).
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Roma o di Venezia, eppure fino allora meno conosciuta. Vero è che il lavoro -come si riconosceva nell’introduzione - era stato facilitato e in qualche modo sollecitato dagli studi di Vittore Colorni, che, muovendo dalla storia giuridica, si era impegnato fin dagli anni Trenta in ricerche di vasto orizzonte, attente peraltro «con particolare riguardo» alla vita della comunità mantovana19. Tuttavia non esisteva ancora una storia generale come quella intrapresa da Simonsohn, che ha utilizzato a tale scopo una massa sterminata di materiali archivistici (circa 120 mila pezzi, fra le carte dell’Archivio Gonzaga e quelle dell’Archivio della comunità israelitica): ciò gli ha permesso di ricostruire a grandi linee le vicende politico-amministrative, l’attività economica, la vita religiosa e culturale. Lo scrupolo di mettere a disposizione degli studiosi le fonti stesse, e insieme la difficoltà di soddisfare le esigenze documentarie con l’elaborazione coerente di notizie riguardanti gruppi spesso dispersi in vari centri, con scarsi rapporti fra loro e non di rado, almeno per i tempi più remoti, senza una continuità nelle testimonianze, hanno imposto una scelta «editoriale» differente da quella adottata per Mantova, e precisamente quella che, come si è detto, presiede alla Documentary History.
Un’iniziativa diversa, ma pur sempre dettata da intenti documentari, è quella promossa dall’Istituto dei Beni culturali dell’Emilia-Romagna, che ha voluto dare un panorama della presenza ebraica in quella regione, dal Trecento al 186020. Ci viene offerta cosi, attraverso un primo lavoro di scavo, una serie di utili ragguagli sui «ghetti, giudecche, case dell’ebreo», ossia sugli insediamenti urbani ebraici attestati in trentadue centri, grandi e piccoli (da Cortemaggiore a Rimini, scendendo lungo l’asse della via Emilia), e sulle sinagoghe e sui cimiteri relativi. A questa prima parte fanno seguito le schede riguardanti argenti e arredi del culto, oggetti rituali e suppellettili domestiche reperiti nella regione. Infine viene data descrizione dei manoscritti e dei libri a stampa conservati nelle biblioteche dell’Emilia-Romagna, degli atti pubblici concernenti gli ebrei, degli statuti delle comunità, e il volume è completato da una rassegna sulla tipografia ebraica attiva nella regione, a cura di Giulio Busi. Di questo studioso è poi stata pubblicata a parte un’utilissima bibliografia delle cinquecentine ebraiche conservate nelle biblioteche emiliane e romagnole21. Nell’introduzione al volume si dichiara di aver voluto «produrre un sussidio documentario per una storia che deve ancora essere scritta». In effetti il lavoro è
19 Mi riferisco a uno dei primi studi di V. Colorni, Prestito ebraico e comunità ebraiche nell’Italia centrale e settentrionale, con particolare riguardo alla comunità di Mantova, in «Rivista di storia del diritto italiano», 1935, ora in là., Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna, Milano, 1983, pp. 205-255. In tale studio Colorni rilevava il formarsi delle comunità ebraiche nell’Italia centro-settentrionale fra i secoli XIV e XV dal confluire di tre correnti migratorie: da Roma, dalla Germania e dalla Francia.
20 Aa.Vv., Cultura ebraica in Emilia-Romagna, a cura di S. M. Bondoni e G. Busi, Luise ed., 1987, p. 15. D’altra parte si veda il catalogo preparato per la mostra tenutasi a Ferrara e a San Francisco Arte e cultura ebraiche in Emilia-Romagna/Jewish Art and Culture in Emilia-Romagna, a cura dell’Istituto per i Beni culturali della Regione Emilia-Romagna e del Jewish Community Museum di San Francisco, Milano, 1989-
21 G. Busi, Edizioni ebraiche delXVI secolo nelle biblioteche dell’Emilia-Romagna, Ed. Analisi, 1987.
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stato avviato «su numerose direttrici e differenti livelli di scavo», in modo da tener conto di «svariati tipi di fonti e dei diversi luoghi fisici nei quali è possibile trovare materiali ebraici». Sarà il caso di ricordare l’indicazione che Sofia Boesch Gajano e Michele Luzzati avevano dato presentando nel 1983 il fascicolo di «Quaderni storici» dedicato a Ebrei in Italia: anche da parte loro si rilevava l’esigenza di svolgere ricerche ad ampio raggio, tenendo presenti non solo le fonti pubbliche, ma anche carte notarili, documenti privati ecc.22. Nella diversità d’impostazione della ricerca, rispetto a quella organizzata da Simonsohn, è da vedere probabilmente, prima ancora che una diversa concezione della storia, una maggiore attitudine a conformarsi alla varietà dei «documenti e monumenti» propria di queste indagini particolari e non sistematiche: la vastità documentaria dell’una è, in questo caso, compensata da un’articolazione problematica più complessa, che consente di meglio discernere nelle sue particolarità la vita quotidiana, anche attraverso le varie relazioni con la società cristiana circostante, di là dall’ambito dei rapporti ufficiali e delle pratiche giuridico-politiche.
In tal senso, già il volume sulla cultura ebraica in Emilia-Romagna è rivelatore dei molteplici aspetti che presenta una documentazione cercata anche fuori dagli archivi pubblici. Se non avrebbe senso negare o sottacere la separatezza fra i due gruppi di popolazione e i loro contrasti, latenti o palesi, è anche vero che il nostro interesse non può non essere sollecitato dalle opportunità e dai modi di convivenza e di interazione esistenti fra ebrei e non ebrei, di là dalle relazioni intercorse fra le comunità e il potere. Ciò non significa che si possa trascurare il monito di Sermoneta nei riguardi di tali «incontri». L’eminente studioso ha infatti osservato come questo termine possa originare «associazioni mentali errate» e suggerire «l’immagine di due entità che, essendosi trovate -per una serie di contingenze - a sedere intorno a un desco comune, si scambino fra loro dei piatti e si trovino a gustare reciprocamente Luna della cucina dell’altra»23. I rapporti, i contatti, gli scambi, soprattutto in ambito culturale, devono essere considerati sotto ben altra luce: l’incontro, «in quanto uomini - uniti in una sola e universale condizione umana - consiste nell’essere gettati insieme dentro una sola corrente cronologica o temporale, dentro un unico crogiuolo storico, in un ininterrotto dinamismo, nel quale, vivendo, si creano reciproci fenomeni di distacco, di unione e di successivi allontanamenti e riunioni».
È stato obiettato che l’insistenza con cui ci si riferisce a un presunto «felice inserimento dei gruppi ebraici nella società non ebraica dell’Italia medievale e rinascimentale» porta a esagerare l’integrazione dell’ebraismo italiano fino a immergerlo «in un’atmosfera generale di “volemose bene”»24. Roberto Bonfil
22 «Quaderni storici», n. 54, cit., p. 779.
23 G. Sermoneta, L’incontro culturale tra ebrei e cristiani nel Medioevo e nel Rinascimento, in Ebrei e cristiani nell’Italia medievale e moderna: conversioni, scambi, contrasti. Atti del VI Congresso internazionale dell’AISG, San Miniato 4-6 novembre 1986, a cura di M. Luzzati, M. Olivari e A. Veronese, Roma, 1988, pp. 183-184.
24 R. Bonfil, Società cristiana e società ebraica nell’Italia medievale e rinascimentale: riflessioni sul significato e sui limiti di una convergenza, in Ebrei e cristiani, cit., pp. 238 e 244.
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ha ripetutamente contestato le interpretazioni di una storiografia che tenderebbe a rappresentare in termini di idillio una «armonica simbiosi tra ebrei e cristiani», anticipatrice addirittura «dell’illuminata emancipazione che il mondo europeo conobbe solo tre secoli più tardi»25. Vi è indubbiamente una forzatura polemica in queste osservazioni, ma è senz’altro da accogliere il rifiuto di una visione ideologizzante per cui si arriverebbe paradossalmente a sostenere che «la storia ebraica può assumere carattere positivo solo negando se stessa, cioè cessando di esistere», cosi che «dopo che per secoli l’ebreo ha lottato per aver diritto ad esistere, sarebbe ora la sua storia a lottare per garantire la legittimità della propria esistenza»26. Se si concorda con Momigliano nel giudicare una «stravaganza» l’auspicio formulato da Croce di veder cancellata «quella distinzione e divisione» in cui gli ebrei «hanno persistito per secoli», tanto più sarebbe assurdo considerare come già avvenuta in un lontano passato quella fusione o almeno «presentare la storia degli ebrei in Italia nel Medioevo e nel Rinascimento come storia di un’integrazione interrotta, di un’assimilazione mancata»27. A ciò si opponevano ostacoli che non derivavano soltanto da abitudini o modi di vita locali, ma da istituzioni potenti, politiche e religiose, con il loro armamentario naturalmente repressivo.
Il problema è un altro. Come non avrebbe senso, in sede di giudizio storiografico, dare un parere «essenzialmente positivo» sul fenomeno di «integrazione-acculturazione-assimilazione» in quanto tale, cosi sarebbe riduttiva una ricostruzione storica che guardasse alle vicende di quei secoli calcando sulla «differenza» e sulla reciproca estraneità dei due gruppi di popolazione. Proprio il loro grado di «permeabilità», e insomma lo stato dei loro rapporti consentono di capire quelle società, il loro dinamismo o il loro irrigidimento: in altri termini, la loro maggiore o minore ricchezza etica e la loro apertura culturale. In effetti, una società che si chiude ed esclude, rivela inevitabilmente debolezze interiori, che non possono tuttavia essere valutate a fondo quando si assuma come testimonianza privilegiata l’ideologia di epoche raramente caratterizzate dalla tolleranza, e si trascurino invece «avanzi» e «monumenti» anche della vita materiale. Ci si precluderebbe la comprensione del passato, qualora si stabilisse aprioristicamente una gerarchia di valori che attribuisse un primato alle «idee», astrattamente intese, a detrimento di altre manifestazioni e di altri prodotti dell’esistenza umana. Già Droysen avvertiva: «Ogni cosa che reca le tracce dello spirito e della mano dell’uomo può venire usata dall’indagine»28. Cosi, per limitarci a un facile esempio, gli oggetti illustrati nel volume dell’Emilia-Romagna, di là dalla loro funzione rituale o domestica (sempre peculiarmente ebraica), rispondono al gusto dell’epoca, tanto che su tale caratteristica può fondarsi, se necessario, la loro datazione. Presentano insomma forme stilistiche e moduli decorativi corrispondenti a quelli che ricorrono nell’arte della società in cui gli ebrei erano in qualche modo inseriti, e gli
25 Ivi, p. 232.
26 Ivi, p. 236 e p. 243 nota 38.
27 Ivi, p. 235.
28 G. Droysen, Isterica. Lezioni sulla enciclopedia e metodologia della storia, Milano-Napoli, 1966, p. 39.
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oggetti stessi del culto, in cui più gelosamente si conservano valori e modalità tradizionali, riflettono chiaramente gli influssi estetici del tempo29. Che non si tratti semplicemente di «influssi» passivamente subiti o di acculturazione a senso unico è da scorgere nella perfetta fusione di forma e contenuto, dove questo porta con sé una tradizione plurisecolare, ricca anche di simbologie espressive.
Un bel saggio di Acanfora Torrefranca su Salomone de’ Rossi ha illustrato l’uso della musica nella liturgia sinagogale, accennando all’aspra polemica che su tale problema si svolse ancora fra tardo Cinquecento e primo Seicento30. Erano gli anni in cui anche la Chiesa post-tridentina si preoccupava di disciplinare e restringere la libertà dell’espressione artistica, paventando la penetrazione nella sfera del sacro di modi di pensare e di valori considerati estranei e persino contrari alla religiosità31: è una corrispondenza di intenti e di preoccupazioni che meriterebbe di essere meglio scandagliata. Naturalmente l’atteggiamento dei rabbini si ispirava, oltre che a considerazioni prudenziali (le autorità ecclesiastiche, e per conseguenza quelle politiche, non avrebbero tollerato che gli inni ebraici risuonassero fuori dalle mura delle sinagoghe), ai principi particolari della loro fede: non solo erano contrari all’uso di strumenti musicali nella festività del sabato in ossequio alle norme sul riposo prescritto per quel giorno, ma temevano anche possibili infrazioni di carattere teologico32. Inoltre un comportamento severo era, a loro parere, imposto dal monito di Osea: «Non rallegrarti, Israele, e non gioire come i popoli» (9-1). La distruzione del Tempio, la dispersione e l’esilio non consentivano manifestazioni di letizia eccessive, come quelle cui la musica avrebbe potuto dar luogo. Meriterà allora rilevare alcune osservazioni di Acanfora Torrefranca a proposito dell’accompa-
29 Mi sembra troppo sommario il giudizio che di tali fenomeni viene dato da R. Bonfìl, Società cristiana, cit., p. 257, quando giudica «più che naturale che [l’ebreo] si dilettasse di quello che la gente considerava bello e attraente, che cercasse di vestire alla moda, che adottasse usi e costumi che in tutta coscienza non gli sembravano in antitesi con la normativa religiosa». Quanto meno tutto ciò attesta una consonanza di modi di vita e di vedere, che non sempre si verifica anche in comunità legate da altre forme di esistenza. Vi sono gruppi etnici che mantengono scrupolosamente consuetudini diverse da quelle della società circostante: un esempio ovvio, gli ebrei che conservano abitudini vestimentarie (e altro ancora) proprie dell’Europa orientale in paesi e climi affatto differenti, come Israele.
30 M. Acanfora Torrefranca, «I Canti di Salomone» di Salomone de’ Rossi: una confluenza di tradizioni italo-ebraiche, in Italia Judaica. Gli ebrei in Italia dalla segregazione alla prima emancipazione. Atti del III Convegno internazionale. Tel Aviv 1^-20 giugno 1986, Roma, 1989, pp. H5-Ì33. ... .
31 Nel Decreto delle cose da osservarsi ed evitarsi nella celebrazione della Messa, votato nella Sessione XXII del Concilio di Trento (17 novembre 1562) si stabiliva: «Dalle chiese poi rimuovano [i vescovi] quelle musiche ove si mischia qualche cosa lasciva o impura, o nell’organo o nel canto, inoltre tutte le azioni secolaresche, i vani e profani colloqui, sicché la casa di Dio veramente appaia esser casa d’orazione».
32 Acanfora Torrefranca ricorda ad esempio la polemica scoppiata nel 1645 a Senigallia a proposito di un canto corale in cui veniva ripetuta quattro volte la parola Keter (corona), e spiega: «Nella tradizione della Qabalàb, la corona (Keter, appunto) è la prima delle dieci Seflròt o emanazioni del Signore. La sua ripetizione, quindi, oltre ad evocare la divinità, ne mette in questione l’unità assoluta». Su ciò rinvia a I. Adler, La pratique musicale savante dans quelques communautés juives en Europe aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, 1966, voi. I, pp. 70-79.
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gnamento musicale composto da Salomone de’ Rossi per il quarto versetto del salmo 137: Sui fiumi di Babilonia, che più palesemente può apparire in contrasto con ogni espressione canora. Come è noto, in quel salmo si ricordano gli ebrei esuli che avevano appeso ai salici delle sponde le loro cetre per rifiutare, a chi li aveva condotti in cattività, i canti di Sion. E il versetto musicato è proprio quello che dice: «Come canteremo il canto del Signore in terra straniera?». Salomone de’ Rossi ricorre pertanto a un artificio: «sulla parola necbàr (straniera) troviamo la presenza di due suoni estranei alla gamma della composizione, un re diesis e un fa diesis, che figurano per la prima volta nel brano». Osserva lo studioso: «Questo è un esempio di interpretazione vera e propria, che sottolinea in maniera musicalmente “straniera” la falsità della situazione descritta: cantare al Signore in un paese alieno, su di un suolo straniero». Ma l’esame del testo mette in luce anche un altro aspetto: il compositore dovette confrontarsi con due culture musicali diverse, in quanto il suo pubblico aveva «due termini di riferimento: la musica italiana del tempo e la sua propria tradizione». In tal senso l’opera di Salomone de’ Rossi può essere considerata come «il frutto di questo confronto tra polifonia italiana e tradizioni ebraiche»33.
Ma è proprio vero che ad altri ambiti, più propriamente politici e ideologicamente segnati da un divario secolare, sono connaturate invece la frattura e la lotta? Certamente Bonfil ha ragione quando osserva che, per taluni aspetti e in certi ambienti, la bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum dovette suonare «naturale» alle orecchie dei contemporanei34. E tuttavia, persino in questo caso, sarebbe necessario distinguere fra una tradizione di polemica antiebraica, saldamente radicata nel cristianesimo, e una prassi che aveva instaurato consuetudini di coesistenza con gli ebrei. Che fosse ingenuo da parte di questi confidare in tali consuetudini - e quindi sia errato oggi interpretarle come un precorrimento dell’assimilazione ottocentesca - non è purtroppo da dimostrare. E nondimeno l’enormità della rottura voluta da papa Carafa è denunziata proprio dal martirio dei marrani di Ancona, rimasti vittime della loro fiducia nei privilegi concessi loro da Paolo III e da Giulio III, e nella forza di usanze consolidate. Né possiamo trascurare la presenza, fra i condannati al rogo, di alcune donne di origine cristiana, andate spose a questi marrani: esse rivelano la tragica saldezza dei vincoli familiari creatisi, come pure le relazioni esistenti fra la popolazione locale e questa comunità di recente insediatasi in Ancona, e tuttavia già in grado di stringere legami matrimoniali con gli abitanti35.
Le ragioni dell’atteggiamento fiducioso degli ebrei sono esposte vibratamente dal difensore di un avventuroso personaggio incarcerato e inquisito dal Sant’Uffizio di Venezia, Abraam detto Righetto36. Questi ricordava come Paolo
33 Acanfora Torrefranca, «I Canti di Salomone», cit., pp. 131 e 133.
34 Bonfil, Società cristiana, cit., p. 256.
35 R. Segre, Nuovi documenti sui marrani d'Ancona (1555-1559), in «Michael», IX, 1985, pp. 130-233 (si veda in particolare p. 147).
36 Processi del S. Uffizio di Venezia contro ebrei e giudaizzanti, a cura di P. C. loly Zorattini, Firenze, 1985, voi. IV, pp. 20 sgg. (il procedimento contro Abraam detto Righetto dura dal 1570
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III, non avendo potuto rifiutare a Carlo V nel 1536 1’autorizzazione a procedere mediante il tribunale dell’Inquisizione contro i marrani portoghesi, notoriamente convertiti a forza, avesse subito dopo permesso, «con il parere di primi cardinali di quel tempo, etiam iureconsulti grandi et de theologi [...] che in tutto lo Stato della Chiesa potessero vivere liberamente da hebrei tutti quelli portoghesi della stirpe hebrea che venissero de Portogallo». Confermata da Giulio III, la concessione venne considerata nulla da Paolo IV. Poteva essere un’astuzia avvocatesca, dopo il clamoroso processo contro i Carafa, imputare loro la persecuzione dei marrani: «Il Cardinal Charaffa et suoi fratelli, li quali cercavano de farsi ricchi, per questo non guardando, nel farlo, raggion o legge alcuna, ottennero da papa Paolo IV, loro zio, se dovessero rettenire li detti hebrei portughesi d’Ancona, et sequestrargli tutti li loro beni»37. Ma era incontestabile che Paolo IV aveva fatto procedere contro i marrani in violazione a un impegno solennemente assunto, senza nemmeno emanare un atto formale di revoca dei «privilegii che gl'erano stati giuridicamente concessi da’ papi predecessori», e l’addebito ai Carafa può allora essere un artificio per attenuare la gravità dell’accusa lanciata contro quel pontefice. Anche è chiaro l’intento di mostrare il suo atto persecutorio come un «incidente temporaneo» nel quadro di una politica di tolleranza praticata generalmente dalla Santa Sede.
In realtà, la scelta di Paolo IV si pone come uno spartiacque nella storia degli ebrei in Italia: essa infatti innovò notevolmente nella prassi secolare che aveva visto per secoli il papato agire da protettore - seppur ambiguo e discontinuo, e nonostante la persistente controversia ideologica - della presenza ebraica. L’ostilità decisa che venne inaugurata da papa Carafa e per vari aspetti inasprita da Pio V, fini col riflettersi di necessità sulle condizioni degli ebrei negli altri Stati della penisola, sia per l’influenza esercitata su di essi dalla Santa Sede, in particolare per quel che riguardava la legislazione nei confronti degli ebrei, sia per gli interventi ripetutamente messi in opera dalla gerarchia ecclesiastica per caldeggiare misure vessatorie.
Va ricordato peraltro che ancor prima di questi nuovi comportamenti del papato, nella dislocazione degli ebrei in Italia si era verificato un radicale rivolgimento, in seguito alla loro espulsione dalla Sardegna e dalla Sicilia, poi dal Regno di Napoli, e solo con il pontificato di Paolo IV dalla maggior parte delle città e dei borghi dello Stato pontificio. E questa senza dubbio una testimonianza della distinzione persistente fra i due gruppi di popolazione,
al 1572: superfluo rilevare la situazione critica in cui si trovavano gli ebrei anche a Venezia in quegli anni).
37 Ivi, p. 141. Un’accusa del genere non doveva suscitare troppo scandalo, e non solo per le gravissime imputazioni che avevano già portato alla condanna capitale i nipoti di Paolo IV. Con molta naturalezza l’ambasciatore di Ercole II d’Este a Roma scriveva al duca, il 24 luglio 1556, a proposito di marrani tornati all’ebraismo a Ferrara e a Modena, che, secondo Paolo IV, «l’Ecc. Vostra [...] ne dovrebbe far inquirere et farli abbrusare et tuore ogni sua facultà, come cosa che li pertenne, che ne riportarebbe tanta gloria presso Dio et Sua S.tà et questi signori [cardinali], oltra la molta utilità» (riportato da R. Segre, Nuovi documenti, cit., p. 153 nota 51). L’allettamento politico (i favori papali) e il guadagno finanziario non bastarono tuttavia a convincere Ercole II, che temeva l’intrusione pontificia nei suoi domini.
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nonostante la lunga durata della loro convivenza. Anche è un segno che qualcosa cambiò allora nella vita del paese ospitante: già mi era avvenuto di indicare nelle misure restrittive imposte agli ebrei, dove sussisteva per loro la possibilità di risiedere stabilmente, e nelle espulsioni (alla fine del Cinquecento vi sarà ancora quella dal ducato di Milano, favorita, ma non imposta, da Filippo II) l’effetto di un irrigidimento e di una chiusura della società italiana38. È certo che il confronto fra la situazione esistente prima e dopo il secolo XVI non potrebbe apparire più drammaticamente in contrasto.
Le regioni meridionali, da cui gli ebrei vennero allora scacciati, erano state quelle del loro più antico insediamento in Italia, risalente all’epoca romana. La fioritura delle comunità del Mezzogiorno è celebrata nel secolo XII da un detto, coniato a parafrasi di un passo di Isaia: «Da Bari uscirà la Legge, e la parola del Signore da Otranto»39, tanta era la fama della sapienza dei rabbini di Puglia. E un midras riportato da vari testi40 esaltava con eloquente anacronismo la pietà dei cittadini di Bari, i soli fra i popoli del mondo che avessero dato aiuto agli ebrei quando Nabucodonosor li deportò a Babilonia. Anche l’autobiografia di Obadiàh, studiata da Momigliano41, suona conferma del prestigio acquisito dagli ebrei pugliesi, se proprio ai tempi della prima crociata quel nobile normanno si converti all’ebraismo, e qualche decennio prima analoga scelta aveva fatto lo stesso arcivescovo di Bari. Questa città era ancora distrutta e priva di abitanti - in seguito a una feroce rappresaglia di Guglielmo I il Malo del 1157 - quando Beniamino da Tudela compì il suo viaggio42. Ma nelle sue note sull’Italia, dopo aver segnalato la presenza di pochi correligionari a Genova, a Pisa e a Lucca, egli ricordava le città meridionali, oltre a Roma, come sedi di floride comunità: Napoli e Otranto soprattutto, e cosi pure Benevento, Melfi, Trani e Trapani, abitate da qualche centinaio di ebrei. La loro importanza era dovuta non solo alle attività economiche che questi svolgevano, ma appunto al fatto di essere centri di studi rinomati. E a tale proposito - sebbene esulino dai limiti cronologici di questa rassegna (e ancor più dalle competenze di chi scrive) - sembra opportuno fare menzione di alcuni interessanti contributi al primo convegno di Italia Judaica.
Con uno sforzo interpretativo permessogli dalla sua erudizione, Bonfil ha analizzato in quella sede un testo del secolo XI, la Megillàt Abimà^z43: senza
38 Cfr. il mio contributo alla Scoria d’Italia Einaudi, voi. II, pp. 397-403.
39 Si veda I. T. Twersky, The contribution ofltalian sages to rabbinic literature, in ItaliaJudaica I, cit., p. 383. In Isaia, 2. 3, si legge: «Da Sion uscirà la Legge e la parola del Signore da Gerusalemme».
40 G. Sermoneta, Le correnti del pensiero ebraico nellTtalia medievale, in Italia Judaica I, cit., pp. 273-274. Midras (che in ebraico significa: studio, insegnamento, ricerca) designa in particolare quell’insieme di tradizioni e di leggende che commentano e spiegano i libri della Bibbia.
41 A. Momigliano, Un’autobiografia medievale ebraica (1981), in Pagine ebraiche, cit., pp. 117 sgg- . . . . .... . .
42 Cfr. Benjamin da Tudela, Libro di viaggi, a cura di L. Minervini, Palermo, 1989 (si vedano in particolare le pp. 46-47).
43 R. Bonfil, Tra due mondi: prospettive di ricerca nella storia culturale degli ebrei dell’Italia meridionale nell’alto Medioevo, in ItaliaJudaica I, cit., pp. 135-158.
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ripercorrere naturalmente la sua ardua e complessa esegesi, mi limiterò a ricordare qualche punto di carattere generale. In quell’opera, in cui Ahimà‘az, lo scrivente, narra la storia della propria famiglia, soprattutto negli ultimi due secoli, Bonfìl rileva tracce delle trasformazioni intervenute nelle comunità dell’Italia meridionale dopo che la conquista musulmana dell’Africa settentrionale aveva provocato un flusso migratorio nella penisola: gli ebrei giuntivi in quell’epoca apportarono nuove energie agli antichi insediamenti, fino allora «appartenenti all’area di cultura che Colorni chiama ebreo-ellenistica, caratterizzata nel periodo compreso fra il III secolo e l’Vili dall’uso prevalente del greco e del latino» nella stessa liturgia sinagogale.
La ricomparsa, dopo secoli, dell’ebraico - che troviamo da allora attestato in epigrafi, «prima a lato, e poi in sostituzione delle iscrizioni in lingua greca e latina» - si presenta come «il segno tangibile di una rinascita culturale a base nazionale», il cui impulso veniva da lontano. Per Shlomo Simonsohn, sarebbe stata conseguenza di un’azione di lunga lena intrapresa da emissari inviati dalla Palestina: a loro si dovrebbe «la sostituzione, nel giudaismo, della cultura greco-romana morente con quella ebraica», come pure la diffusione di un’ideologia capace di dare all’ebraismo medievale la forza di resistere alle persecuzioni. Elemento essenziale di tale ideologia - formatasi in Palestina «all’epoca della dominazione romana e specialmente di quella bizantina» -viene indicato dallo studioso israeliano nel complesso fenomeno che portò la fede religiosa ebraica a surrogare in tutti i suoi aspetti e i suoi valori quello che era stato, fino al II secolo d.C., il sentimento nazionale, e nello «scambio del valore militare, civile e laico con il Kiddus ha-Sem (la santificazione del nome di Dio) e l’esaltazione del martirologio»44.
Diversa appare l’interpretazione di Bonfil: egli avverte in taluni passi della Megillàt A^imà'az l’eco di una «versione popolare dell'avvenuta trasformazione culturale [...] ossia del passaggio dall’area di influenza palestinese a quella di influenza babilonese». L’Italia meridionale sarebbe stata nel secolo IX «il teatro degli sforzi dei centri di studi babilonesi, intenti a trasformare il Ta/mùd babilonese in codice normativo del popolo ebraico nella diaspora intera»45. E Bonfil ricorda a tale proposito la polemica condotta dal gaonato di Bagdad per sostenere che «la struttura portante delle usanze palestinesi era viziata alla base, in quanto espressione di una paralisi intellettuale imposta dall’esterno all’ebraismo palestinese in un periodo di persecuzioni».
Sono problemi che evidentemente richiedono ulteriori approfondimenti e che qui possiamo solo registrare. Senza dubbio la presenza a Oria di Aharon ben Samuèl ha-Nassi di Bagdad - una straordinaria figura di dotto, collegata tradizionalmente alla fioritura degli studi ebraici in quel centro pugliese -suonerebbe conferma dell’influenza babilonese. Inoltre sorprende che l’ideologia «palestinese» (la santificazione del Nome) si sia diffusa in comunità che sembra siano vissute a quel tempo senza violenti contrasti con le popolazioni
44 Simonsohn, Lo stato attuale della ricerca storica, cit., pp. 35-36.
45 Bonfil, Tra due mondi, cit., p. 143.
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cristiane46, anche se la tradizione esalta Aharon di Bagdad per imprese che ricordano quelle di altri personaggi celebrati per aver salvato il loro popolo da persecuzioni. D’altra parte occorre ricordare che Sermoneta, nel delineare Le correnti del pensiero ebraico ne II'Italia medievale, scorge anche nelle espressioni più alte della filosofia ebraica italiana - da Sabbetai Donnolo (secolo X) ad Abraham Ibn Ezra (secolo XII) - la persistenza arcaicizzante di influssi del mondo culturale tardo-ellenistico, del cristianesimo orientale e della patristica47: sono tendenze giudicate da questo studioso vicine a quelle renano-ashke-nazite coeve, e certo in quell’area la «santificazione del Nome» ebbe tragicamente ragione di manifestarsi nei massacri della prima crociata.
Sermoneta rileva la profonda modificazione avvenuta ai tempi di Federico II nel panorama culturale dell’ebraismo italiano. Rimasto fino allora distante dall’intensa vita intellettuale della Spagna musulmana e dell’Africa settentrionale (caratterizzata dalla presenza di un vigoroso razionalismo aristotelico), esso venne investito dalle novità introdotte dal grande sovrano svevo per favorire il consolidamento del suo regno. «L’imperatore, servendosi di elementi di importazione, di traduttori e di filosofi [...] provenienti dalla Spagna e dalla Provenza, promuoveva la diffusione di una nuova ideologia e di nuovi intenti educativi, che in un primo tempo sconvolgeranno gli ebrei dell’Italia meridionale e da costoro saranno sentiti come rivoluzionari»48. Sono effetti analoghi a quelli che scuotono negli stessi anni l’Europa cristiana con l’introduzione di Aristotele: per l’ebraismo italiano si tratta soprattutto di accogliere la riflessione di Maimonide, dopo che «i filosofi e i traduttori operanti a corte» si saranno imposti come discepoli del maestro di Cordova.
Possiamo scorgere cosi una specie di koinè di pensiero arabo-ebraico-cristiano, che dà luogo a una vera e propria consonanza ideale fra le nuove tendenze della filosofia ebraica e gli approdi aristotelici degli ambienti domenicani. In una delle opere più importanti del secolo XIII, i Tagmule^-«^/(Retribuzioni dell’anima) di Hillel ben Samuel da Verona, Sermoneta nota la chiara ripresa di temi affrontati da Tommaso d’Aquino nel De unitate intellectus contra Averroistas. Anzi, la penetrazione dell’aristotelismo e del tomismo -che raggiunse l’acme in Giuda Romano, traduttore in ebraico di san Tommaso, di Alberto Magno e di Egidio da Colonna - diede luogo a una paradossale avventura del pensiero. Nel secolo XV l’ebreo convertito Flavio Mitridate, fattosi fervente fautore, contro i suoi ex correligionari, della tesi che pretendeva di trovare negli scritti della tradizione ebraica un’interpretazione delle Scritture conforme a quella cristiana (e quindi di dimostrare la malafede degli ebrei, ostinati nel rifiuto della divinità di Cristo), potè «contrabbandare nel Cenacolo fiorentino le teorie tomistiche dell'Ente et Essentia, che, tradotte quasi duecento anni prima in ebraico da Jehudah Romano, vengono da lui
46 Per un panorama generale si veda B. Blumenkranz, Juifs et chretiens dans te monde Occidental (430-1096), Paris, I960, tenendo presente che l’Italia bizantina presenta problemi particolari.
47 Sermoneta, Le correnti, cit., p. 274.
48 Ivi, p. 275.
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ritradotte in latino per lo stesso Pico»49. In questo caso, per riprendere un’immagine dell’illustre studioso, si tratta di una ricetta di cucina singolarmente artefatta, che rivela i rischi di scambi culturali alterati dalla controversi-stica in momenti drammaticamente tesi.
Quello che assai più interessa rilevare è l’intreccio di relazioni intellettuali in epoche a cui si pensa in generale come segnate da chiusure, da barriere spaziali, da fratture ideologiche. Chi scrive non è certo in grado di pronunziarsi a proposito dell’egemonia esercitata sull’Italia meridionale dalle scuole talmudiche babilonesi nel secolo XI: ma l’irradiarsi del loro insegnamento nell’area mediterranea ed europea non può non essere visto come un arricchimento della civiltà universale, per l’introduzione in Occidente di una tradizione culturale che sarebbe potuta scomparire, come le dieci tribù d’Israele, di là dal mitico fiume Sambatiòn. Analoga valutazione va data - è persino superfluo notarlo - per quella sorta di messa in opera della novella dei tre anelli, che mostra il comune patrimonio formatosi nel secolo XII, quando arabi, ebrei e cristiani procedettero affiancati nella ricerca filosofica. Certo, non va dimenticato che il nucleo unificatore era costituito da uno dei massimi monumenti della cultura classica, il pensiero di Aristotele; ma è chiaro che vi sono condizioni di civiltà che favoriscono la ricezione di un razionalismo in quel momento profondamente innovatore, e una tensione intellettuale capace di superare fanatismi settari e divisioni etniche.
Ai fini di questa rassegna, ciò che si è detto può far capire perché sia da auspicare un nuovo sforzo di ricerca sull’ebraismo del Mezzogiorno, che la spezzatura provocata dall’espulsione tra la fine del secolo XV e gli inizi del XVI sembra condannare in qualche modo alla condizione di una civiltà scomparsa. E la ricerca - come del resto aveva già indicato A. Milano -dovrebbe estendersi e proseguire nelle nuove diaspore levantine, createsi nel Cinquecento. La tendenza degli studi recenti è stata infatti quella di concentrarsi principalmente sulle comunità centro-settentrionali, che in generale hanno il vantaggio di offrire documentazioni continuative dal Medioevo ai tempi moderni.
Come è stato ormai precisato da vari studi, a partire dal secolo XIII si sviluppa un flusso migratorio di ebrei romani in direzione di vari centri del Lazio, dell’Umbria, della Toscana e dell’Italia settentrionale. La loro attività è generalmente concentrata sul prestito, e la loro diffusione avviene per piccoli e piccolissimi nuclei in aree dove fino allora la presenza ebraica, quando non era del tutto inesistente, era stata sporadica e casuale. Mentre ancora Poliakov giudicava tale fenomeno senza rapporti con la politica della Santa Sede e di scarsa rilevanza economica50, ricerche successive hanno permesso a Toaff di affermare che esso costituisce «uno degli aspetti della politica di egemonia economica condotta dalla Curia e dal Comune di Roma nei territori del
49 Sermoneta, L’incontro culturale, cit., pp. 205-206. Cfr. anche F. Parente, Il confronto ideologico tra l’ebraismo e la Chiesa in Italia, in ItaliaJudaica I, cit., pp. 307 sgg.
50 L. Poliakov, Les banchieri juifs et le Saint-Siège du XlIIe au XVIIe siede, Paris, 1965.
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Patrimonio di San Pietro»51. Se è da escludere che i prestatori ebrei operino in concorrenza con i banchieri toscani e lombardi legati alla Chiesa, sembra certo che «il ruolo degli ebrei romani sul mercato del denaro dei Comuni dell’Italia centrale nella seconda metà del Duecento sia in stretto rapporto con la politica finanziaria ed economica della Curia e del Comune di Roma».
Anche questo può spiegare la fortuna di tale emigrazione capillare (che avviene, per quel che si sa, senza provocare reazioni e ripulse) e fa capire al tempo stesso perché vi siano coinvolte persone di un certo stato sociale, dotate di risorse. «L’ebreo che emigra verso il Nord - scrive Sermoneta52 - sembra essere più ricco e più colto di quello che resta nel Mezzogiorno». E generalmente al centro di un nucleo familiare che comprende qualche «collaboratore» e non di rado «un insegnante per i figli»; dispone di un piccolo capitale e di «una certa specializzazione»: quando non è un mercante, «è un medico, un astrologo, un tintore». Le sue caratteristiche, «ben evidenti sul piano sociale ed economico», gli facilitano i rapporti «con gli ambienti più colti e più urbanizzati delle città italiane del tardo Duecento e del Trecento»; è in grado pertanto di accogliere «valori e [...] nuovi interessi culturali che coinvolgevano tutta l’Europa occidentale». In vari casi, anzi, si presenta come il tramite e il diffusore di «una data cultura, cui si risvegliano, proprio in quell’epoca, quelle élites culturali che nascono dalla spinta economica prorompente che caratterizza l’Italia del Duecento».
Si tratta dunque di un fenomeno collegato con l’espansione della vita italiana nel secolo XIII e fino agli inizi del XIV. In una certa misura, questi nuovi nuclei che si inseriscono nei centri urbani del centro e del Nord d’Italia sembrano assolvere anche una funzione sociale al margine di quelle borghesie comunali che si sono affermate sulle vecchie oligarchie magnatizie o che ad esse si sono aggregate, ampliandone la composizione. Non che si voglia -riprendendo discutibili interpretazioni storiografiche - individuare negli ebrei una classe o un suo surrogato: a parte ogni altra considerazione, il loro numero è troppo esiguo per giustificare una simile definizione. Ma la loro funzione nelle società comunali ha evidenti caratteristiche di cerniera fra gli strati superiori e quelli popolari, come suggeriscono le stesse condotte accordate loro, in cui il ruolo del prestito al fine di sovvenire alle necessità dei poveri è regolarmente menzionato.
E questo un aspetto che induce a richiedere maggiore attenzione per tale fenomeno, anche fuori dagli studi specializzati. Michele Luzzati ha senza dubbio ragione quando critica la genericità di concetti quali «mondo ebraico» e «mondo medievale» in relazione alle osservazioni su La questione ebraica nel Medioevo di Morghen53, sebbene a questo studioso vada riconosciuto il merito di aver rilevato fra i primi la peculiarità di un’epoca in cui non si era ancora
51 A. Toaff, Gli ebrei romani e il commercio del denaro nei Comuni dell’Italia centrale alla fine del Duecento, in Italia Judaica /, cit., pp. 185-186.
52 Sermoneta, L’incontro culturale, cit., pp. 195-196.
53 R. Morghen, Medioevo cristiano, Bari, 19682, pp. 129-148, e le osservazioni di M. Luzzati, La casa dell’ebreo. Saggi sugli ebrei a Pisa e in Toscana nel Medioevo e nel Rinascimento, Pisa, 1985, p. 63.
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approfondita la divisione che avrebbe spezzato il «tronco della comune cultura», con gli effetti devastanti che si sarebbero avuti in seguito. L’analisi, che Luzzati invoca (e pratica), non solo apre la strada «a una considerazione più articolata e rispondente alle realtà di fatto delle vicende degli ebrei italiani negli ultimi secoli del Medioevo», ma indica al tempo stesso la complessità della società italiana del tempo, quanto meno di quella urbana e comunale, con le sue stratificazioni e distinzioni, con le sue strutture articolate e i suoi spazi di autonomia. In tal senso può dirsi che non si tratta solo di storia degli ebrei in Italia, ma di storia d’Italia.
Ariel Toaff, che ha esplorato con appassionata intelligenza storica le vicende degli ebrei in Umbria54, ci ha dato di recente un suggestivo quadro della loro esistenza in quella regione, che spiega perché «l’immagine di un mondo ebraico relegato ad una doppia marginalità, religiosa e socioeconomica, a fianco di una società cristiana ostile ed economicamente più progredita e produttiva», appaia semplicistica e non convincente55. Convincenti, invece, sono i risultati della sua indagine, presentati come «paradigmatici» per la storia degli ebrei in Italia fra il secolo XIV e il XVI.
Uno dei punti che questo lavoro colloca in giusta luce è il rapporto che viene stabilendosi fra le comunità ebraiche e la popolazione cristiana per quel che riguarda «sesso, amore e matrimonio»56. Non è certo il caso di voler stabilire in tal modo l’esistenza di una «idillica simbiosi tra ebrei e cristiani»57: la ricerca storica - tenga conto o no di considerazioni di carattere generale, ispirate magari dalle idee di Freud o di Foucault - ha mostrato l’efficacia che lo studio di questi problemi può avere ai fini di una conoscenza più particolareggiata del passato. Ormai siamo abbastanza edotti sulla storia delle emigrazioni per sapere come soltanto in determinate situazioni gruppi di popolazioni diverse per etnia, religione o altro giungano ad accettare rapporti sessuali e relazioni di parentela: assai spesso è l’omologazione sociale che attutisce le differenze. Già Poliakov osservava: «Le mépris pour le Juif allait au premier chef au pauvre, à celui qui était astreint au port de l’insigne, et une telle situation [...] n’est pas sans offrir quelque ressemblance avec celle que nous décrivent les spécialistes des “relations raciales” en Amérique latine ou en d’autres régions, dans lesquelles la discrimination envers les Indiens ou les Noirs cesse ou s’estompe à partir d’un certain niveau de fortune»58. Oggi non c’è più neppur bisogno di ricorrere a studi antropologici per essere al corrente della diversa accoglienza che ricevono in Europa africani o asiatici a seconda delle disponibilità dei loro
54 A. Toaff, Gli ebrei a Perugia, Perugia, 1975; Id., Gli ebrei a Città ili Castello alai XIValXVI secolo, in «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 1975, pp. 1-105; Id., Gli ebrei a Gubbio nel Trecento, ivi, 1978, pp. 15 3-192; Id., TbeJews in Medieval Assisi. 1305-1487, Firenze, 1979-
55 Id., Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo, Bologna, 1989, p. 8.
56 Cosi il titolo del primo capitolo di II vino e la carne.
57 Bonfil, Società cristiana, cit., pp. 244 sgg., ha ironizzato su questo tipo di ricerche.
58 Poliakov, Les banchierijuifs, cit., p. 164 (per quel che riguarda l’accenno all’«insigne», il segno imposto agli ebrei dal IV Concilio lateranense, si tenga presente che inizialmente le varie condotte esentavano spesso i prestatori e in generale gli ebrei di riguardo dal portarlo sui loro abiti).
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portafogli e dei loro conti in banca, ben più che a seconda dei loro tratti somatici.
In questo senso, il rapporto che si instaura fra ebrei e cristiani mostra come la diversità religiosa e, per certi aspetti, etnica, quantunque indubbiamente avvertita, non abbia ostacolato consuetudini di convivenza civile. Anzitutto è significativo l’enorme divario esistente fra la lettera della legge e la realtà della vita quotidiana. La prima registra infatti in termini di estremo rigore l’abisso che dovrebbe separare i fedeli cristiani dai membri di quello che la Chiesa in tante occasioni chiama «il popolo deicida». E tuttavia le stesse disposizioni che nel corso del secolo XIII non possono non avere avuto ripercussioni sulla vita degli ebrei - i decreti del IV Concilio lateranense, i primi roghi del Talmùd, l’istituzione dell’Inquisizione romana, la bolla Turbato corde di Clemente IV con l’aspra condanna dei convertiti che ritornavano all’ebraismo - sembrano avere avuto scarsi effetti sui rapporti abituali. Cosi, se «la legge canonica proibiva i rapporti sessuali di cristiani con ebrei, punendoli severamente», se per tali rapporti gli statuti di Perugia del 1342 (che «li paragonano a quelli con i lebbrosi») prevedevano pene severissime, fino al rogo, «nella prassi le cose andavano diversamente». Tanto è vero che i delegati delle comunità ebraiche dell’Italia centrale, riuniti a congresso nel 1418 a Forlì, si mostrano preoccupati per i troppo frequenti casi di connubio (più o meno legittimi) di ebrei con cristiani, giudicandoli un pericolo per la sussistenza delle comunità stesse. «Ma - osserva sensatamente Toaff - dove le proibizioni canoniche e gli statuti cittadini non erano riusciti, era improbabile che avessero più successo gli interdetti rabbinici»59.
Certo, «numerosi erano gli ebrei che incappavano nei rigori della legge sotto tali imputazioni (liberandosi sempre con il pagamento di ammende, la cui entità dipendeva dalla maggiore o minore ricchezza del colpevole)»; ma «ancor più numerosi dovevano essere quelli che, in una maniera o nell’altra, riuscivano a sottrarsi». Per questo, gli atti processuali riguardanti tali casi vanno letti come documentazione di modi di vita possibili, non certo con intenti statistici. La società cristiana appare abbastanza corriva, e le fonti documentano soltanto quelle vicende che ebbero esiti drammatici o almeno contrastati. Anche quando non siamo in presenza di circostanze eccezionali (sono ricordati casi di infanticidio, di stupro e violenza sessuale, di adulterio), si tratta sempre di eventi che hanno dato luogo a contestazioni, se non a processi, e lo studioso deve discernere, nelle informazioni di cui dispone, gli elementi che indicano consuetudini e usanze diffuse, e gli eventi fuori dal comune che hanno favorito la trasmissione di quelle notizie. In tal modo arriviamo a conoscere i problemi delle alleanze matrimoniali e delle doti, oltre che gli scandali e le vicissitudini di unioni infelici.
Nelle piccole comunità di ebrei sparse per l’Umbria insorgono di necessità contrasti interiori, illustrati con finezza da Toaff. «Dispersione geografica e mobilità, due delle principali caratteristiche delle famiglie ebraiche in Italia in questo periodo, finiscono col creare in esse delle esigenze di ricerca di un
59 Toaff, 1/ vino e la carne, cit., pp. 18 e 21.
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equilibrio soddisfacente tra le loro particolari necessità di minoranza religiosa e i richiami e le lusinghe di una società esterna, di cui si vuole far parte e la cui influenza nella vita di ogni giorno si fa sentire».
In particolare viene notato quanto acutamente dovesse essere avvertita tale contraddizione fra i giovani, che la fedeltà alla tradizione dei padri vincolava a scelte matrimoniali ossequienti ai voleri delle rispettive famiglie, ma che non trovavano modo di dare sfogo alle loro «naturali pulsioni sessuali» entro il «microcosmo ebraico locale». Se è vero che nella società del tempo amore e matrimonio erano quasi sempre senza rapporto fra loro, le particolari condizioni di queste comunità aggravavano i problemi, come rivelano vari casi esposti da Toaff. Quasi sempre - come capita a Venturello di Mose di Bevagna, che, nonostante l’amore per «una fresca bellezza locale», si acconcia finalmente alle nozze con la figlia di un banchiere di Bologna - la passione giovanile viene sacrificata alle esigenze familiari60. Può avvenire però che la conversione sia lo sbocco di un rapporto amoroso, che si conclude allora con il matrimonio. Casi del genere sembrano verificarsi esclusivamente in ambito femminile: non solo fra ragazze da marito, ma anche fra vedove61. Verosimilmente i maschi erano soggetti a più rigoroso controllo per le gravi conseguenze familiari e patrimoniali che avrebbe comportato il loro abbandono della comunità.
In questo quadro rientra una vicenda, studiata da Luzzati per gettar luce su una situazione particolare62. Clemenza, figlia di Vitale da Pisa (appartenente dunque a una delle più cospicue famiglie di banchieri, imparentata con altri casati che «erano indiscutibilmente fra i pilastri della finanza ebraica italiana del Rinascimento»), in seguito al battesimo, ricevuto nel luglio 1480, può rompere il vincolo matrimoniale stretto, solo pochi giorni prima, con Davide da Montalcino, e sposare il conte Brancaleone da Piandimeleto, un nobile uomo d’armi marchigiano dotato di scarsi mezzi. La storia può far pensare a una delle novelle antiebraiche di ser Giovanni fiorentino, per il (presunto) tentativo di avvelenamento dei due coniugi da parte del padre, ma è ricostruita da Luzzati soprattutto come spia dei rapporti esistenti nella società del tempo fra cristiani ed ebrei di rango. «Il matrimonio di Clemenza è avvenuto nel vivo dell’affermarsi di un processo di “anoblissement”, che trionferà coi primi decenni del Cinquecento, ma che parte già dal Quattrocento, con quella rivalutazione dell’antica nobiltà della stirpe, che si manifesta principalmente attraverso matrimoni che legano nobili più o meno decaduti a recenti ricchi. La vicenda di Clemenza di Vitale non è molto dissimile da quella delle sue ricche o dei suoi ricchi coetanei, che la spinta verso una società cortigiana e “signorile” indirizzava a matrimoni che nobilitassero». Certo, nel caso della figlia di Vitale da Pisa era stato necessario che il battesimo lavasse la macchia originale; ma che in quegli ambienti vi fosse allora una «sempre più moderata conflittualità» fra cristiani ed ebrei è attestato non solo dalla frequentazione della casa del banchiere ebreo da parte del conte Brancaleone, ma anche da altre notizie
60 Ivi, pp. 16-17.
61 Ivi, pp. 40 sgg.
62 Luzzati, La casa dell'ebreo, cit., pp. 59-106.
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pervenuteci sui da Pisa, come quella della brigata con cui si dava alla bella vita il fratello maggiore di Clemenza cura pluribus masculis tam hebreis quam christianis63.
Luzzati ha opportunamente richiamato l’attenzione sui tempi lunghi dello stanziamento di ebrei nell’Italia centro-settentrionale e sul fatto che il flusso migratorio da Roma, iniziato nel secolo XIII, ebbe direzioni molteplici e spostamenti successivi. Cosi, in Toscana, a Siena - ha messo in luce Sofia Boesch Gajano64 - ai primi del Trecento sono presenti pochi prestatori ebrei, e solo alla metà del secolo il riconoscimento da parte del Comune della loro attività feneratizia è insieme indizio e causa del rinvigorirsi di quella comunità. Sempre a metà del Trecento avviene l’insediamento a Bologna - studiato da A. I. Pini65 - nella zona più centrale della città, fra le due Torri e piazza Maggiore, e poco dopo anche nei sette vicariati del territorio comunale. Se da un lato si costituiscono comunità di una certa consistenza, dall’altro vi sono piccoli nuclei che rivelano una notevole mobilità, a seconda delle offerte e delle possibilità che si presentano: essi vanno «tessendo una fitta rete di nessi interfamiliari e d’affari, che finiscono col rendere di fatto ‘‘intercittadina” e “interregionale” (quando non addirittura “internazionale”) la loro storia personale»66. Proprio su questa «fitta rete» dà ragguagli preziosi Luzzati, rintracciando l’insediarsi di ebrei dediti ad attività bancarie - e provenienti da vari centri romagnoli o da Bologna, come pure da città venete e lombarde - a Firenze e nel suo dominio, a partire soprattutto dal 1437, per deliberata scelta (già rilevata nel classico lavoro di Cassuto)67 di Cosimo de’ Medici, giunto tre anni prima al potere.
Di questi successivi spostamenti, Toaff ha cercato di tratteggiare uno schema, indicando il trasferimento a Bologna, a Ferrara e più tardi in altri centri della pianura padana, a Padova, a Mantova, nel ducato di Milano, delle famiglie più ricche di banchieri «romani». Al loro posto, nei centri umbri, marchigiani e romagnoli, da cui parte quell’emigrazione, subentrano «proprietari e gestori di banchi in città di importanza secondaria». Così, da Gubbio o da Assisi, ci si sposta a Perugia; da Fabriano e da Camerino, ad Ancona; da Cervia e da Lugo, a Rimini68. Nonostante la progressiva dispersione, sussiste una forte solidarietà fra gli ebrei di origine romana, e «probabilmente fino a tutta la prima metà
63 Ivi, p. 71.
64 S. Boesch Gajano, Il Comune di Siena e il prestito ebraico nei secoli XIV e XV: fonti e problemi, in Aspetti e problemi della presenza ebraica neiritalia centro-settentrionale (secoli XIV e XV), «Quaderni dell’Istituto di scienze storiche dell’Università di Roma», Roma, 1983, pp. 175-226.
65 A. I. Pini, Famiglie, insediamenti e banchi ebraici a Bologna e nel Bolognese nella seconda metà del Trecento, in «Quaderni storici», n. 54, cit., pp. 783 sgg.
66 Ivi, p. 802.
67 U. Cassuto, Gli ebrei a Firenze nell’età del Rinascimento, Firenze, 1918. Di Luzzati si veda I legami fra i banchi ebraici toscani ed i banchi veneti e dellTtalia settentrionale. Spunti per una riconsiderazione del ruolo economico e politico degli ebrei nell’Italia del Rinascimento, in Gli ebrei a Venezia, cit., pp. 571-594 (e ora in Id., La casa dell’ebreo, cit., pp. 235-263).
68 A. Toaff, Convergenza sul Veneto di banchieri ebrei romani e tedeschi nel tardo Medioevo, in Gli ebrei a Venezia, cit., p. 603.
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del secolo XV i rappresentanti delle comunità ebraiche di origine romana si incontrarono ufficialmente e ad intervalli regolari». Oltre ai problemi comuni, come quelli cui si è accennato a proposito del congresso di Forlì del 1418, era necessario «stabilire quali passi di volta in volta intraprendere per assicurarsi la protezione dei pontefici e per raccogliere fondi da destinare a tale scopo mediante una tassazione che non colpisse solo la comunità di Roma»69.
L’emigrazione «romana» nel Veneto precede di pochi anni il flusso di provenienza ashkenazita, a cui sempre Toaff ha dedicato due importanti relazioni, una presentata al convegno di Venezia del 1983, l’altra a un convegno tenutosi nel 1989 a Trieste e Udine70. In quest’ultima sede ha illustrato con ricchezza di particolari le caratteristiche di quei nuclei transalpini, la cui presenza - solo sporadicamente attestata nel corso del secolo XIII - si manifesta di una certa consistenza soprattutto dopo la peste nera e il tragico susseguirsi di eccidi, persecuzioni ed espulsioni, che sconvolge le comunità germaniche nella seconda metà del Trecento. Se questo esodo - per quanto determinato da quelle vicende - si inserisce in un più vasto movimento migratorio di popolazioni transalpine, che vede affluire in quegli anni verso l’entroterra veneto «una massa eterogenea di tedeschi appartenenti a tutte le classi sociali: mercanti e avventurieri, artigiani e operai, soldati e vagabondi»71, anche è da tenere presente la non irreversibilità dell’emigrazione ebraica. «Non è infatti infrequente che un prestatore ashkenazita, disceso a Mestre dalla Svevia, ritorni, più o meno stabilmente a Costanza qualche anno dopo, e quivi riprenda la sua attività nel commercio del denaro; che un rabbino austriaco, operante a Treviso, trasferisca successivamente la sua attività in Stiria [...], e che una donna, appartenente a una delle famiglie ashkenazite di recente impiantate nella terraferma veneta, convoli a giuste nozze con un ebreo vivente in Baviera»72.
Non pochi sono i particolari che rivelano il perdurare di legami tra queste famiglie immigrate (mentre sembrano assenti o assai scarsi i rapporti con gli
69 Ivi, p. 602.
70 Id., Convergenza sui Veneto, cit., e Id., Migrazioni di ebrei tedeschi attraverso i territori triestini e friulani fra XIV e XV secolo, relazione al congresso Presenza ebraica fra Trieste, Austria, Friuli ed Istria (secoli XIVXIX): economia e società, svoltosi a Trieste e a Udine dal 19 al 23 giugno 1989 (di prossima pubblicazione, per le Edizioni studio tesi di Pordenone, gli atti, con il titolo Gli ebrei fra Italia nord-orientale e Impero asburgico, a cura di G. Todeschini e P.C. Joly Zorattini). Sarà opportuno ricordare che ashkenaziti sono detti gli ebrei di origine tedesca (e piu tardi in generale quelli dell’Europa orientale di lingua jddisch\. Askenàz, nella Bibbia (Gen. 10.3) è uno dei nipoti di Jafet. Anche per altri due paesi e relativi popoli d’Europa venne adottato un nome biblico, senza rapporto con la terminologia corrente: la Francia fu chiamata Zarfàt, dal nome di una città vicina a Sidone, menzionata in I Re, 17.9 (da cui zarfatì, francese, all’origine del cognome Sarfatti); la Spagna fu identificata con Sefaràd, luogo di deportazione degli abitanti di Gerusalemme, ricordato in Abdia, 20; ebrei sefarditi sono quelli che, dopo l’espulsione dalla Spagna nel 1492, si rifugiarono in vari paesi del Mediterraneo o anche nei Paesi Bassi.
71 Toaff, Migrazioni, cit., p. 3 del ciclostilato (in nota, un rinvio a Ph. Braunstein, Leprèt sur gages à Padoue et dans le Padouan au milieu du XVe siede, in Gli ebrei e Venezia, cit., pp. 652-653).
72 Migrazioni, cit., pp. 3-4.
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ebrei italiani). «Gli ebrei tedeschi stanziati nel Friuli - scrive Toaff - inseriscono nelle loro condotte una clausola particolare, in base alla quale si consentiva loro di interrompere Fattività professionale e di abbandonare la città di residenza per un periodo di quattro o cinque settimane, in occasione delle solennità del calendario ebraico». Durante il periodo pasquale e agli inizi dell’autunno, per le festività con cui si apre in quella stagione Fanno ebraico, questi ashkenaziti sentivano il bisogno di trasferirsi nella «comunità madre» -verosimilmente Treviso, dove viveva il nucleo più numeroso, ascendente a oltre un centinaio di persone - «per assistere alle offìciature sinagogali secondo il loro rito». Vi era in questi emigrati il senso di costituire «cellule distaccate di una comunità più grande» e quindi il bisogno di raggrupparsi nelle solennità più importanti, a differenza sia dei loro correligionari italiani, che operano spesso in condizioni di quasi totale isolamento, sia dei prestatori lombardi o toscani, che rivelano generalmente una mentalità di esuli e marginali.
Le crudeli esperienze vissute avevano rafforzato i vincoli fra questi emigrati e suscitavano anche diffidenze, di cui rimane traccia nelle condotte. Toaff vi rileva le particolari garanzie richieste contro chi rivolgesse loro ingiurie o minacce, e contro danni e molestie; «l’assicurazione che ai loro accusatori sarebbe stata prestata fede soltanto se tra essi si fossero trovati sia cristiani che ebrei di buona reputazione»; la promessa di protezione contro possibili conversioni forzate, che non si trova - nota Toaff - nelle condotte di ebrei italiani dello stesso periodo, ma che significativamente si incontra nei privilegi accordati da Paolo III e da Giulio III alla «Universitas hebraeorum portugallen-sium» di Ancona, a loro volta scampati ad analoghe vicissitudini persecutorie. Si ricordi che l’ebreo convertito, anche a forza, che avesse fatto ritorno alla fede degli avi, rischiava il rogo73.
Un altro punto peculiare dell’emigrazione ashkenazita, che consente di aprire uno squarcio sull’esistenza quotidiana di queste comunità, è «la costante preoccupazione di garantire l’osservanza scrupolosa delle norme religiose» presente nelle condotte. Nei capitoli di queste vi sono precisazioni minuziose sull’approvvigionamento di carne macellata e preparata ritualmente, non ricorrenti invece nelle condotte dei banchieri «romani»: se fosse questo un segno di maggiore scrupolo e di particolare sensibilità degli ashkenaziti, oppure, da parte italiana, l’indizio di una tranquillità indotta da consuetudine, resta da accertare. Ma Toaff ha evocato in pagine venate da sottile umorismo i modi di vita degli ebrei in Umbria: da li sappiamo lo scrupolo con cui anch’essi si preoccupavano di avere carne casbèr, cosi che gli ebrei di Todi, per disposizioni vessatorie di quella città, furono costretti ad astenersi fra il 1436 e il 1438 dal consumo di carne bovina74. Il divieto della macellazione rituale - va notato - era da attribuirsi, almeno allora, più che alla volontà di espellere gli ebrei (e infatti a Todi la proibizione venne revocata dopo la minaccia da parte degli ebrei di abbandonare la città), dal proposito di porre fine «all’amichevole consuetudine dei cristiani con gli ebrei, nella conversazio-
73 Ivi, pp. 4 Sgg.
74 Toaff, Il vino e la carne, cit., pp. 81 sgg. (per Todi p. 86).
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ne come nel mangiare», secondo quel che leggiamo più tardi nelle Riformanze di Gubbio75.
Sappiamo invece che, per quanto riguarda il vino, «in caso di necessità si faceva ricorso, senza eccessivo scandalo, al mosto e al vino comuni, e si chiudeva un occhio sul fatto che fosse il prodotto di piedi cristiani e non ebraici. Ancora nel 1608 il celebre rabbino Leon da Modena osservava realisticamente che «da quando so distinguere tra la mano destra e la sinistra, non ignoro che da tempo immemorabile i nostri padri in Italia erano soliti bere vino comune»76.
Sulla propagazione di insediamenti ebraici nella seconda metà del Trecento, Toaff propone un’ipotesi convincente. In contrasto con chi ha visto nella diffusione di banchi di ebrei in quel periodo una conseguenza della crisi economica seguita alla peste nera, alla quale si dovrebbe la rovina dei prestatori cristiani (ma non è chiaro perché gli ebrei ne sarebbero stati risparmiati), egli pensa che la nuova congiuntura creatasi per il generale calo demografico abbia favorito i nuovi venuti. «I romani che giungono nella piana del Po a partire dagli anni ’60 del Trecento (seguiti poi dai “tedeschi”) per sostituirsi ai “toscani”, non soppiantano società dissestate dalla crisi economica generale, e perciò incapaci di opporsi al loro inserimento sul mercato del denaro. E possibile invece che i finanzieri cristiani abbiano spesso ceduto volentieri il posto ai nuovi venuti, preferendo approfittare delle prospettive che si aprivano nel settore manifatturiero e industriale, soprattutto nel campo tessile, o ripiegando nel settore degli investimenti in agricoltura»77. È questa un’indicazione che richiederebbe naturalmente un’attenta verifica, perché, se è noto che capitali di origine mercantile vennero allora investiti in beni fondiari e si estese in quel periodo la proprietà terriera «borghese», è da accertare meglio un presunto incremento delle attività manifatturiere. Non è da escludere, tuttavia, che i mutamenti produttivi allora verificatisi (ad esempio la tendenza a favorire i manufatti di lusso) possano essere messi in rapporto con quei nuovi investimenti. In ogni modo, se i prestatori ebrei fossero arrivati in concorrenza con l’attività, per di più soccombente, dei banchi cristiani, di tale scontro sarebbe rimasta verosimilmente testimonianza, anche in termini di polemica antiebraica, non meno virulenta di quella che, in circostanze diverse, scoppiò nel secolo successivo.
Sulla terza corrente migratoria del secolo XIV, quella francese, non sono state invece intraprese nuove ricerche, se non per quel che riguarda il piccolo flusso giunto in Piemonte, studiato da Renata Segre. Certamente l’emigrazione dalla Francia in Italia fu assai limitata rispetto a quella ashkenazita e tanto più a quella «romana»: quindi più dispersa e senza dubbio più difficile da seguire. Non è però un problema di cifre: la sproporzione fra il numero degli ebrei e la popolazione cristiana in cui essi cercarono di inserirsi, è costante: ancora per le città italiane del Quattro e Cinquecento, Luzzati ha rilevato l’incongruità
75 Ivi, p. 86.
76 Ivi, pp. 93-94.
77 Toaff, Convergenza su/ Veneto, cit., p. 602.
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clamorosa della «straordinaria capacità creativa, specie in campo culturale, di un nucleo di popolazione cosi ridotto»78. Si pensi che intorno al 1570 gli ebrei residenti nello Stato fiorentino non costituivano se non 1’ 1 per mille o poco più dell’intera popolazione, e sommavano in tutto (senza il Senese) a 7IO79. Occorre peraltro osservare che si tratta sempre di gruppi dediti ad attività specializzate, e caratterizzati da una cultura specifica diffusa: pertanto il loro corrispondente quantitativo nella popolazione cristiana è parimenti limitato, tanto da rendere meno vistosa, sotto questo profilo, la disparità numerica.
Dal lavoro di Renata Segre appare un costituirsi di insediamenti stabili di ebrei in Piemonte solo nell’ultimo scorcio del Trecento; anzi, la presenza ebraica non arrivò ad assumere importanza prima del secolo seguente, quando Amedeo Vili si avvalse dell’opera degli ebrei come di uno strumento per rafforzare il suo potere contro i particolarismi locali80. Se ne può arguire che il Piemonte ricevette un piccolo flusso di scampati all’ultima ondata persecutoria, che portò alla cacciata definitiva dalla Francia nel 1394.1 precedenti casi di eccidi e di espulsioni - intorno al 1306, nei primi anni Venti e al tempo della peste nera - portarono gli ebrei francesi a rifugiarsi nelle terre subito al di fuori dei confini del regno: dallo Hainaut alla Lorena, dall’Alsazia al Delfinato e anche alla Savoia (oltre all’esodo dalla Provenza verso l’Aragona). La dispersione di una massa di persone, che è stato detto ascendesse ad alcune decine di migliaia, ebbe peraltro propaggini assai vaste, se alcuni arrivarono fino in Ungheria, dove agli inizi del Quattrocento esistevano comunità in cui era correntemente parlata la lingua francese81. Piccoli gruppi si stanziarono anche in Italia, talvolta dopo una sosta in Savoia, poi valicando le Alpi e disperdendosi nella penisola: i 35 cognomi ebraici a base toponomastica francese (oltre agli altri di medesima origine, più generici, come Franchetti, Sarfatti o Provenzali), studiati da Colorni, ne portano chiara testimonianza82.
Proprio le persecuzioni contro gli ebrei nella Francia del secolo XIV offrono a Carlo Ginzburg lo spunto iniziale per il suo recente lavoro sul sabba. Vi scorge infatti un concatenarsi di circostanze e di imputazioni, che in qualche modo anticipano le vicende di coloro che di li a pochi anni sarebbero stati accusati di stregoneria. L’ipotesi di complotto, che viene formulata da Ginzburg è assai seducente per l’ambiguità del riferimento: l’operato dei persecutori è spiegabile attraverso l’esistenza di un complotto, e questo fece risultare le vittime colpevoli di averne ordito uno ai danni dell’intera popolazione. Cosi, «da un lato la rapidità con cui la repressione si diffuse, [...] dall’altro la ramificazione geografica dal presumibile epicentro di Carcassonne, rivelano l’intervento di azioni deliberate e coordinate, volte a orientare in una direzione predetermi-
78 M. Luzzati, Dal prestito al commercio: gli ebrei dello Stato fiorentino nel secolo XVI, in La casa dell'ebreo, cit., pp. 265-295 (in particolare p. 276).
79 Ivi, p. 272.
80 R. Segre, Tbejews in Piedmont, cit., p. XVIII.
81 Histoire des Juifs en France, a cura di B. Blumenkranz, Toulouse, 1972, p. 18.
82 V. Colorni, Cognomi italiani a base toponomastica straniera, in ItaliaJudaica III, cit., pp. 31 sgg. (in particolare pp. 38-43).
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nata una serie di tensioni già in atto». Non si suppone «resistenza di un’unica centrale coordinatrice» e neppure la malafede dei promotori: «in realtà la malafede è, in questo contesto, irrilevante - oltre che inverificabile. L’uso della tortura nei processi per strappare una versione già confezionata, o la fabbricazione di falsi per scopi pii o meno pii sono (allora come oggi) operazioni che è possibile compiere anche in perfetta buona fede, nella convinzione di certificare una verità di cui malauguratamente mancano le prove»83.
Sono argomenti validi anche per i processi contro gli ebrei incolpati di omicidio rituale o di profanazione dell’ostia consacrata: imputazioni che, a loro volta, li accomunano a streghe e stregoni. Naturalmente la ricerca di Ginzburg - che, dopo i capitoli iniziali, spazia su età e orizzonti di sterminata dimensione - si sofferma su quei casi soltanto come spie di tensioni politico-sociali e come testimonianza del riemergere di antiche credenze, destinate a cristallizzarsi nei processi di stregoneria. Un episodio meriterà ricordare qui: nel 1409 Alessandro V (il papa eletto dal concilio di Pisa nel tentativo di porre fine allo scisma d’Occidente) emanò una bolla per lamentare e condannare l’esistenza di sette, in cui si sarebbero riuniti insieme cristiani ed ebrei, il diffondersi in tali ambienti del Ta/mùd, la pratica di riti e il propagarsi di credenze contrarie alla dottrina della Chiesa. Se l’improbabile accusa riguardante il Ta/mùd sembra rispecchiare piu che altro una delle preoccupazioni ossessive della polemica antiebraica, si può nondimeno concordare con Ginzburg quando osserva che, grazie alla bolla papale «s’intravede un fitto tessuto di scambi culturali e sociali tra comunità religiose diverse, in una zona in cui erano confluiti gran parte degli ebrei cacciati dalla Francia e da Avignone». Destinatario della bolla era infatti l’inquisitore di una regione assai vasta, comprendente le diocesi da Aosta e da Ginevra fino ad Avignone e a Vienne, il francescano Ponce de Fougeyron (o Fougerons), che sarà ancora al centro di nuove persecuzioni antiebraiche in Savoia fra il 1418 e il 143084.
Ginzburg è interessato a queste «possibili deviazioni sincretistiche» per gli elementi che può individuarvi, destinati a confluire nello stereotipo del sabba, e ricorda a questo punto un «incunabolo» della letteratura demonologica, il Formicatius del domenicano tedesco Johannes Nider, redatto durante la sua permanenza a Basilea in occasione del concilio, fra il 1435 e il 1437. «Nelle sue
83 C. Ginzburg, Scoria notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, 1989, p. 23.
84 Ivi, p. 42. Può essere il caso di notare che la bolla di Alessandro V, citata da Ginzburg da fonte indiretta, menziona insieme «nonnulli Christiani et perfidi ludaei». Una bolla del suo successore Martino V, inviata da Ginevra, il 24 luglio 1418, sempre al francescano Ponce de Fougeyron, inquisitore nella città e diocesi di Avignone «ac nonnullis aliis partibus», riprende quasi testualmente il testo di Alessandro V (ricordato nella bolla), ma menziona soltanto «nonnulli perfidi ludaei». Anche qui, tuttavia, si parla di «novas sectas» e del coinvolgimento in pratiche proibite del «popolo cristiano». Ancora lo stesso papa, al medesimo inquisitore avignonese e al suo coadiutore Pierre Cotin, mandava da Roma, il 23 dicembre 1421, un’altra bolla che autorizzava a procedere «contra dictos ludaeos super novis sectis et ritibus fidei Catholicae repugnantibus». Cita queste bolle Segre, TbeJews in Piedmont, cit., pp. XIX-XX, nota 32 (per il testo di queste bolle si veda Tbe Apostolic See and tbe Jews. Documenti: 1394-1464, a cura di Sh. Simonsohn, Pontificai Institute of Mediaeval Studies, Studies and Texts 95, pp. 674-677 e 703-706).
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pagine si affaccia [...] l’immagine ancora sconosciuta di una setta di streghe e stregoni, ben distinta dalle figure isolate di malefiche o di incantatori ricordati nella letteratura penitenziale o omiletica medievale»85. Ed ecco, fra le accuse mosse a questa setta, ritornare l’omicidio rituale e la profanazione dell’ostia: quelle stesse, appunto, rivolte contro gli ebrei a partire rispettivamente dal secolo XII e XIII, ricollegabili d’altronde - come risulta dalla ricerca di Ginzburg - ad antiche credenze, riemerse e diffusesi in quell’età.
Sul Formicarius aveva già attirato l’attenzione Trevor Roper, che aveva anche rilevato «l’analogia fra la persecuzione contro gli ebrei e quella contro le streghe», insieme con «l’intercambiabilità delle vittime», per cui era accaduto che gli ebrei venissero accusati di pratiche stregonesche e le streghe fossero equiparate (non sembra con altrettanta frequenza) agli ebrei86. Lo studioso inglese, nell’indagare sulla contraddizione fra «gli apparenti lumi» dell’età che va dal Rinascimento alla rivoluzione scientifica, e la virulenza di una superstizione - la credenza nella stregoneria - che provocò orrendi massacri, aveva prestato attenzione alla persecuzione stessa piuttosto che ai comportamenti e alle credenze dei perseguitati87. Era stato infatti spinto a quello studio dal «risorgere, persino in società civili, di fantasie barbariche non meno grottesche, ma di gran lunga più criminali, dell’ossessione della stregoneria»88. Il riferimento immediato era allo sterminio nazista degli ebrei, ma più avanti accennava anche al «maccarthismo» negli Stati Uniti e, parlando di «confessioni assurde», sembrava alludere ai processi staliniani. Non gli appariva dunque accettabile procedere lungo la via seguita dagli storici liberali, che avevano concepito «il secolare processo come un continuo dialogo fra la superstizione, nelle sue forme sempre diverse, e la ragione, che era sempre la stessa». Riprendendo un’osservazione di Lucien Febvre, cercava pertanto di individuare un rapporto fra le strutture intellettuali e quelle sociali, convinto che «la spiegazione dei mutamenti culturali può dover essere cercata anche al di fuori della storia del pensiero»89.
La stregoneria fini con l’essere identificata dai suoi persecutori con l’eresia, osserva Trevor Roper: un’eresia delle regioni montane, mantenutesi estranee alla «civiltà medievale, feudale, delle regioni di pianura, o almeno delle terre coltivate, sulle quali si sostenevano il maniero e la sua organizzazione». La persecuzione gli appariva dunque un fenomeno di «intolleranza sociale», e
85 Ginzburg, Storia notturna, cit., p. 43.
86 H. Trevor Roper, Protestantesimo e trasformazione sodate, Bari, 1969, pp. 13 3-240. A p. 147 la citazione di G. L. Burr, lo studioso americano della stregoneria, legato a H. C. Lea, sul Formicarius, «il primo saggio divulgativo sulle streghe». Per gli altri due passi si vedano pp. 153 e 155.
87 L’osservazione è di Ginzburg, Storia notturna, cit., p. XV. Mi pare che Ginzburg liquidi troppo sbrigativamente la ricostruzione delle credenze popolari in fatto di stregoneria, tentata da Trevor Roper, criticato soprattutto per non aver fatto ricorso al contributo di antropologi.
88 Trevor Roper, Protestantesimo, cit., p. 143.
89 Ivi, p. 144: la citazione da L. Febvre è naturalmente tratta da Sorcellerie: sottise ou revolution mentale, da «Annales ESC», 1948, p. 14, ora in Id., Au coeur religieux du XVIe siede, Paris, 195 7, pp. 301-309 (ma per il testo di questa riedizione si veda il curioso errore segnalato da Trevor Roper).
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osservava: «l’analogia fra la persecuzione contro gli ebrei e quella contro le streghe, che raggiunsero il loro apice contemporaneamente in luoghi diversi», è da spiegarsi con il fatto che «la strega e l’ebreo sono entrambi una manifestazione di non conformismo sociale». Per questo, «in un periodo di espansione, nel XIII secolo, la società “feudale” dell’Europa cristiana entrò in conflitto con gruppi sociali, che essa non era in grado di assimilare»90.
Quello che appare debole nell’analisi dello studioso inglese è proprio il tentativo di spiegare la concomitanza della lotta contro le streghe e contro gli ebrei. Se il «non conformismo sociale» è un’indicazione abbastanza generica da poter essere adattata a varie situazioni, le «strutture sociali» individuate sono poco precise e al tempo stesso improprie per motivare la persecuzione sia contro «eretici» di aree marginali (le streghe), sia contro una popolazione radicatamente urbana (gli ebrei); essa, inoltre, ebbe si inizio in «un periodo di espansione», ma prosegui cruenta ai tempi della crisi del secolo XIV, e si sviluppò ulteriormente nel corso dei tre secoli successivi, fossero di crescita o di declino economico. D’altra parte, non è per ostinarsi a cercare moventi nella storia del pensiero se si rileva quanto fossero profonde, nell’Europa cristiana, le radici dell’ostilità per le pratiche stregonesche, derivata da testi biblici come dalla tradizione giuridico-politica romana. «Tanta era la strage che dappertutto si vedeva, che quella non sembava una carneficina di uomini, ma di greggi», è il commento di Ammiano Marcellino (19-40) a conclusione del racconto sui feroci procedimenti di cui furono vittime, in età tardo-antica, coloro che vennero accusati di riti e pratiche riconducibili in qualche modo alla magia91. E se le sue parole potrebbero ben adattarsi all’epoca della caccia alle streghe, tuttavia le ragioni di quelle persecuzioni sono profondamente diverse da quelle che provocheranno gli eccidi di tanti secoli dopo.
Non per questo si vuole negare che all’origine di tali vicende vi siano motivazioni anche di storia sociale. Ma a questa - proprio perché ha come oggetto di studio masse numerose e organismi complessi - si può ricorrere utilmente solo prendendo in considerazione ambiti più circoscritti. Tale è, ad esempio, il caso studiato da Renata Segre, a proposito della fiammata persecutoria scatenatasi nel secolo XV contro gli ebrei nell’Italia centro-settentrionale. È l’epoca - osserva questa studiosa, sviluppando alcune indicazioni di Polia-kov92 - in cui «le forze elitarie della società ebraica (banchieri, medici e cosi via dicendo) più sono integrate nel mondo circostante». Senza pensare all’Italia del tempo come «a cosi riposato, a cosi bello viver di cittadini» (quasi la Firenze dentro dalla cerchia antica, vagheggiata da Dante), va dato atto che l’esistenza
90 Ivi, pp. 150, 152, 153 e 231.
91 Su tali vicende si veda A. A. Barb, La sopravvivenza delle arti magieòe, in Aa. Vv., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, Torino, 1968, pp. 111-137. Barb muove - è opportuno segnalarlo - da preoccupazioni analoghe a quelle di Trevor Roper: «La rassicurante fede nell’evoluzione che induceva gli studiosi a considerare la magia, nella storia del progresso umano, come uno stadio primitivo, [...] è stata infranta dalle vicende di cui siamo stati testimoni in questo secolo. Oggi non vi è praticamente nessuno tanto cieco da credere in un evoluzionismo ottimistico».
92 R. Segre, Banchi ebraici e Monti di Pietà, in Gli ebrei e Venezia, cit., pp. 565-570, e Poliakov, Les banchierijuifs, cit., pp. 182 sgg.
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degli ebrei era allora regolata da forme contrattuali generalmente rispettate, né fu turbata, se non eccezionalmente, da gravi episodi di violenza. Le cose cominciarono a cambiare quando «si affaccia prepotentemente sulla scena, in modo diverso da luogo a luogo, una nuova classe, il patriziato, che, seppure con modalità e caratteristiche varie, in grande misura riesce [...] a penetrare nei gangli nevralgici del potere».
Altri sono gli interessi e gli obiettivi del nuovo gruppo egemone rispetto a quelli dei ceti comunali: esso «non ha più bisogno del prestito gestito al modo classico dal banco feneratizio», poiché «dispone già di capitali propri e vuole intervenire sulla situazione locale per modificarla in funzione del suo nuovo potere». A tale scopo rispondono i Monti di Pietà, che i francescani del movimento dell’Osservanza, seguaci di Bernardino da Siena, si sforzano di introdurre nelle città italiane a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Il loro proposito - come si legge, ad esempio, negli statuti di Gubbio - risponde a una duplice esigenza: sono eretti «in onore de Dio», per proteggere i cristiani dall’usura, e «per evidente utilità et bene de tucta questa città et in subsidio de le persone bisognose in le cose lecete»93. In realtà, osserva la Segre, mentre i banchi ebraici, diffusi nei centri minori e nei borghi rurali, operavano anche in presenza di una garanzia - la «scritta» - di un mallevadore, gli statuti dei Monti di Pietà prescrivevano obbligatoriamente la consegna di un pegno. Perciò tali istituti, «concentrati nelle città e quindi sostanzialmente rivolti ai soli ceti urbani, restringevano ulteriormente la fascia dei loro utenti a quanti erano in grado di privarsi, almeno temporaneamente, di oggetti da impegnare». I Monti non prevedevano, d’altra parte, mutui nelle campagne (troppo esposti all’alcatorietà della produzione agricola e diffìcilmente garantiti per l’impossibilità di impegnare gli strumenti agricoli), né prestiti a medio e lungo termine, come quelli necessari per la produzione manifatturiera o il commercio su grandi distanze.
Senza certamente idealizzare la figura del prestatore ebreo, va tuttavia ricordato che i rapporti fra chi praticava il commercio del denaro e la popolazione cristiana - ecclesiastici compresi - non erano generalmente cattivi (anzi, sappiamo di molti casi di relazioni amichevoli). Abbiamo tuttavia presente che il prototipo dello Shylock shakespeariano si trova nel Pecorone di ser Giovanni, un testo dell’ultimo scorcio del secolo XIV94, scritto in una Firenze dove stava per affermarsi al potere l’oligarchia patrizia dominata dagli Albizzi. È un quadro d’insieme che rivela di scorcio le trasformazioni della società italiana: mentre i Monti arrivano a scoraggiare «ogni iniziativa di quanti possiedono solo la loro arte», si trova favorita «l’egemonia delle nuove classi emergenti del patriziato e dei mercanti-committenti, proprietari delle materie prime e dei
93 Cit. da B. Geremek, Il pauperismo nell’età preindustriale, in Storia d’Italia Einaudi, voi. V, p. 684.
94 Cfr. R. S. Lopez, Ebrei di passaggio nella letteratura medievale italiana, in Italia Judaica I, cit., pp. 455-466. Di antica derivazione, la novella del Pecorone compare nella letteratura italiana «pochi anni dopo la morte di Boccaccio e all’inizio di una lunga depressione economica, accompagnata da malessere religioso» (p. 463).
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capitali»95. Certamente, l’accentuata propensione dei nuovi gruppi dominanti per la proprietà fondiaria non può dispiacersi della scomparsa di banchi feneratizi nelle campagne, se anche per la cessazione di simili attività i distretti rurali si troveranno alleggeriti da una pericolosa popolazione indigente, costretta a inurbarsi: essa contribuirà ad accrescere le schiere dei vagabondi, contro cui, dal primo Cinquecento, si moltiplicheranno i provvedimenti di reclusione o di espulsione.
Si affaccia allora una nuova visione del pauperismo, per influsso della lunga fase recessiva seguita alla crisi del secolo XIV, che aveva visto non solo moltiplicarsi lo stuolo dei miserabili, ina anche farsi sempre più difficile la loro reintroduzione nelle attività produttive. In qualche modo, i Monti di Pietà anticipano - poi saranno emanate precise norme in proposito dalle autorità civili - la distinzione dei poveri in due categorie: gli uni, nonostante l’indigenza, dispongono di oggetti da dare in pegno, e possono ottenere piccoli prestiti a breve termine per superare momenti di emergenza; gli altri sono considerati irrecuperabili e quindi da emarginare. In loro aiuto si dovrà intervenire con le elemosine, e a tale scopo rispondono i conventi, gli ospedali, gli ospizi di carità e i reclusori d’ogni genere. Nei momenti di tensione, poi, contro i più miserabili si ricorrerà al bando.
L’introduzione dei Monti di Pietà, più che la causa, appare dunque un effetto della nuova situazione, che si rivela sfavorevole all’attività dei banchi ebraici, svoltasi fino allora non tanto nei centri maggiori, quanto nelle varie cittadine e nei borghi rurali. In effetti, anche quando sussiste, superando la tempesta di fine Quattrocento e del primo Cinquecento, l’attività feneratizia si illanguidisce e perde gran parte del suo ruolo di stimolo economico e di mediazione fra ceti altolocati e classi popolari. Ne danno conferma due studi, riguardanti un’epoca posteriore, ma rivelatori dell'esaurirsi appunto del ruolo economico-sociale che un tempo aveva avuto la presenza di un banco ebraico.
Luzzati ha indagato sui tentativi del potere mediceo di avvalersi, intorno alla metà del secolo XVI, dell’opera di prestatori ebrei per rianimare l’economia toscana96. Si riattiva allora, nei centri medi e piccoli dello Stato fiorentino, una rete di banchi che riprendono però il gioco tradizionale, scegliendo di operare nelle aree più redditizie, anziché intervenire per promuovere nuove attività, ma anzi «restando sordi alle sollecitazioni del governo perché si inseriscano in settori più produttivi della vita dello Stato e perché scelgano sedi e ruoli disagiati». Alla fine «il governo ducale non tarderà a far pagare il prezzo di questo atteggiamento “conservatore”»: nel 1570 Cosimo I decide di istituire i ghetti a Firenze e a Siena per gli ebrei dell’intera Toscana, ponendo loro l’alternativa fra la reclusione in quei quartieri ristretti o l’espulsione. Era il tributo che anche il granduca - debitore del suo titolo al papa - doveva pagare alla campagna antiebraica lanciata dalla Chiesa della Controriforma; ma in
95 Segre, Banchi ebraici, cit., p. 567.
96 Luzzati, Dal prestito, cit., pp. 276 sgg. Per questi problemi si vedano anche gli studi di M. Cassandre: Perla storia delle comunità ebraiche in Toscana nei secoli XV-XVII, in «Economia e storia», 1977, pp. 425-450; Gli ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento, Milano, 1979; Aspetti della storia economica e sociale degli ebrei di Livorno nel Seicento, Milano, 1983.
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quel momento non gli appariva gravoso, proprio perché aveva constatato la scarsa utilità della presenza diffusa degli ebrei nei suoi domini. Quando, venti anni dopo, il governo mediceo giudicherà utile sottrarsi in parte a tale scotto, mostrerà - osserva Luzzati - di poter adottare grande «elasticità» nell’applicazione di simili misure, promulgando la famosa «livornina» e concedendo a ebrei di ogni provenienza di insediarsi nel porto franco toscano.
Era questa, del resto, una pratica a cui aveva già cercato di fare ricorso Emanuele Filiberto per favorire soprattutto il suo sbocco marittimo di Villafranca, presso Nizza, quando aveva invitato i membri della «natione hebrea e d’essa stirpe, cosi italiani, tedeschi, spagnuoli, portughesi, di Levante, Barbaria, di Soria» a insediarsi «in questi nostri Stati di Savoia et contado di Nizza et Piemonte», concedendo loro «libero, inviolabil et inrevocabile salvacondutto et ferma et inconcussa sicurezza». La decisione, presa invocando «le lettere appostoliche della felice memoria del papa Giulio terzo, in confìrmatione d’altre lettere simili di papa Paolo terzo» (quelle stesse che erano state violate da Paolo IV e dal pontefice allora regnante, Pio V), appariva quasi provocatoria nel 1572, a pochi mesi dalla battaglia di Lepanto che aveva suscitato focosi spiriti di crociata nella cristianità. Filippo II era intervenuto, e il duca era stato costretto ad abrogare quanto meno i privilegi concessi ai marrani, preoccupandosi tuttavia che essi potessero lasciare i suoi Stati «sicuramente e senza impedimento né disturbo alcuno»97. Ai Savoia la grande iniziativa mercantile e finanziaria del porto franco non riuscì, a differenza di quel che avvenne a Livorno, ma gli ebrei dei loro domini poterono continuare a esercitare la tradizionale attività feneratizia in diverse località grandi e piccole, contrariamente a ciò che accadde in Toscana: un segno della varietà di situazioni economiche esistente negli Stati della penisola, su cui non è stato forse indagato abbastanza.
Un altro studio, in qualche modo parallelo a quello di Luzzati, è stato condotto da Toaff sulle «comunità di confine» fra il granducato di Toscana e lo Stato pontificio: erano le «città rifugio» di Pitigliano e Sorano, feudo dei conti Orsini; il marchesato di Monte Santa Maria, soggetto ai Bourbon, con i piccoli centri di Lippiano e di Gioiello, e il marchesato di Monte San Savino, ottenuto dagli Orsini nel 1608 in cambio della contea di Pitigliano, ceduta al granduca Ferdinando I98. Sebbene i banchi di questi centri avessero ottenuto di operare nelle vicine terre toscane e umbre - dalla Maremma alla Val di Chiana e all’alta valle tiberina - la loro attività «non era affatto autonoma ed autosufficiente», ma dipendeva strettamente da Roma, e venne rapidamente esaurendosi fino a scomparire nella prima metà del Seicento. Da allora «rimarranno nei paesi della Maremma, del Monte Amiata e dell’alta valle del Tevere le botteghe dei venditori di pannine e i magazzini dei mercanti di fiera, degli ambulanti e dei girovaghi della domenica, non molto più ricchi dei loro clienti».
97 Segre, The Jews in Piedmont, cit., pp. LITI sgg. e documenti citati in nota.
98 A. Toaff, Il commercio del denaro e le comunità ebraiche «di confine» (Pitigliano, Sorano, Monte San Savino, Lippiano) tra Cinquecento e Seicento, in ItaliaJudaica II, cit., pp. 99-117.
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Se le analisi di Luzzati e di Toaff riflettono una situazione generale, l’esito della lotta dei Monti di Pietà contro i banchi ebraici non è dunque da attribuirsi a sole ragioni politiche. D’altra parte appare fondato quanto afferma Renata Segre su «una sostanziale e durevole intesa tra Consigli cittadini e frati zoccolanti nel promuovere, più o meno cautamente, i Monti e nel combattere, sempre e comunque, i banchi ebraici»99. Infatti, se i Monti non potevano arricchire chi li gestiva, «amministrare i patrimoni fondiari e i depositi di questi enti costituiva un nuovo e nevralgico centro di potere nelle città italiane». In tal senso la predicazione antiebraica dei francescani può essere vista come uno strumento per penetrare nelle economie cittadine, e di ciò la Segre trova conferma anche nel Piemonte quattrocentesco100. Se non è facile «individuare le origini geografiche e di classe degli interessi e della diffusione culturale degli ordini mendicanti», si può ragionevolmente scorgere in quei religiosi «i portavoce, la testa di ponte della classe emergente», a cui del resto appartenevano Bernardino da Feltre o Angelo da Chivasso, usciti l’uno dalla famiglia dei Tomitano, grandi finanzieri e notai, l’altro dalla famiglia Carletti, noti appaltatori delle finanze sabaude101.
È superfluo osservare che le motivazioni economico-sociali non bastano da sole a spiegare l’ondata antiebraica che percorse l’Italia del Quattrocento. Come è noto, essa culminò nell’eccidio di Trento, dopo che nella settimana santa del 1475 la predicazione di Bernardino da Feltre aveva acceso gli animi di quella popolazione, e il ritrovamento del cadavere di un ragazzo - poi canonizzato come san Simonino - diede luogo all’accusa di omicidio rituale. Anche in quel caso vi furono evidenti responsabilità di gruppi di potere, tanto che lo stesso inviato pontificio, incaricato di indagare sul processo che aveva portato al rogo tredici ebrei e aveva avuto come conseguenza il bando dei superstiti, non riuscì a fare luce102. In quegli anni accuse analoghe si moltiplicarono un po’ dappertutto, quasi sempre con esiti drammatici. La vicenda di «un santo mancato», svoltasi a Bevagna, in Umbria, nel 1485, consente a Toaff di mostrare il meccanismo che conduceva alla fabbricazione di simili martirologi. In quell’anno lo stesso Bernardino da Feltre aveva tenuto la sua predicazione in Umbria, con conseguenze disastrose per le comunità ebraiche, che avevano dovuto cessare quasi dappertutto l’attività feneratizia e abbandonare alcuni centri urbani, come Gubbio. Medesimo risultato il frate aveva ottenuto ad Assisi: «Passando io qua de Eugubio - si vantava in una lettera - feci doi prediche contra le usure de’ iudei et in favore del monte della pietà, e per la grana de Dio ho trovato, venuto qui al presente, che fumo de tanta efficacia che in tutto fune levato el iudeo da prestare in perpetuo, né gli valse sue
99 Segre, Banchi ebraici, cit., p. 568.
100 Id., The Jews in Piedmont, cit., pp. XXXV sgg.
101 Id., Banchi ebraici, cit., p. 567.
102 La drammatica vicenda trentina e l’insuccesso dell’inchiesta condotta dal vescovo di Ventimi-glia, commissario papale incaricato di indagare sul processo, persuasosi dell’infondatezza delle accuse, sono stati studiati nell’introduzione di D. Quaglioni alla sua edizione di Battista de’ Giudici [vescovo di Ventimiglia], Apologia ludaeorum. Invectiva contra Platinata, Roma, 1987.
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malitiose arti». Anzi, i governanti di Assisi avevano deciso «de non voler più usura né iudei»103.
In tale clima i familiari di Abramo da Bevagna - un ricco prestatore, morto alcuni mesi prima, che si era fatta una fortuna, diventando proprietario di tre banchi, in Bevagna stessa, ad Assisi e ad Amelia, ed era cointeressato in attività finanziarie nei maggiori centri umbri - vennero accusati di tentato omicidio da un ragazzetto del luogo. Il venerdì santo - dichiarò questi - era stato attirato nella casa dei banchieri ebrei, frustato e crocifisso. Come si fosse salvato, non lo diceva: dall’inchiesta condotta dal frate inquisitore della provincia emersero invece fatti che ci suggeriscono come fosse maturata quella montatura. La famiglia del ragazzo era debitrice, per un prestito di vecchia data, verso i figli di Abramo da Bevagna, e la madre si era impegnata a restituire la somma prima di Pasqua. Sia lei che il marito erano però fuori città nel giorno del presunto tentativo di omicidio. Il ragazzo, poi, aveva fatto arrestare la madre come complice degli ebrei, e alle proteste di questa aveva ribattuto: «Agio auto paura che non me facciate male», insistendo nella sua versione dei fatti.
Alla fine il processo si era concluso con una condanna dei prestatori ebrei a una multa di 200 ducati d’oro e al bando dalla città: una pena severa, che non coinvolgeva tuttavia gli altri ebrei, accusati, durante il processo, di essersi riuniti quella sera a far baldoria in casa degli imputati (era in effetti la fine del primo giorno della Pasqua ebraica e veniva celebrato per la seconda volta il seder, la cena rituale di questa festività). Ma ancora venti anni dopo, un mendicante del luogo avrebbe lanciato contro gli ebrei gravissime accuse (rivelatesi poi del tutto infondate), in cui si può notare la reminiscenza di quel martirio mancato. Toaff può dunque concludere che la documentazione di tali vicende consente di «ricostruire paradigmaticamente il clima di quegli anni, che seguirono la fondazione dei primi Monti di Pietà in Umbria, il mutamento di umore della popolazione nei confronti degli ebrei, la funzione pilota esercitata dalla predicazione minorità nella contestazione radicale della presenza economica e fisica degli ebrei in seno alla società cristiana»104.
Si vorrebbe comprendere meglio il cambiamento di mentalità che provocò nel Quattrocento il propagarsi di tanta animosità contro gli ebrei. Certamente l’analisi, come non può prescindere dall’emergere di nuovi gruppi di potere, dovrà tener conto dei nuovi rapporti fra città e campagna, e delle stratificazioni che vanno formandosi in società cambiate anche per l’affermarsi degli Stati regionali, con i loro nuovi apparati burocratici e fiscali. D’altro canto, l’insorgere di nuove forme di religiosità è già stato rilevato da Miccoli105 e molte indicazioni possono venire da un esame delle riflessioni sulla vita civile e degli atteggiamenti conseguenti di parte ecclesiastica. Vi è senza dubbio un bisogno di giustizia, evidente ad esempio in sant’Antonino, un’ansia spirituale, che si
103 Citato da Toaff, 1/ vino e la carne, cit., p. 167.
104 Ivi, pp. 172-173.
105 G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia Einaudi, voi. II, pp. 827-875 e 907-969.
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manifesta nelle aspirazioni alla riforma della Chiesa e nelle stesse attese apocalittiche di fine secolo, su cui aveva attirato l’attenzione già Cantimori106. Adriano Prosperi ha messo in luce lo spirito decisamente antiebraico che anima un importante documento della Riforma cattolica, il Libellus ad Leonem X, redatto dai due noti camaldolesi veneziani Querini e Giustiniani, in occasione della ripresa del V Concilio lateranense107. Il Libellus è stato studiato generalmente per le proposte di rinnovamento della Chiesa, che, secondo gli autori, avrebbe dovuto essere principalmente opera del papa. Esso però contiene anche un duro attacco contro gli ebrei, in relazione - osserva Prosperi - con le conoscenze appena acquisite sulle popolazioni del Nuovo Mondo e con il significato che poteva assumere l’esistenza di genti alle quali non era pervenuto fino allora il messaggio evangelico. I due camaldolesi sentono incombere un’età nuova e giudicano urgente una profonda trasformazione della vita cristiana. In tale quadro appare loro necessario porre fine all’anomalia -favorita nei secoli precedenti dalla stessa politica papale - della presenza degli ebrei nella cristianità. Suggeriscono pertanto una serie di misure che li costringano a convertirsi: premi per coloro che avessero accettato il battesimo, persecuzioni sempre più dure per coloro che si fossero ostinati nella loro «cervicosa perfidia». Finalmente si sarebbe dovuto stabilire un termine ultimo, entro il quale gli ebrei avrebbero dovuto o convertirsi o abbandonare del tutto i paesi cristiani. A pochi anni dalla cacciata dalla Spagna, la minaccia suonava quanto mai sinistra.
Che l’opera di proselitismo e conversione, appoggiata da premi, da un lato, da crescenti vessazioni e limitazioni, dall’altro, non fosse intrapresa da Leone X, ma cominciasse soltanto con il papato di Paolo III, il papa che aprì il Concilio tridentino, per svilupparsi sotto Paolo IV e i suoi successori, induce a mettere in rapporto diretto quei suggerimenti dei camaldolesi veneziani con l’azione condotta dalla Chiesa dopo che si era trovata nella necessità di controbattere l’offensiva protestante. «E un fatto - nota Prosperi - che coincide con tutti gli altri segni di espansione e di aggressività cattolica, che hanno alimentato tutta la discussione terminologica su Riforma cattolica, Controriforma, Restaurazione cattolica e cosi via». La politica antiebraica è considerata come «un aspetto di quella spinta espansiva, per la propagazione della fede cattolica, che doveva sboccare nella scoperta del termine e della realtà della “propaganda”»: viene giudicata pertanto come uno degli elementi capaci di mostrare il rapporto, stabilito da Jedin, «tra papato tridentino e forze disponibili nel movimento di “autoriforma delle membra” quattrocentesco». Senza dubbio, secoli di accanita polemica contro gli ebrei108 non possono non avere condizionato la vita della Chiesa anche in ambito spirituale. Ma queH’^'^^ di violenza e di sopraffazione mi sembra arrivi a incrinare proprio certe valutazioni positive che
106 D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze, 1939, pp. 10 sgg., e Id., Le idee religiose del Cinquecento, in Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e E. Cecchi, Milano, 1967, voi. V, pp. 7 sgg.
107 A. Prosperi, La Chiesa e gli ebrei nell’Italia del '500, in Aa.Vv., Ebraismo e antiebraismo: immagine e pregiudizio, Firenze, 1989, pp. 175-177.
108 Si veda F. Parente, Il confronto ideologico, cit., pp. 303 sgg.
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- in considerazione dell’originalità individuata in talune tendenze riformatrici cattoliche, non conseguenti né dipendenti dalla protesta luterana - aveva portato il grande storico tedesco a distinguere la Riforma cattolica dalla Controriforma109.
Le bolle di Paolo III Cupientes ludaeos (1542) e Pro dominici gregis (1543), riguardanti i conversi e l’istituzione della Casa dei catecumeni, segnarono l’inizio di un nuovo atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei, destinato a svilupparsi in una decisa politica conversionistica nel corso del Cinquecento. Che tale azione fosse animata da un’ispirazione rigeneratrice (connessa cioè con le attese di rinnovamento diffusesi nel secolo XV) è innegabile: la conversione degli ebrei doveva essere, nelle credenze cristiane, uno dei segni della fine dei tempi e del trionfo di Cristo. D’altra parte «l’ansia controriformistica di risolvere in modo definitivo il problema ebraico»110 diede vita a uno spirito di crociata e fu all’origine di innumerevoli violenze fisiche e spirituali. Il mondo ecclesiastico aveva fondati motivi per credere nella possibilità di portare a termine con successo tale operazione: nella seconda metà del Quattrocento il numero delle conversioni era stato assai elevato, sotto la spinta congiunta della predicazione francescana e delle misure persecutorie. Era lecito pensare che coordinando l’azione dal centro della cristianità, avvalendosi dell’autorità della gerarchia e dello stesso pontefice, distribuendo premi e vantaggi ai convertiti e inasprendo dappertutto le condizioni di vita di coloro che si ostinavano nell'«errore», si potesse giungere a soluzioni definitive. Renata Segre ha illustrato l’impegno e lo zelo di cardinali e alti prelati dediti all’opera conversionistica, le cerimonie edificanti, l’attribuzione di nomi nobilitanti ai neofiti, come pure i sequestri e i rapimenti di adulti o di giovani e bambini che si pensava intenzionati o addirittura desiderosi di farsi cristiani. Un editto papale del 1635 avrebbe poi disposto che un convertito, se voleva che la moglie, la promessa sposa, i figli o altri stretti consanguinei seguissero la sua scelta, poteva denunziarli e ottenere che i familiari recalcitranti fossero tradotti nella Casa dei catecumeni111.
Che cosa significasse l’indottrinamento nelle istituzioni conversionistiche, ce lo ha illustrato Sermoneta, pubblicando il diario di una giovane ebrea di Roma denunziata - sembra per vendetta - da un presunto fidanzato e rinchiusa nel maggio 1749 nella Casa dei catecumeni. È un documento agghiacciante per l’immediatezza con cui la ragazza, Anna del Monte, ha saputo dare testimonianza della vicenda. Durante la sua reclusione «ebbe 54 incontri, discussioni e conversazioni con 38 persone diverse e fu costretta ad ascoltare almeno 80 ore
109 II riferimento è naturalmente al classico saggio di H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma?, Brescia, 1957.
110 R. Segre, 1/ mondo ebraico nel carteggio di Carlo Borromeo, in «Michael», I, 1972, pp. 163-260, e Id., Il mondo ebraico nei cardinali della Controriforma, in ItaliaJudaica. Gli ebrei in Italia tra Rinascimento ed Età barocca. Atti del II Convegno intemazionale. Genova 10-13 giugno 1984, Roma, 1986, pp. 119-138.
111J. B. Sermoneta, Tredici giorni nella Casa dei conversi: dal diario di una giovane ebrea del XVIIIsecolo, in «Michael», I, 1972, p. 263.
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consecutive di prediche»112. Il senso di pressione psicologica e morale che quelle pagine ci trasmettono può farci pensare alla violenza spirituale di cui fu vittima la «monaca di Monza». A Gertrude bastarono «quattro o cinque lunghi giorni di prigionia» per indurla a cedere e a scrivere al «principe (non mi regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre)», commenta Manzoni113; Anna resistette tredici giorni, assillata da personaggi che avrebbero ambito al titolo di madre (la priora), di padre (il curato, un predicatore, un abate, vari preti), di fratello e sorella (due conversi). In realtà, il senso di solitudine che l’angosciava, mentre era martellata dai discorsi dei vari persuasori, avrebbe dovuto spingerla a pensare che per lei non ci fosse speranza, e non stupisce se tale esperienza le procurò una prostrazione fìsica che ebbe in seguito ripercussioni nervose. Obiettivo di quelle pressioni era forzarla a un assenso, qualunque fosse la ragione per cui l’aveva proferito. «Ah si!» è appunto l’esclamazione che sfugge a Gertrude, poi incapace di comprendere lei stessa «come mai quel si che le era scappato, avesse potuto significare tanto». Per Anna un si «puramente formale» avrebbe portato subito alla conversione, da cui non le sarebbe stato più possibile recedere, pena la vita. Ma il si sarebbe stato considerato valido anche se dato in risposta a una domanda qualunque: persino a chi le domandava se credeva nella fede dei suoi padri. Perciò soltanto la disperata negazione, un continuo «non so niente» o, se possibile, il silenzio erano le repliche da opporre in ogni occasione.
Era già molto che la sua caparbietà non venisse interpretata come una prova di possesso diabolico: che Satana contrastasse con tutti i suoi malefìci poteri la possibilità che tante anime si salvassero, era una certezza. «Sono venute molte anime al santo battesimo - aveva scritto un alto prelato - che ’l demonio, che vede questo, cerca di traversare quanto può per impedire la conversione»114. C’è da pensare che avesse effetto di scongiuro l’acqua che il predicatore getta in viso ad Anna, il quinto giorno di reclusione, dopo averla minacciata: «Di un poco, ti credi forse colla tua ostinazione che noi vi facciamo ritornare in vostra casa? Cavate velo pur dalla testa, poiché vi ritrovate nelle nostre mani, o avete da esser come noi, e credere quel vero Dio che crediamo noi, o avete a finire i vostri anni in questo chiostro, e non sperare di riveder mai più né padre né madre e nessuno dei vostri, e ve ne giuro che ci voglio impegnare il Sacro Collegio de Cardinali e l’istesso Pontefice»115. E altre volte ancora l’aspersione di acqua benedetta, oltre che addosso a lei, ai quattro angoli della stanzetta in cui era stata rinchiusa, suggerisce l’idea di pratiche esoreistiche.
Alle minacce si alternavano a volte allettamenti e promesse: «Se farete la sua obbedienza [del predicatore], sarete trattata e riverita più che una dama ed inoltre sarete cortegiata dalli primi principi e cavalieri di Roma». Alla fine, «stordita e quasi insensata», viene visitata dallo stesso vicegerente preposto al ghetto, che cerca di vincere le sue resistenze: «Ma tanta ostinazione di non
112 Ivi, p. 271.
113 E il noto finale del capitolo IX dei Promessi sposi; all’inizio del capitolo successivo l’incauto: «Ah si!».
114 Cit. da Segre, Il mondo ebraico nei cardinali della Controriforma, cit., p. 132 nota 43.
115 Sermoneta, Tredici giorni, cit., p. 302.
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riconoscere ed abbracciare la nostra vera Fede, dove la fondate?». Per parte sua, la priora, che le si era rivolta all’ultimo con finta amorevolezza: «Figlia mia, questa è l’ora di salvarvi l’anima! Fatelo ora, che pui non sarete in tempo [...]», davanti al rifiuto definitivo, sbotta: «Va’ in malora, che il Diavolo farà a palla della tua anima!». Anna viene ricondotta in ghetto, dove è accolta trionfalmente. Ma prima il vicegerente stesso vuole rassicurarla: «Kannà mia, vi chiedo scusa, e il vostro strapazzo farà si che nessun’altra lo riceverà, almeno fin che son io vicegerente»116. E il solo spiraglio da cui si intraveda che si è ormai ai tempi «illuminati» di Benedetto XIV.
Va tenuto presente, d’altronde, che se in quegli anni il battesimo di ebrei era pur sempre ricercato per conquistare singole anime, la politica conversionistica di massa era stata da tempo abbandonata per i suoi risultati deludenti. Renata Segre ha illustrato lucidamente gli esiti negativi di quell’operazione: dopo una prima fase trionfale, la resistenza di gruppi assai consistenti si rivelò insuperabile, mentre andarono moltiplicandosi i casi non solo di opportunismo, ma di «iucchi», i ribattezzati, per usare il vecchio termine dello Speculum cerretano-rum. Costoro - aveva spiegato l’autore, Teseo Pini - «fingono d’esser stati giudei ricchissimi per le molte usure; ma per aver visto visioni terribili, miracoli inauditi e incredibili [...] han lasciato quanto avevano, per seguir con la povertà Cristo povero». Non era però, il loro, un nuovo matrimonio tra san Francesco e Povertà. «In ogni città dove arrivano, di nuovo si battezzano, e dopo [...] vanno alla pesca della roba e denari altrui»117. I vari casi di avventurieri d’ogni risma, verificatisi dacché era stata lanciata l’azione conversionistica, inducevano un cardinale, altre volte pronto ad accorrere a battesimi di ebrei, ai quali aveva dato il proprio nome, a scrivere sul finire degli anni Settanta: «È molto tempo ch’io feci risolutione di non tenere, né far tenere figlioli a battesmo, si per la moltitudine di quelli che mi ricercavano, come per trovarmene già tanti»118. Non era in grado di seguirli nella nuova vita e troppo spesso aveva avuto ragione di lamentarsene. Cosi come Carlo Borromeo, che infatti aveva preso analoga «risolutione» dopo essersi ritrovato con un omonimo (da lui battezzato) in carcere per usure, «stocchi et civanzi» (profitti illeciti).
Il fallimento di quella politica conversionistica è giudicato dalla Segre decisivo per spostare l’azione contro gli ebrei verso la reclusione nei ghetti o l’espulsione. La serie delle «bolle infami», aperta nel 1555 dalla Cum nimis absurdum, ebbe la più rigorosa espressione nella Caeca et obdurata del 1593, quando tutti
116 Ivi, pp. 305, 312 e 313.
117 II libro dei vagabondi. Lo «Speculum cerretanorum» di Teseo Pini. «Il vagabondo» di Rafaele Frianoro, e altri testi di «furfanteria», a cura di P. Camporesi, Torino, 1973, pp. 44-45.
118 Segre, Il mondo ebraico nei cardinali della Controriforma, cit., pp. 128-129. Si veda poi in Id., Il mondo ebraico nel carteggio di Carlo Borromeo, cit., la lettera n. 181, del 5 marzo 1584: «Ma per dire a V. S. quello che io sento di questi tali [...] io gli ho poca fede, et son stato ingannato più volte da questa sorte di persone, et dalla riuscita che hanno fatto i passati non mi posso indurre a sperare più che tanto di contento: perché sotto pretesto di venire alla nostra fede ho trovato che molti di loro cercavano et havevano altri fini et interessi temporali, con fraudi et inganni; però ho risoluto un pezzo fa et giudicato più honor di Dio et più sicurezza della mia conscienza rimandare questi tali all’ordinario del luogo dove essi prima solevano habitare».
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gli ebrei, che non abitassero Roma, Ancona o Avignone, furono costretti ad abbandonare gli Stati della Chiesa. Davanti a queste e ad altre simili decisioni e comportamenti, e alle conseguenze drammatiche che ne derivarono, non può non suscitare perplessità l’interpretazione proposta di recente da uno studioso, per cui «l’aspirazione utopica verso la conversione» degli ebrei, nutrita e propugnata dal cattolicesimo della Controriforma, «anticipò inconsciamente la meta dell’emancipazione, che tenderà ad assorbire gli ebrei in un corpo sociale omogeneo»119. Curiosamente, in quei tentativi di conversione si individua «un primo passo verso la modernità» e se ne dà questa spiegazione: «Mentre il mondo medievale insisteva nel volersi liberare degli ebrei attraverso l’espulsione o il delitto, per il mondo moderno il problema sarà quello di trovare per loro una via di accesso: come cioè gli ebrei possano essere assorbiti e contenuti nella società intesa come un tutto». Per la verità, anche nel Medioevo, in alternativa all’espulsione, era proposta la conversione, e certamente le società medievali - proprio perché organizzate con altri criteri di coesione interna, essendo spesso composite e rette da istituzioni dotate di scarso potere accentratore - si mostrarono in vari casi più disponibili alla convivenza di elementi disparati, almeno nei periodi non travagliati da crisi. Invece, nella prima età moderna, le diversità furono tollerate assai meno e, quando sopravvissero, rimasero come corpi sclerotizzati entro gli assetti che le nuove forme statuali venivano dandosi.
Se è vero che sia la conversione forzata, sia l’emancipazione possono avere avuto come risultato la «omologazione» degli ebrei, ossia il loro assorbimento nella parte maggioritaria della società, esiste pur qualche diversità fra la violenza esercitata sulle coscienze per indurle ad abbracciare un’altra fede, e il riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti. Certo, non è pensabile che l’ipotesi sia stata avanzata - ben nota è la serietà dello studioso - senza valutare tali differenze. Ma i procedimenti comparativi non possono prescindere dai nessi causali insiti nella natura dei fenomeni messi a confronto. Ora, quand’anche non si voglia esprimere un giudizio di valore sull’«ideale escatologico» di una città terrena dominata da un’unica fede, e sull’ideale laico di una libera convivenza di cittadini, i cui convincimenti religiosi ed etici riguardano esclusivamente il loro foro interiore, la vernice di «modernità» che viene stesa sulle due concezioni finisce col nascondere o quanto meno alterare un connotato storicamente essenziale: l’eterogenesi dei fini, risultante dalla stessa differenza dei mezzi impiegati per conseguire lo scopo. In effetti la volontà di distruzione del «diverso», che non arretra davanti all’annichilimento di un’intera cultura, impedisce il confronto con un’intenzione eguagliatrice, che può si condurre alla cancellazione della «diversità», ma per libera scelta degli interessati: questi sono sempre in grado di contrastare le spinte uniformatrici, come di fatto hanno mostrato vari episodi della stessa storia ebraica nel nostro tempo. Del resto, il paradosso dell’assunto apparirà in una luce addirittura grottesca qualora personificassimo «l’aspirazione utopica alla conversione» e il
119 K. R. Stow, Delitto e castigo nello Stato della Chiesa: gli ebrei nelle carceri romane dal 1572 al 1659, in Italia Judaica ZZ, cit., pp. 173-174.
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principio dell’emancipazione, e ipotizzassimo un paragone fra papa Carafa e Benedetto Croce.
In un ammirevole saggio, Y. H. Yerushalmi ha esaminato il rapporto fra storia e memoria nella cultura ebraica120. «Fra tutti i popoli, gli ebrei, a quanto pare, hanno la reputazione di essere quello più orientato verso la storia, più capace di ricordare tenacemente il passato», e tuttavia «la storiografìa fra gli ebrei ha sempre avuto un ruolo subalterno». Procedendo da alcune indicazioni di Halbwachs, per cui «la memoria collettiva non è una metafora, ma una realtà sociale tramandata e tenuta in vita dallo sforzo consapevole e istituzionalizzato della comunità», Yerushalmi si è proposto di studiare «specificamente la dinamica della memoria collettiva ebraica»121. Di qui, il titolo stesso del suo libro, Zakhòr (in ebraico, «ricorda»), una prescrizione che la Bibbia ingiunge «non meno di 169 volte».
Nella tradizione culturale ebraica vi è tuttavia un’ambiguità nei confronti della memoria collettiva, manifesta nel fatto che nella Bibbia «la storiografia appare solo come uno dei mezzi destinati a esprimere il senso della storia», e questo viene penetrato, piuttosto che dai libri storici, dai testi profetici. In essi, infatti, è indagato più a fondo il destino dell’uomo, e la Bibbia, letta come corpus unitario, che abbraccia la storia del mondo, dalla creazione fino alla visione apocalittica del libro di Daniele, può essere letta come una teofania. L’osservazione è acuta, e trova conferma anche in successivi svolgimenti del pensiero ebraico, in cui il «ricordare» è ingiunto solo perché si abbiano presenti gli atti rivelatori dell’intervento di Dio nella storia. Tuttavia - osserva Yerushalmi - nei libri biblici «il risultato, invece di teologia, è storia». Solo in taluni momenti Israele sembra tendere alla costruzione di archetipi o all’evocazione di vicende edificanti; in altri, invece, vengono ricordate, proprio perché significative per la vita di tutto il popolo, le gesta di uomini e di donne. In tal senso, sembra necessario tenere presenti alcuni tratti specifici dell’elaborazione storiografica, su cui ha attirato l’attenzione Momigliano.
Nell’esaminare due libri biblici, quelli di Ezra e di Neemia, il grande studioso ha notato innovazioni di metodo che lo hanno portato a metterli a confronto con le opere coeve della nascente storiografia greca122. Ai margini di una grande monarchia polietnica, l’impero persiano, due piccoli popoli rafforzarono nel V secolo a.C. il loro sentire nazionale: attraverso la redazione di una «storia contemporanea [... ] accentrata in forma autobiografica intorno all’azione politica e religiosa dello scrivente» gli ebrei; i greci, attraverso «l’esplorazio-
120 Y. H. Yerushalmi, Zakhor. Scoria ebraica e memoria ebraica, Parma, 1983. Lo indicava a modello del problema «ebraismo e storicità» Momigliano in Profezia e storiografia (Pagine ebraiche, cit., p. 116 e nota). Di Yerushalmi si veda anche il più recente saggio Riflessioni sull’oblio, in Aa.Vv., Usi dell’oblio, Parma, 1990, pp. 9-26, in cui sono raccolti i testi di un convegno tenuto a Royaumont nel 1988.
121 Ivi, p. 11. Cfr. M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la memoire, Paris, 1925.
122 A. Momigliano, Fattori orientali della storiografia ebraicapostesilica e della storiografia greca (1965), in Id., La storiografia greca, Torino, 1982, pp. 125-137.
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ne geografica ed etnologica»123. Il rapporto fra storia e politica viene cosi indicato come carattere distintivo di una cultura «nazionale», anche se Momigliano rileva i probabili apporti della civiltà persiana alla «riforma della storiografia ebraica» e alla «formazione della storiografia greca», in quanto «lo Stato persiano era burocratico e curava i suoi archivi», provvedendo alla conservazione e all’utilizzazione dei documenti pubblici. La peculiarità della nuova storiografia ebraica consiste appunto nella citazione di documenti, e questi sono di origine persiana124.
Per parte sua, Yerushalmi, fin dalle prime pagine del suo lavoro, rileva come la cultura ebraica non condivida le «concezioni metafisiche ed epistemologiche» di quelle civiltà orientali che scorgono nel tempo e nella storia un ostacolo alla vera conoscenza125. Al contrario, «la particolare natura della religione israelitica» trasferisce «rincontro cruciale fra l’uomo e Dio [...] dal piano della natura e del cosmo a quello della storia, concepita ora in termini di intervento divino e di risposta umana». Tuttavia, proprio per il valore unico del fatto storico, «non è la storia a ripetersi, [...] ma solo il tempo mitologico»: la storia, irripetibile, può essere perpetuata soltanto nella memoria, e in tal modo diventa momento paradigmatico per ricordare l’intervento di Dio nelle vicende umane. L’ambiguità, cui si accennava, ha dunque modo di manifestarsi, come quando, ad esempio, fin dal II secolo d.C. i testi classici rabbinici «sembrano giocare a loro piacimento con il Tempo, espandendolo o contraen-dolo come una fisarmonica». Yerushalmi evoca quindi alcuni clamorosi anacronismi tipici di quella letteratura, di cui peraltro si è già dato un esempio con il midras dei cittadini di Bari pietosi verso gli ebrei deportati a Babilonia. I rabbini, in effetti, come «non si preoccuparono né di scrivere la storia post-biblica, né di preservare quel che pure dovevano sapere degli eventi accaduti nelle età immediatamente precedenti la loro», cosi studiarono la Bibbia piuttosto che per il suo significato storiografico, come «rivelazione del disegno globale della storia del mondo»126.
Viene da domandarsi se questo atteggiamento non sia da confrontarsi in qualche modo con quello degli umanisti, per i quali era impensabile dedicarsi allo studio del passato della Grecia e di Roma con nuovi interessi rispetto agli storici antichi. Scrive Yerushalmi: «La stessa assenza di scritti storici fra i rabbini può essere stata in certa misura motivata dalla loro accettazione totale e senza riserve dell’interpretazione biblica della storia»127. Parimenti gli umanisti pensavano che «la storia romana era stata scritta da Livio, da Tacito, da Floro, da Svetonio, dalla Historta Augusta: non c’era ragione di riscriverla,
123 Ivi, pp. 129 e 132.
124 Ivi, pp. 134-135. «Per l’origine dell’uso di documenti nella storiografia greca del V secolo -osserva Momigliano - siamo invece ancora in alto mare». Tuttavia rileva come Erodoto usi «traduzioni o presunte traduzioni di iscrizioni orientali [...], documenti di origine persiana». Ma avverte: «Se e come in questo suo uso di documenti egli sia influenzato da abitudini storiografiche orientali, è impossibile dire».
125 Yerushalmi, Zakhor, cit., p. 20.
126 Ivi, pp. 30 sgg.
127 Ivi, p. 35.
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perché in sostanza si poteva scriverla solo come avevano fatto Livio, Tacito, Floro, Svetonio [...] L’idea che si potesse scrivere una storia di Roma capace di sostituire Livio e Tacito non era ancora nata all’inizio del secolo XVII»128. Vi è evidentemente una differenza di fondo fra i due processi mentali: gli uni tralasciavano la conoscenza del presente, perché «nel suo insieme la Bibbia sembrava in grado di dare un senso illuminante a qualunque contingenza storica», gli altri non mettevano in dubbio la verità e la completezza del racconto tradizionale. Ma la reverenza per quei testi di altre età, accettati per il loro valore esemplare e ritenuti i soli capaci di mostrare come realmente erano andate le cose, rivela un giudizio nei confronti della conoscenza del passato egualmente lontano dagli interrogativi che noi siamo soliti avanzare.
Va da sé: il variare di atteggiamenti verso la storia è da considerare relativamente alle differenti forme di civiltà che si sviluppano nel tempo. Ciò non significa svalutare i risultati che possono essere offerti da una precisa analisi della «memoria collettiva», ma soltanto notare che talvolta uno studio diacronico non è in grado di dare sufficienti chiavi di lettura, e può essere opportuno servirsi di indagini attente a intrecci di influenze, alla circolazione delle idee, ad analogie di reazioni intellettuali, come quelle, ad esempio, osservate da Momigliano nella storiografia ebraica post-esilica e in quella greca. E una disgressione indubbiamente esorbitante per arrivare al punto che qui interessa: «la rinascita della storiografia ebraica nel sedicesimo secolo», che, a giudizio di Yerushalmi, «non ha alcun precedente nel Medio Evo»129.
Rispetto a ciò che si era verificato nel corso dei quattordici secoli precedenti, egli scorge una novità di grande rilievo in tale fenomeno, quantunque non possa essere considerato sorprendente, considerata la forza della tradizione storiografica nella cultura ebraica. Resta in ogni modo da valutare che allora, «nel giro di un centinaio d’anni, ben dieci importanti lavori di carattere storico sono stati prodotti da autori ebrei». Mi domando se può essere fortuito il fatto che, di questi autori, quasi tutti abbiano avuto rapporti diretti con la comunità ebraica italiana o almeno una buona conoscenza della cultura italiana. Ciò vale per lo stesso Solomon Ibn Verga, il cui Sebet Yehudàh (Scettro di Giuda), «rivela autentici influssi del Rinascimento italiano», sebbene l’autore, vissuto in Portogallo e fuggitone nel 1506, riparando nelle Fiandre, in Italia non abbia mai messo piede. La vita italiana è ben presente a Joseph Ha-Kohen, il primo ebreo - ricorda Yerushalmi - che, dopo Flavio Giuseppe, si sia definito «storiografo». Dell’opera di Azariah de’ Rossi, Me’dr ‘einàjim (Luce degli occhi), Yerushalmi dice che è «il più coraggioso fra i lavori storici degli ebrei del Cinquecento», in quanto l’autore rifiuta di «istituire divisioni preconcette fra la sua cultura generale e le sue competenze in campo ebraico», sino ad arrivare «a un effettivo e spregiudicato confronto fra queste due sfere culturali»130. Le stesse tradizioni rabbiniche vengono esaminate «attraverso la storia
128 A. Momigliano, Storia antica e antiquaria (1950), in Id., Sui fondamenti della storia antica, Torino, 1984, pp. 11-12.
129 Yerushalmi, Zakhor, cit., p. 69. L’osservazione era già stata fatta da S. W. Baron, La methode historique d’Azariah de’ Rossi, in «Revue des Etudes juives», 1928, p. 151.
130 Ivi, p. 85.
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profana»: quel metodo critico che la filologia umanistica, dal Valla in poi, aveva introdotto con risultati rivoluzionari (e infatti l’opera di Azariah de’ Rossi fu condannata dai rabbini ed ebbe una vicenda assai travagliata).
Insomma, i rapporti di questa storiografia con la cultura italiana appaiono particolarmente stretti: per il grande prestigio di cui questa godeva, è chiaro, ma anche, verosimilmente, per le condizioni di vita che gli ebrei avevano conosciuto nella penisola e che - come già in passato - avevano facilitato il loro aprirsi ai risultati più alti di un’elaborazione intellettuale, sentiti come frutti di una cultura universale. Yerushalmi, seppure in termini formali, tratteggia un parallelo del nesso esistente «fra la nascita della storiografia italiana dell’Umanesimo e il crollo delle strutture repubblicane nelle città-stato» (rinviando al classico lavoro di Hans Baron), e del legame che si può scorgere fra la nascita della storiografia ebraica cinquecentesca e la crisi provocata dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna. Forse un raffronto meno estrinseco potrebbe essere con la riflessione storiografica ispirata dalla «crisi della libertà italiana». In ogni modo, nel caso ebraico come in quello italiano, siamo davanti al nascere di una storiografia che sa dare a tutto un popolo il senso della propria identità e la coscienza del proprio destino. A ragione Bonfil - nel mettere in relazione la fioritura storica ebraica nel Cinquecento con «il gusto intellettuale dell’epoca» - ha osservato che la storiografia è «una funzione della percezione della trasformazione della realtà»131.
Poi il ripiegamento non fu meno rapido di quell’improvviso rigoglio. «Alla fine del Cinquecento, quegli ebrei che ancora tentano di spiegare in qualche modo il significato delle sofferenze del popolo e i lunghi anni dell’esilio, trovano una risposta nella Kabbalàh di Isaac Furia e dei suoi discepoli»132. Ma allora tutto lo scenario è cambiato. I rapporti dei dotti ebrei con il mondo culturale italiano, se non si sono spezzati, si sono allentati, sono mutati profondamente. Diversi sono diventati i linguaggi. Da un lato, l’ortodossia cattolica si è imposta quanto meno come ossequio formale, e l’adesione al potere non è evitabile, se non con gli artifici della «dissimulazione onesta»; dall’altro, «il sentimento della realtà demoniaca dell’esilio di Israele - ha scritto Scholem133 - dovette essere presente con enorme intensità agli esuli spagnoli», finendo tuttavia con l’imporsi a tutte le comunità provate da nuove sciagure nel corso del secolo XVI. È allora - osserva il grande studioso - che il diffondersi della dottrina della metempsicosi indica «come il massimo dei terrori, come la punizione più terribile che possa toccare al peccatore» la condizione delle anime che non finiscono all’inferno, né conoscono la reincarnazione: «essere travolta senza scampo nell’abisso di un esilio totale è ora l’incubo più angoscioso dell’anima, che considera il suo dramma personale nei termini del tragico destino di tutto un popolo». La storia scompare allora dall’orizzonte culturale ebraico, annullata in una gnosi atemporale: se la
131 R. Bonfil, Riflessioni sulla storiografia ebraica in Italia nel Cinquecento, in Italia Judaica II, cit., p. 66 e p. 61.
132 Yerushalmi, Zakhor, cit., p. 86.
133 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Genova, 1986, pp. 261-262.
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memoria collettiva può rifugiarsi nell’evocazione di archetipi compatibili con la speculazione mistica, si verifica nondimeno una frattura con la grande stagione precedente e una chiusura anche intellettuale di quelle comunità emarginate.
Non può non apparire strano che, sulla vita dei ghetti, rari siano stati in tempi a noi vicini gli studi condotti con nuovi metodi d’indagine, attenti alle connotazioni antropologiche, agli aspetti della storia materiale, alle consuetudini quotidiane, alle espressioni del sentire religioso. Anche per questa limitata conoscenza di una pagina del passato che assorbe totalmente le vicende degli ebrei in Italia nei secoli XVII e XVIII, l’ipotesi di Momigliano sulla formazione di una coscienza nazionale fra gli ebrei rimane priva delle indispensabili premesse conoscitive.
Nell’immediato, il senso della rottura dovette essere forte, e due esempi in tal senso appaiono significativi. Uno è appunto quello della diffusione del pensiero kabbalistico sin dal finire del Cinquecento, e Bonfil ha esaminato la crescente presenza delle correnti mistiche nella vita intellettuale degli ebrei di Venezia, via via che il secolo XVI volgeva alla fine. Pur nella vivacità dei risultati, fu anche quella una forma di ripiegamento, poiché tali tendenze indicano «un mutamento della società ebraica, da favorevolmente disposta ad un’apertura culturale verso il mondo cristiano circostante, [...] ad assolutamente indifferente al contatto culturale con quel mondo»134. L’altro è il fenomeno che, in campo musicale, è stato studiato da Israel Adler: indagando sulla produzione dei musicisti ebrei in ambito extraebraico nel Rinascimento e sulla presenza musicale nella vita delle comunità, egli scorge le due attività collegate da una relazione di causa ed effetto con la reazione antiebraica della Controriforma. Dopo lo sviluppo del primo fenomeno nel corso dei secoli XV e XVI, sopraggiunge la sua scomparsa con la segregazione degli ebrei. Per contro, la pratica musicale dotta, scarsa o nulla nelle sinagoghe fino a metà Cinquecento, offre una vasta documentazione nell’epoca successiva, come se l’esclusione da quello che era stato il campo comune di una produzione fiorente avesse provocato il confluire di questa nel chiuso del mondo ebraico135. Sarebbe interessante indagare se intrecci analoghi esistono per altre espressioni culturali.
Neppure le conseguenze delle riforme settecentesche sulla vita degli ebrei italiani sono state oggetto di particolare ricerca in questi ultimi anni. Da studi precedenti risulta che la prima emancipazione, alla fine del secolo XVIII, trovò alcune famiglie di ebrei in condizione di partecipare alla vita economico-socia-le e, assai più raramente, politica del paese. Ciò avvenne appunto nell’Italia settentrionale e in Toscana, dove il riformismo aveva operato con maggiore o minor decisione, ma in ogni modo aveva consentito agli ebrei di sottrarsi alle più gravi restrizioni dei ghetti. Dove questo non era accaduto, come a Roma,
134 R. Bonfil, Cultura e mistica a Venezia nel Cinquecento, in Gli ebrei e Venezia, cit., p. 493.
135 I. Adler, Lapénétration de la musique savante dans les synagogues italiennes au XVIIe siede: les casparticulier de Venise, in Gli ebrei e Venezia, cit., p. 528.
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la comunità ebraica festeggerà la liberazione, ma scarsi saranno gli apporti che potrà dare quella popolazione immiserita e umiliata.
La grande mostra di New York e di Ferrara sui due millenni di vita ebraica in Italia - 1’«isola della rugiada divina» - ha offerto una straordinaria occasione per ripercorrere visivamente le vicende a cui in parte si è accennato in questa rassegna136. Un tratto caratteristico sembra riemergere costante: la tendenza a forme di coesistenza senza gravi urti, anzi spesso a relazioni e a scambi fecondi fra gli ebrei e la popolazione circostante, quando non intervengano a impedirlo tensioni di carattere eccezionale o forze interessate della società. Vi furono certamente attriti e contrasti anche a livello elementare, ma le differenze -religiose, etniche o solo consuetudinarie - non sembra siano state in generale tali da precludere una convivenza che non di rado si sviluppa in abitudini di cordiale convivialità, nel senso piu ampio (vorrei dire ciceroniano)137 del termine.
Cosi abbiamo visto nell’Umbria di Toaff e nelle città toscane studiate da Luzzati il formarsi di rapporti di questo genere, e anche uomini di Chiesa partecipano non di rado a tali modi di vita. Del resto, dal carteggio di Carlo Borromeo apprendiamo che nel 1575, a Cremona, ebrei e cristiani «indifferentemente vanno l’uno in casa del altro, mangiano et beveno insieme [...], i figlioli et putti christiani vanno con ogni libertà nelle case degli hebrei et conversano con i loro figliuoli»138. Se nella città lombarda sono allora «li gentilhomini et cittadini cremonesi consignori et presidenti del governo» che, con l’appoggio del presule ambrosiano, operano per far cessare «li molti disordini et scandali che tuttavia si toccano con mano risultare dalla conversa-rione de’ hebrei con christiani», a Ferrara devono intervenire gli inquisitori del Sant’Uffizio per punire «casi di convivialità». Ma ancora «un processo del 1590 ci descrive una scena di nozze in casa di un ricco ebreo ferrarese con tre tavole imbandite: una per cristiani, una per ebrei e una dove cristiani ed ebrei stanno allegramente insieme»139.
Evidentemente la differenza tra i fedeli delle due confessioni non doveva essere sentita come un ostacolo da quei festosi commensali; anzi, in genere - a dispetto delle secolari diatribe teologiche e di pur recenti bolle papali, e nonostante le peculiarità di norme e consuetudini alimentari - era loro possibile intonare con sentimento di sincera pietà il salmo 133: «Ecco quanto è bello e piacevole sedere insieme come fratelli». Quasi viene fatto di pensare -ritornando alla questione posta nelle prime pagine - che proprio la potenziale somiglianza dei due gruppi di popolazione possa avere facilitato negli ebrei italiani l’attaccamento alla loro particolarità, che non divide ma distingue.
136 Se ne veda l’interessante catalogo: I faiya’, Isola della rugiada divina. Duemila anni di arte e vita ebraica in Italia, a cura di V.B. Mann, Milano, 1990.
137 «Bene enim maiores accubitionem epularem amicorum, quia vitae coniunctionem haberet, convivium nominaverunt» (Cic. Cato maior de sen., 45).
138 Segre, Il mondo ebraico nel carteggio di Carlo Borromeo, cit., p. 214, e per il passo seguente pp. 237-238.
139 Prosperi, La Chiesa e gli ebrei, cit., p. 179-
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Tanto più «stravagante» appare dunque la raccomandazione formulata da Croce, perché vengano cancellati anche gli ultimi residui del carattere specifico della minoranza ebraica, al fine di non offrire pretesti ai persecutori. In realtà, a costoro gli appigli non mancano mai: basti vedere come, tra fine Ottocento e inizi di questo secolo, nell’antica avversione di carattere religioso che aveva mosso il mondo cattolico contro gli ebrei, ormai scossa dall’affermarsi dei principi liberali, prendano a infiltrarsi argomenti di natura razzistica, propagandati da uno scientismo che certo non poteva dirsi cristiano140. D’altra parte le vecchie minoranze possono anche venire assimilate e scomparire, ma gli uomini, per la natura stessa della loro storia, sono sospinti da continue trasformazioni, mossi senza posa e ristoro da obiettivi mutevoli, e nuove minoranze si introducono incessantemente fra i popoli, e nuovi «disordini et scandali» possono insorgere per nuove «conversationi» in mezzo a loro, soprattutto se chi presiede al vivere civile non è aperto a sensi di tolleranza.
Qualcuno è sempre 1’«ebreo» di qualcun altro, è un vecchio detto. Quando l’uomo non riconosce e accetta nell'«altro» l’uomo, odio e ignominia irrompono necessariamente nella società. «Le intolleranze - ha osservato Primo Levi - e in specie l’intolleranza razziale, [...] sono dei fenomeni a molte facce, come tutto quello che riguarda l’uomo, la sua mente, la sua storia»141. Ma il pregiudizio razziale gli appariva «qualcosa di poco umano», e precisava: «Penso che sia preumano, che preceda l’uomo, che appartenga al mondo dell’animale, al mondo animalesco, piuttosto che al mondo umano». Ora, se la storia della civiltà ha un senso, dovrebbe essere proprio quello di rendere gli uomini umani.
140 Cfr. G. Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, in «Studi Storici», 1988, in particolare pp. 829 sgg., e Id., Aspetti e problemi del pontificato di Pio XII, in «Cristianesimo nella storia», 1988, in particolare pp. 399 sgg.
141 P. Levi, L’intolleranza razziale, «Torino-Enciclopedia», 1988, p. 6.