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Title
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E. P. THOMPSON E LA «CULTURA PLEBEA»
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Creator
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Edoardo Grendi
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Date Issued
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1994-04-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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29
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issue
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85
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page start
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235
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page end
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247
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Quaderni storici © 1994 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20231101203135/https://www.jstor.org/stable/43778701?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1994%26ed%3D1994%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A88e4376caa934076e39096f490b53975
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Subject
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historical a priori
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discontinuity
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extracted text
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E.P. Thompson e la «cultura plebea»
1. A ben vedere ci sono nel personaggio E. P. Thompson, deceduto verso la fine dell'agosto 1993, tutti gli ingredienti per farne un eroe dei nostri tempi, almeno secondo i gusti personali di una ormai vecchia generazione. Il grande storico certamente, del tutto originale nella sua ricostruzione della «cultura plebea», ma anche il formidabile propagandista antinucleare, capace di assumere in prima persona, sulla scia di Bertrand Russell, la guida di una campagna che ha fortemente preoccupato l'Establishment politico e militare: uno spirito assolutamente libero e nemico di ogni compromesso e stupidità, comprese ovviamente quelle accademiche (nell'università infatti ha «soggiornato» solo saltuariamente), legato certamente a una forte ispirazione «romantico-settaria» e naturalmente nutrito delle ovvie componenti nevrotiche che accompagnano la solitudine. E poi quelle più tangibili qualità che erano connesse con la sua figura, la gentilezza e lo «charme» mescolati all'ombrosità, la voce, l'uomo carismatico che fu.
Recentemente era tornato alla storia e nel 1991 aveva pubblicato Customs in Common, puntualmente ripreso dalla Penguin Books nel 1993 L Leggeremo postuma un'opera altrettanto attesa, il più volte annunciato libro su William Blake: «una ricerca sulla struttura del pensiero di Blake e sul carattere della sua sensibilità», come ha scritto Thompson nell'Introduzione, parzialmente anticipata dal «Guardian»2. E le procedure indicate sono a mio avviso di grande interesse, tali da far presagire un’opera ben più interessante che non la sua vecchia monografia su William Morris, troppo appiattita sulla scoperta del «Morris socialista»3. Personalmente non ho mai ritenuto The Making of thè English Working Class, certamente il libro di maggior successo di Thompson, il suo capolavoro4, preferendogli di gran lunga Whigs and Hunters e in generale i suoi lavori sulla «cultura plebea», ripresi appunto in Customs in Common. In ogni caso questi studi sono lo sviluppo di quel fondamentale approccio che già
QUADERNI STORICI 85 / a. XXIX, n. 1, aprile 1994
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Edoardo Grendi
in The Making poneva come autentico soggetto storico l’esperienza collettiva popolare, in quel caso complicandola coi problemi di una globale diagnostica politico-rivoluzionaria (le «quasi-ri-voluzioni»). Si ricorderà come Thompson abbia definito il contesto generale di potere della società inglese settecentesca in un saggio che riprende nel nuovo libro5: una valutazione complessiva che gli consente di inquadrare più liberamente, senza assillo macrostorico, le sue ricerche tematiche. E si tratta caratteristicamente di temi di ricerca lunghi, di una pluridecennale raccolta di storie-casi: consuetudini agrarie locali, agitazioni contro il caropane, «rough music» (charivari), la vendita delle mogli e altri usi collettivi; cioè una serie di testimonianze indirette di quell’espe-rienza-cultura plebea, e per questo «opache», che devono essere raccolte per il paese, dalle fonti più diverse e poi reinterpretate e cioè trattate storicamente, secondo la «disciplina del contesto»: «da queste enigmatiche e frammentarie testimonianze - scrive Thompson a proposito dei casi di «vendita delle mogli» - noi dobbiamo estrarre («tease out») i significati che ci sono possibili sulle norme e la sensibilità di una cultura perduta, e interpretare le crisi interiori della povera gente». E questa è l’argomentazione decisiva che lo ha spinto a riprendere un paziente lavoro, interrotto dal libro di S.P. Menefee, apparso nel 1981: «un apprendista etnografo con una conoscenza elementare comune della storia sociale inglese e della sua disciplina», così può giudicare alla fine, quasi con sollievo, Thompson che ovviamente rifiuta la presunzione accademica del proprio marchio sul tema di ricerca6. Ed è questa «profondità» del tempo implicita nella pratica stessa della raccolta e collazione dei casi che sembra dare coerenza a un volume del 1991 che ripropone saggi già pubblicati nel 1967 e nel 19717. Di fatto solo un lungo saggio di oltre cento pagine, «Rivisitazione della economia morale», non a caso riferito alla formula thompsoniana di maggior successo, integra il forte scarto cronologico. Credo comunque che l’attenzione vada soprattutto rivolta alla coerenza dell’approccio. In questo senso Thompson si impegna, nell’Introduzione, a precisare le relazioni fra il vecchio concetto di «consuetudine» (custom) e il concetto di cultura parlando di una cultura plebea che veste la retorica della consuetudine e affronta le innovazioni della «società patrizia» in termini che sono insieme «conservatori e ribelli». È vitale infatti che questa nozione di cultura non venga ristretta a un semplice discorso di significati e valori, ma venga invece collocata «entro un particolare equilibrio di relazioni sociali, un attivo ambiente
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di sfruttamento e resistenza al medesimo, di relazioni di potere che sono mascherate dai rituali del paternalismo e della deferenza» 8. Ed è appunto questo confronto che dà nuova vivacità alla cultura plebea. «Sempre più - ha scritto E. Hobsbawm in un necrologio di E. P. Thompson - egli ha scritto di storia o di qualsiasi altra cosa assumendo la veste di un tradizionale inglese (non britannico) gentiluomo di campagna della Sinistra radicale»9. Non c'è dubbio infatti che i «vilains de la pièce» siano volta a volta la «whig Old Corruption», gli innovatori agricoli, gli economisti politici, la definizione assoluta della proprietà individuale, la società di mercato e gli utilitari (ma anche implicitamente il movimento evangelico e i metodisti); in altre parole tutti gli elementi ritenuti i «grandi protagonisti» della trasformazione sociale inglese, celebrati da una tradizione storiografica che è diventata senso comune. E naturalmente questa coerente prospettiva della ricostruzione dell'esperienza popolare è francamente non marxista: quanto a dire che «il riscatto dalla condiscendenza dei posteri» - per citare una famosa espressione di The Making of thè En-glish Working Class - ha prevalso nettamente, nei termini di una ricostruzione della fedeltà alla esperienza della «plebe», sui problemi di inquadramento storico-teorico, il cordone ombelicale marxista cioè. E vedremo che proprio questo ha prodotto una forte consonanza fra Thompson e taluni orientamenti revisionisti delle scienze sociali, radicali o pseudo-radicali, nutrendo costantemente una polemica storico-culturale sempre assai viva. Possiamo esplorare i risultati di questo approccio nei due saggi assolutamente nuovi, sulla «vendita delle mogli» e sulla «legge consuetudinaria e i diritti comuni». Qualche centinaio di casi di «vendita delle mogli» valgono a delineare i contorni di una pratica, viva fra Sette e Ottocento, altamente ritualizzata. Pubblicità della transazione sulla piazza del mercato; contratto con testimoni e consegna («delivery»). La prima debitamente annunziata e pubblicizzata; la seconda espressa dal simbolo della cavezza e della sua cessione-rinuncia: un simbolo che richiama certamente il mercato del bestiame. Ma Thompson mette altresì in evidenza la presenza di un banditore e la messa in opera di una formale vendita all'asta (anche se pre-arrangiata), il passaggio di una somma di denaro e lo scambio delle promesse fra le parti al momento del passaggio del cappio, col consenso della donna, sempre richiesto. Il rituale, che naturalmente disturba la nuova sensibilità evangelica data l'associazione simbolica, va inquadrato come pratica di divorzio e nuovo matrimonio, come è suggerito
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chiaramente dall'esame di qualche caso più circostanziato. Comunque, insiste caratteristicamente Thompson, la chiave dell'analisi non è demandata alla quantità dei casi ma «all’interrogazione spinta di testi e contesti»: nell'owia difficoltà di ricostruire le vicende personali e di trovare dei «casi rappresentativi», il rituale risultando piegato a diversi usi. È rilevabile comunque il generale sostegno popolare alla legittimità di una pratica che la equipara a un rito di separazione-nuova unione. Le «condizioni» sono naturalmente quelle che alimentano l’autonomia della cultura plebea: il declino del controllo sessuale della chiesa e dei suoi tribunali e la tolleranza o il disinteresse dell’autorità civile. In altre parole è la «comunità», e in particolare le comunità di alcuni mestieri protoindustriali (caratterizzati, come è noto, da una forte sovrapposizione fra elementi familiari ed economici) che «detta» e legittima quel rito. Ancorché la sua «forma» sia certamente mediata dall’asimmetria sessuale ufficiale, i suoi contenuti per Thompson sono contenuti di libertà per l’uomo e anche per la donna in una situazione di assenza di divorzio, e comunque di regolamentazione dei rapporti di coppia e quindi di salvaguardia della unità domestica. Questo è poi il senso della forte pubblicità della transazione e dell’esplicito assenso della donna.
Il saggio è una buona illustrazione di quella che Thompson definisce come una decodificazione di comportamenti che i moralisti delle classi medie hanno tradotto in stereotipi negativi: un’ovvia illustrazione del confronto sociale di cui si è detto, ma anche, per Thompson, l'occasione di pesanti «charivari» personali ad opera del suo uditorio femminile 10. Si può osservare che l’analisi della «rough music», cioè del «charivari» inglese, non rientra pienamente in un analogo schema11. Qui Thompson insiste piuttosto sulla plasticità e diversità dei rituali assimilabili senza sviluppare a fondo il tema positivo della cultura plebea corrispondente (la norma è gestita dalla comunità), che risulta in qualche modo oscurato da analogie comportamentali più negative. Come se le nubi dei comportamenti collettivi comunitari prevalessero sulle luci. Viceversa nel caso dei «foods riots» (moti contro il caro-pane) il processo di decodificazione risulta assai più semplice, in quanto esplicitato dai rivoltosi, uomini e donne: nel Settecento «la consuetudine era la retorica di legittimazione per quasi ogni uso, pratica o diritto richiesto» e i tumultuanti invocavano una consuetudine che si era esplicitata largamente in sanzioni di legge comune. Questo tema ci riconduce all’altro im-
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portante saggio che si è citato, quello su «leggi consuetudinarie e diritti comuni». Questo appare in effetti come il saggio più problematico in quanto non si è potuto appoggiare sullo schema di ricerca più comune, fondato sulla collezione dei materiali documentari. Come del resto rileva lo stesso Thompson. Intanto la resistenza al movimento delle recinzioni non prende corpo sistematicamente in una serie di «riots», ma si presenta come un processo lungo che la ritarda e che coinvolge gruppi socialmente diversi e pratiche differenziate: le testimonianze più caratteristiche sono così dei «casi di legge». La «pista» che Thompson ha proseguito per individuare le pratiche consuetudinarie locali è stata la raccolta sistematica delle «village by-laws» (statuti) promulgate nelle riunioni di parrocchia. Ma in effetti il senso di queste «leges loci» (parziale guida alle pratiche) «acquista significato soltanto quando collocato nello studio disciplinato del contesto locale (...) senza questa attenta illustrazione del contesto il mio sacco di grano spigolato si rivela un sacco di paglia» 12. Le pratiche locali di uso delle risorse non sono certamente assimilabili a rituali da decodificare, né la loro «opacità» si risolve per assimilazione a un comune modello formale, ma rimanda a quel complesso intreccio locale che dialettizza risorse e gerarchie d’uso delle medesime. In effetti di fronte alla «teoria della legge», cioè alla definizione assoluta della proprietà individuale, sta un sistema storico di commistione di diritti d’uso di una stessa risorsa, spesso riferito all’ufficio e al luogo, in un continuo confronto di normative: «common law», «locai law» e usi tradizionali certificati oralmente. Tale confronto diventa il terreno naturale dello scontro fra i gruppi sociali e poi fra le classi quando la priorità viene assegnata alla «teoria della legge» sugli usi, separando così radicalmente il diritto dall'uso: un processo che in sede imperiale produce il «monstrum» del Permanent Settlement bengalese di Charles Cornwallis. È chiaro che il procedere di Thompson risulta assai più discorsivo-argomentativo che non dimostrativo, ed è caratteristico che la testimonianza dell'esperienza della crisi comunitaria provocata dalle recinzioni è demandata a un «poeta locale», John Clare. Thompson indica fra i risultati di ricerca più avanzati quelli di J. Nesson sul Northamptonshire B. Ricordiamo che in Whigs and Hunters la ricerca era condotta su alcune specifiche aree forestali, «rappresentative»; ma l'assunto generale di Thompson non è certo conforme a un programma di spinta ricerca locale. La sua rimane una prospettiva storiografica a scala nazionale. Il lavoro di E. P. Thompson si caratterizza per la sua
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forte ispirazione intuitiva: nel senso che egli si affida largamente alle sue intuizioni e al suo spirito di empatia, scartando i «registri scientifici», non solo quello della quantificazione, ma anche quelli di una concettualizzazione di sapore antropologico 14. «Il riot -scrive Thompson - non è una naturale o ovvia risposta alla fame ma un sofisticato modello di comportamento collettivo, un’alternativa collettiva alle strategie di sopravvivenza individualistiche e familiari» ,5. Questa è la caratteristica conclusione di un'analisi circostanziata su una serie di moti contro il caro-pane, ma è anche l’ipotesi, il punto di partenza della medesima. Ricordiamo che questo era anche il modulo della «scoperta», da parte di Hobsbawm del movimento dei luddisti, liberato alfine dalla forte incrostazione simbolica di cui le celebrazioni oleografiche del successo industriale lo avevano ricoperto 16. Ma altri grossi problemi storiografici vengono aperti. Nel suo procedimento argomentativo coi critici della «moral economy» che denunciano le propensioni paternalistiche della sua critica all'economia di mercato (che essi definiscono «crudele ma liberatoria»), egli denuncia gli imperialismi della storia economica e della storia intellettuale che usano il termine mercato «come metafora del processo economico, o una idealizzazione o astrazione da quel processo» 17 e di fatto trascurano il problema della realizzazione del mercato, dandone per reale la «rappresentazione». In ogni caso, argomenta puntualmente Thompson, «carestia e fame sono sempre un fenomeno a breve e non a lungo termine», contrastando così il forte teleologismo dei suoi antagonisti. L’indicazione dottrinaria di Adam Smith divenne politica ufficiale inglese negli anni novanta del Settecento, così come sessanta o settanta anni dopo in India. Le istanze di controllo avanzate dalle folle in tumulto hanno una forte razionalità di senso comune. Il confronto risulta un confronto di interessi, un contrasto di classe. E nondimeno - questo è il punto di massima rilevanza della diagnosi di Thompson - il successo dei riots e della «moral economy» è documentabile nel tempo lungo del XVII e XVIII secolo 18. Queste impostazioni investono così punti cruciali dell’approccio storiografico corrente e non solo della storia inglese. D'altronde il successo della formula della economia morale va ben al di là della funzione-modello che Thompson le ha assegnato nell'interpretazione di un vistoso e ricorrente fenomeno inglese di concertata azione di massa per l’accesso ai beni di prima necessità,9. Su questa linea Thompson appare profondamente irritato da quello che egli chiama l'«academic language game», inteso come siste-
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matica confusione della testimonianza storica coi termini dell'interpretazione degli storici: ciò a mio avviso rappresenta, accanto all’enfasi sul «testo», uno degli elementi principali di seduzione di Thompson sulle correnti postmoderne. La sua considerazione correttiva è caratteristica: «se noi potessimo trovare il modo di ricostruire la struttura cognitiva dei tumultuanti per il pane, noi potremmo trovare alcune premesse essenziali, espresse vuoi nei più semplici termini biblici di amore e carità vuoi nei termini di nozioni su quello a cui gli uomini sono tenuti reciprocamente in tempo di bisogno, nozioni che possono aver poco a che fare con qualsiasi istruzione cristiana, ma che nascono dagli scambi elementari della vita materiale»20. Questo, esplicitamente dichiarato, è l'«animus» dello storico E. P. Thompson. Possiamo anche sorriderne, ma a maggior ragione dovremmo allora sorridere della dialettica «socialmente necessaria» che nutre ancora tanta parte della storiografia corrente. È probabile che siano urgenti altri approfondimenti critici. Ma quella è la «misura» dell’approccio thompsoniano che gli detta un linguaggio che rifugge dai termini specialistici, che ispira il suo ricorso a varie perifrasi per comunicare un’intuizione complessa, che batte sovente la corda della «reductio ad absurdum» per vanificare nell'ironia le proposizioni dei suoi oppositori. Quel che ci interessa sono comunque i risultati analitici che Thompson ha conseguito sulla base di quest’ispirazione ma con le procedure critiche messe in atto nell'ambito di una prospettiva di piena salvaguardia della soggettività collettiva, di fedeltà primaria all'esperienza vissuta dei suoi soggetti storici.
2. Possiamo comprendere così quel che intendesse Thompson quando parlava delle forti pulsioni romantiche del suo animo, delle sue «naturali», istintive tendenze «liriche», dei suoi debiti non solo verso Marx ma anche verso Vico e Blake che risultano certamente riferimenti meno ovvi. Ed è per questo che può essere interessante riprendere qualche tema della «questione Thompson», cioè del dibattito sulla sua opera. C’è per esempio una forte unilateralità nella discussione incentrata sul «marxismo» di Thompson. Basta considerare al riguardo il volume di saggi su Thompson a cura di Kaye e McClelland21. Purtroppo in questo volume l'opera di Thompson non viene confrontata con quella di altri storici, né del resto con quella di altri studiosi, scienziati sociali, letterati e filosofi - alla ricerca di una congiuntura culturale - ma viene per lo più posta in relazione con la
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«tradizione marxista» e in realtà ci si occupa quasi solo di The Making of thè English Working-Class. Questa impostazione risulta ormai parrocchiale. Con questo non intendo affatto negare l’importanza del marxismo nella formazione di Thompson, connessa altresì con la sua militanza comunista e il suo dissenso, la polemica teorica con Althusser e il resto, che sono poi le ragioni istituzionali di questa, un po' uggiosa, riproposizione. Tanto più che, in quello che è forse il più interessante dei saggi raccolti, W. H. Sewell insiste ancora sulle inadeguatezze teoriche di Thompson, sulle quali, come si ricorderà, si era subito scatenata la «bagarre» marxista.
Sewell del resto rileva giustamente la forte componente letteraria del «gran libro»: «il genio di questa lunga, scomposta, picaresca narrazione dickensiana consiste nel comunicare ai suoi lettori un’impressione viva dell’esperienza dei lavoratori, nel farli partecipi vicariamente delle sofferenze, dell'eroismo, del tedium, dell’oltraggio, del senso di perdita e del senso di scoperta che hanno costituito la formazione della classe lavoratrice. Il risultato è stato il più grande tour de force della recente storiografìa»22. Ma non costituisce già questa diagnosi un problema di esegesi critica? Tanto più che questa valutazione retorica di The Making è stata generale. In un saggio del 1987, ad esempio, il sociologo inglese A. Giddens ha parlato di «un’opera in cui le osservazioni storiche e le vignettes prevalgono sopra l'elaborazione di una prospettiva analitica sviluppata» e si è soprattutto impegnato a discutere criticamente l'elemento centrale dell'opera di Thompson, e cioè «qualcosa che possiamo approssimativamente chiamare a sense of agency» che lo ha portato a rifiutare una concezione antropomorfica della classe e ad enfatizzare il fatto che l’«economico» è una categoria culturale. Tuttavia - osservava ancora Giddens - Thompson non ha sviluppato analiticamente nel discorso la mutua implicazione fra agency e struttura23.
E S. B. Ortner, in un saggio di grande chiarezza sulle teorie sociali nell'antropologia dopo gli anni sessanta, ricorda l'opera di Thompson come esempio di apertura in rami collaterali (la storia) - così come, nel campo letterario, la costruzione dei testi e non la loro reificazione, in linguistica la comunicazione e non solo il linguaggio ecc. - di quello che le appariva come il tema centrale della teoria sociale degli anni ottanta, cioè la pratica, l'azione. I nuovi orientamenti di teoria sociale sono rilevati come assolutamente coerenti con l'opera di Thompson: non si nega il sistema, ma ci si pone il problema da dove venga, come è prodotto e
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riprodotto e soprattutto si enfatizzano le asimmetrie sociali, nel quadro comunque, per la Ortner, di una fusione dell’ispirazione weberiana con quella marxista, insistendo sulla centralità dell’attore, assorbendo l'economia nel dominio politico, accentuando i temi della coscienza e dell'ethos. E riproponendo comunque la problematicità centrale del rapporto pratica-struttura e affrontando proprio il quesito di come spiegare la genesi, riproduzione e mutamento di forma e significato di un dato sistema socio-culturale, cioè una struttura24. Rimanendo strettamente nell'area della pratica storiografica, possiamo riflettere sul significato che l'individualismo metodologico e il tema della «strategia» hanno assunto nella storia sociale recente, nel senso di una generalizzazione del principio della razionalità dei comportamenti (qualificando tale razionalità), esteso a tutti gli attori sociali. Naturalmente non c'era alcuna ragione per cui anche gli storici non si preoccupassero dell’inadeguata interpretazione della motivazione individuale in termini della «teoria dell'interesse». Del resto proprio la forte tradizione pragmatica della storiografia la spingeva verso intuizioni diverse, oltreché verso un senso vivo dell'azione individuale e collettiva, impigrito nella retorica della celebrazione dei «pochi». In effetti penso che nell'opera di Thompson si possa rilevare che le «unità d'azione» siano non tanto gli individui quanto i gruppi, i tipi sociali. E tuttavia la costruzione della tradizione politica radicale, nella prima fase della «costruzione» della classe lavoratrice, sembra porre al centro proprio gli individui. Quel processo che, nella lettura marxista, può definirsi come fase di costruzione di un’ideologia alternativa, può altresì presentarsi nei termini di un problema analitico: come pratica, l'azione influenza il sistema e lo muta. The Making è stato certamente un libro fondamentale per la cultura anglosassone negli anni sessanta e settanta, un libro amato in gioventù proprio per la sua alta qualità letteraria. Possiamo facilmente pensare al tema del «riscatto dalla condiscendenza dei posteri», della storia dal basso ecc. Nella più sobria memoria epistemologica quel libro rievoca il tema chiave del sense of agency; non certo perché Thompson sia stato il primo a proporre questa impostazione per la storia delle classi lavoratrici, ma proprio perché lo ha proposto in modo «flamboyant» ed efficace, in una costruzione letteraria brillante che ha avuto un chiaro impatto emotivo. Che poi parte delle precoci obiezioni di Anderson avessero un senso è condiviso dagli stessi esegeti successivi. Così, nel libro collettaneo già citato, G. Eley parla di una «under-theorized notion of social totality»:
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in nome di un improbabile concetto di esperienza Thompson eviterebbe una più spinta indagine strutturale. L’appunto critico è, come si vede, sempre il medesimo. E, per la parte positiva «il culturale entra direttamente nelle relazioni economiche e di mercato, o piuttosto l’attività produttiva è inserita in un denso tessuto di pratiche consuetudinarie»25. Eley è l'unico che accenni, nel volume, a Thompson storico dell'antico regime, cioè del Settecento inglese. Ed è interessante che proprio come «crowd histo-rian» Thompson è segnalato, accanto a Natalie Zemon Davis, in un altro volume collettaneo di Lynn Hunt come alfiere di «un nuovo approccio culturale alla storia sociale». Naturalmente nella costruzione di questa «new cultural history» rientra un assortimento che va dai suddetti a Foucault, ai post-geertziani, a H. White, a Lacapria26. E qui ovviamente incontriamo alfine un'altra fondamentale ragione del successo di E. P. Thompson, quella connessa, per intenderci, col complesso tema della «soggettività». Forse possiamo assumere come indicatore il saggio che un allievo di C. Geertz, R. Rosaldo, dedica a Thompson nel volume collettaneo di Kaye e McClelland.
Possiamo ricordare come Thompson in una famosa intervista del 1976 insistesse sui silenzi di Marx a proposito dei sistemi di valore, delle mediazioni culturali e morali27. Thompson respingeva certamente una nozione di cultura basata unicamente sulla coerenza cognitiva. C. Geertz aveva parallelamente insistito sulla componente etica della cultura e aveva proposto problematicamente la questione della ricostruzione del «native point of view»28. Qui sono le ragioni del consenso/dissenso di Rosaldo. Questi concorda infatti che anche per merito di Thompson «processo e pratica» sono divenuti temi centrali della ricerca, mentre prima dominavano solo sistema e struttura. Ma, pur consentendo quindi col tema della agency, Rosaldo accusa esplicitamente Thompson di non distinguere la propria interpretazione da quella dei suoi soggetti/attori: Thompson - argomenta Rosaldo - tratta la sua narrativa «come se fosse un medium neutrale» e non come una forma culturale scelta fra una gamma di modi possibili. Thompson ha attinto ad un idioma culturale del periodo, il melodrammatico, ma è Vidiom di Thompson o dei suoi protagonisti? come a dire che il nesso passato/presente sempre vivo in lui, ha rimosso l'alterità del passato29. Alla retorica thompsoniana viene confutata questa volta la legittimità analitica. Rosaldo contrappone la nuova «sperimentale» antropologia storica: dove la ricostruzione del passato è per così dire binaria, nel senso che accanto
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alla ricostruzione convenzionale dello storico occorre anche ricostruire la coscienza del passato dei nativi oggetto di indagine e solo questo gioco di riscontri storia-memoria può darci dei risultati30. Per chiarire ulteriormente questa posizione critica vai la pena ricordare come lo stesso Rosaldo in un volume caratteristico della «coscienza» postmoderna accusasse il Le Roy Ladurie di Montaillou di trasformare di fatto l’inquisitore Fournier, protagonista del famoso processo, in un fellow scholar5'. Il punto fondamentale mi pare la relativa uniformizzazione fra Tempatico Thompson e il «disempatico» Le Roy Ladurie, in sostanza quindi la denuncia del fondamentale equivoco della ricostruzione empa-tica. Di più la negazione radicale delle procedure di «decodificazione» che Thompson mette in atto. Al limite quindi la negazione della storia.
Eppure la Ortner aveva sostenuto che la storia poteva ben ritenersi come una «chiave» dell’antropologia degli anni ottanta. In realtà i risultati della «scoperta della storia» da parte dell'antropologia andrebbero precisati: l’impressione è che molto spesso gli antropologi abbiano considerato più una «vecchia» definizione della storia che non i lavori degli storici32. Rosaldo almeno si occupa dell’opera concreta di Thompson e Le Roy Ladurie. Abbiamo registrato la natura del suo dissenso: Thompson non risulta certamente contagiato dall’inebriante esperienza postmodernista della inattingibilità dell’Altro, come direbbe E. Gellner. Abbiamo visto per converso come egli si sia impegnato a confutare l'etnocentrismo dei giudizi storici correnti - per vero un etnocentrismo che appare strettamente collegato alla nozione temporale della trasformazione (anche la resistenza, sembra suggerire Thompson, ha una sua temporalità e i suoi successi) - pienamente fiducioso della sua intuitiva capacità di porsi dal punto di vista dell’Altro. Così mi pare ovvio che la sua attenzione specifica alle testimonianze-testi e l’impegno a scoprirne i significati non siano certo confondibili col relativismo dei postmoderni. Ernest Gellner ha recentemente sostenuto che uno dei percorsi caratteristici al postmodernismo derivi paradossalmente proprio dal marxismo, attraverso i francofortesi fino all'ermeneutica33. Ma non è stato certo questo il percorso di Thompson.
Nondimeno da un altro punto di vista, non solo marxista, la «debolezza teorica» di Thompson e l'accusa, in qualche modo implicita nella pur commossa celebrazione di Hobsbawm, di essersi sempre più allontanato nel lavoro storico dalle esigenze teoriche34 sembrano pur suggerire un sospetto. Indubbiamente la
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«posizione» di Thompson così radicalmente anticapitalista (e an-ti-imperialista) era consona agli orientamenti francofortesi e a quelli dei nipotini di Clifford Geertz. Ma la «consonanza» si ferma qui. Ritengo che ci siano altri elementi dell’esperienza culturale di E. P. Thompson che ci possano chiarire ulteriormente il personaggio. Certamente il suo libro su William Blake ci dirà qualcosa di più. Non si vive una vita intera con un tema e un poeta senza che questo non assuma un’enorme rilevanza nella propria esperienza spirituale e culturale.
Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea, Università di Genova
NOTE AL TESTO
1 Customs in Common, London, Merlin Press, 1991 era già stato annunciato nel 1976 (J. Goody-J. Thirsk-E. P. Thompson, Family and Inheritance. Rural Society in Western Europe, 1200-1800, Cambridge 1976).
2 «Manchester Guardian», 4 settembre 1993. L’articolo mi è stato segnalato da L. Pesante.
3 Wiliam Morris: Romantic to Revolution, London 1955, riveduto nel 1977.
4 Mi si scuserà il rinvio alla recensione che feci all’epoca sulla «Rivista Storica Italiana».
5 Si veda la raccolta italiana da me curata, E. P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea, Torino 1981 (col sottotitolo Otto saggi di antropologia storica, del quale declino la responsabilità).
6 S. P. Menefee, Wives for Sale, Oxford 1981. Customs in Common cit, p. 407.
7 Mi riferisco a Time, Work Discipline and Industriai Capitalism e a The Maral Economy of thè English Crowd, apparsi in «Past and Present», 38 (1976) e 50 (1971).
8 Customs in Common cit., p. 7.
9 E. P. Thompson (obituary), in «The Independcnt», 30 agosto 1993.
10 Customs in Common cit., pp. 458-61.
11 II saggio era apparso in forma abbreviata in «Annales E.S.C.», 1972, n. 2.
12 Customs in Common cit., pp. 144-45.
13 J. M. Nesson, The Opponents of Enclosure in Eighteenth-Century Nort-hamptonshire, in «Past and Present», 105 (1984).
14 Si veda il saggio L’antropologia e la disciplina del contesto storico, tradotto nella antologia citata alla nota 5.
15 Customs in Common cit., p. 266.
16 E. J. Hobsbawm, Labouring Men. Studies in thè History of Labour, 1964 (trad. it. Torino 1972).
17 Customs in Common cit., p. 273.
18 Ibid., p. 292.
19 Ibid., pp. 237-38.
20 Ibid., p. 350.
21 Kaye-McClelland (a cura di), E. P. Thompson. Criticai Perspectives, London 1990.
22 Ibid., p. 71.
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23 A. Giddens, Social Theory and Modem Sociology, Oxford 1987 (cap. 9, «Out of orrery: E. P. Thompson on consciousncss and history»).
24 S. B. Ortner, Theorìes in Anthropology since thè 60’s, in «Comparative Stu-dies in Society and History», 1984, n. 1, pp. 126-66.
25 Kaye-McClelland, op. cit., p. 13.
26 L. Hunt (a cura di), The New Cultural History, Berkeley 1989.
27 M.A.R.H.O., Vision of History 1976-83.
28 C. Geertz, Locai Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, New York 1983 (trad. it. Bologna 1988).
29 Kaye-McClelland, op. cit., p. 104.
30 R. Rosaldo, Illongot Headhunting, 1883-1974. A Study in Society and History, Stanford 1980.
31 R. Rosaldo, From thè Door of His Tent: The Fielworker and thè Inquisitor, in J. Clifford-G. E. Marcus (a cura di), Writing Culture. The Poetics and Politics of Ethnography, Berkeley 1986.
32 Si veda il breve commento di A. Blok in K. Hastrup (a cura di), Other Hi-stories, London 1992, che ricorda fra l’altro un articolo di C. Tilly del 1978 (Anthropology, History and thè Annales, in «Review», n. 1).
33 E. Gellner, Postmodernism, Reason, and Religion, London 1992. Notiamo che Gellner considera il citato libro curato da Clifford e Marcus come «una sorta di manifesto del movimento» postmodernista in antropologia. In generale il suo «in-dietment» di Geertz è largamente esplicito.
34 licitato «obituary» di Thompson mi sembra echeggiare queste valutazioni. Del resto, si è visto, si tratta di valutazioni correnti nell’ambito della «tradizione marxista» alla quale certamente Hobsbawm, impegnato, dopo una prima fase di ricerca creativa, in una serie di sintesi storiche, è rimasto più legato.