Tempo e ragione: Il Settecento di Arthur O. Lovejoy

Item

Title
Tempo e ragione: Il Settecento di Arthur O. Lovejoy
Creator
Roberto Festa
Date Issued
1994-04-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
35
issue
2
page start
447
page end
476
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Rights
Studi Storici © 1994 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20231101205224/https://www.jstor.org/stable/20565621?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1994%26ed%3D1994%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A88e4376caa934076e39096f490b53975
Subject
truth
interpretation
commentary
hermeneutics
extracted text
TEMPO E RAGIONE: IL SETTECENTO DI ARTHUR O. LOVEJOY*
Roberto Festa
Nel 1961, per i tipi della Johns Hopkins University Press, apparivano le Reflections on Human Nature, l’ultimo lavoro che Arthur O. Lovejoy (18731962) avrebbe pubblicato prima della morte. Il volume riuniva una serie di conferenze che il filosofo americano aveva tenuto allo Swarthmore College vent’anni prima, nel 1941. Nella prefazione a quella che sarebbe stata la sua ultima fatica, il vecchio maestro spiegava di aver voluto offrire al lettore un ampio panorama delle teorie etiche sei-settecentesche, e al contempo una personale riconsiderazione di quei problemi, la sintesi delle sue idee riguardo alla natura dell’uomo, ai suoi desideri, al ruolo della ragione nei comportamenti umani1.
Ancora una volta Lovejoy non rinunciava dunque al principio che aveva guidato gran parte della sua attività intellettuale: mantenere strettamente collegate riflessione filosofica e indagine del passato, aspetti logici e ricostruzione storica. Ogni problema di carattere speculativo doveva essere illuminato e risolto anche attraverso una rassegna delle soluzioni che a esso erano state date nel passato2; poiché, come aveva ricordato nelle pagine
* Questo testo è stato preparato come relazione per un seminario coordinato dal prof G. Ricuperati sulla storia del concetto di Illuminismo nell’ambito dell’attività didattica del dottorato di «Storia. Storia della società europea», coordinato dal prof L. Guerci e con sede amministrativa al Dipartimento di storia dell’Università di Torino.
1 Cfr. A.O. Lovejoy, Reflections on Human Nature, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1961, p. V.
2 Già nel 1895, in una lettera al padre Wallace, Lovejoy scriveva: «I should want to make my study largely along historical lines» (citata da DJ. Wilson, Arthur O. Lovejoy and thè Quest for Intellegibility, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1980, p. 157). Questo dialogo tra storia e filosofia, tra ricerca e riflessione metodologica, era del resto assai diffuso in terra americana. Negli Stati Uniti non mancarono i contatti tra gli storici di professione e i filosofi, soprattutto di orientamento pragmatista, protagonisti di un dialogo che non si è mai interrotto sin dai primi anni del Novecento. Se per gli storici tale collaborazione portò a una maggior consapevolezza dei problemi teorici sottesi al loro lavoro, i filosofi furono condotti a rinunciare a quelle impostazioni di tipo scientifico che li avevano condotti, in molti casi, a una sistematica svalutazione del lavoro



448
introduttive di The Great Chain of Being, «most philosophic Systems are originai or distinctive rather in their patterns than in their components»3 e dunque erano spesso i modi di considerare i problemi a cambiare, non i problemi stessi. Nella storia del pensiero erano riconoscibili costanti che, sia pure nel mutare delle attitudini della mente, attraversavano i secoli e si ripresentavano puntuali all’osservazione degli uomini. Se pure toccava allo storico delle idee seguire i fili di tale ricerca, il filosofo non poteva trascurare del tutto i risultati cui essa conduceva. Ne doveva anzi nutrire la personale speculazione, in un continuo e fecondo dialogo tra presente e passato, tra innovazione e tradizione.
Tutto questo era implicito nella prefazione con cui Lovejoy si congedava da allievi e studiosi, dopo oltre sessant’anni di magistero intellettuale. C’era però anche dell’altro. In particolare appariva significativa la scelta di autori e di opere del Seicento, ma soprattutto del Settecento, come guida e stimolo della riflessione. Nel momento di riassumere temi e predilezioni di un’intera vita, Lovejoy si volgeva prevalentemente a Adam Smith e a David Hume, ma anche a Pascal e a Young, a Rousseau e a Mandeville, a Voltaire e a Pope. Ne esponeva le teorie e ne discuteva il significato storico, ne smontava i sistemi e li chiamava a dare autorità alle personali opinioni. E ciò nella convinzione che questi autori erano stati particolarmente penetranti nelle loro riflessioni sulla natura umana, nello sforzo «to chart thè terra incognita of thè irrational and to extract its implications»4. A renderli particolarmente interessanti per il lettore del Novecento era la loro considerazione delle forze dell’irrazionale come componenti essenziali dell’uomo e della società, il loro tentativo di trovare un difficile equilibrio tra natura e ragione, tra desiderio e coesione sociale5.
storico. Un caso esemplare a questo proposito è quello di John Dewey, la cui Logic ebbe un ruolo fondamentale nell’orientare gli storici americani a una presa di distanza da una storiografia falsamente «obiettiva e scientifica». Ma idee assai simili a quelle di Dewey esercitarono notevole influenza sugli esponenti del movimento della New History, che intorno al 1910 si presentava negli Stati Uniti come una specie di eresia che attaccava i presupposti metodologici e filosofici della storiografia americana tradizionale. Si ricordi per esempio Cari Becker, che in un articolo dal titolo Detachment and thè Writing of History prendeva posizione contro la storiografia di impronta positivistica. Su questi problemi cfr. P. Rossi, Su alcuni problemi di metodologia storiografica, in II pensiero americano contemporaneo, Milano, Comunità, 1958, II, pp. 95-129 (poi ripubblicato col titolo Problemi di metodologia storiografica nella cultura americana, in Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, Einaudi, 1969, pp. 125-170).
3 A.O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing, Cambridge-London, Harvard University Press, 193 6 (1964), p. 3 (prima traduzione italiana, Milano, Feltrinelli, 1968).
4 A.O. Lovejoy, Reflections, cit., p. 22.
5 Ibidem.



449
Gli interessi settecenteschi di Lovejoy erano d’altra parte antichi e ben radicati. Gli studi sul XVIII secolo segnarono l’intera parabola intellettuale dello scrittore, dall’articolo scritto appena ventiduenne su lord Mon-boddo6, alle Reflections pubblicate da un ottantottenne Lovejoy ormai prossimo al congedo dagli studi e dalla vita. Egli confrontò figure e problemi legati al XVIII secolo nel suo libro più celebre, The Great Chain of Being, dove ben quattro capitoli erano volti a indagare forme e sviluppi cui l’idea di grande catena dell’essere era stata sottoposta nel corso del Settecento. Oltre a ciò, Lovejoy si era misurato in studi sull’evoluzionismo settecentesco7, sul primitivismo8, sui significati che il termine «natura» aveva assunto nel corso del XVIII secolo9, e infine in una serie di saggi in cui aveva
6 Cfr. James Burnett, Lord Monboddo, in «University of California Magazine», 1, 1895, pp. 68-79.
7 Cfr. Some Eighteenth Century Evolutionists, in «Popolar Science Monthly», 65, 1904, pp. 238-251; The Argument for Organic Evolution before «The Origin of Species», in «Po-pular Science Monthly», 75, 1909, pp. 499-514 e 537-549; Kant and Evolution, in «Popolar Science Monthly», 77, 1910, pp. 538-553 e 78, 1911, pp. 36-51; Buffon and thè Problem of Species, in «Popolar Science Monthly», 79, 1911, pp. 464-473 e pp. 544-567.
8 Cfr. The Supposed Primitivism of Rousseau s «Discours on Inequality», in «Modem Phi-lology», 21, 1923, pp. 165-186; Monboddo and Rousseau, in «Modem Philology», 3 0, 1933, pp. 275-296.
9 Cfr. «Nature» as Aeshetic Norm», in «Modem Langoage Notes», 42, 1927, pp. 444450; The First Gothic Revival and thè Return to Nature, in «Modem Langoage Notes», 47, 1932, pp. 419-446; The Parallel ofDeism and Classicism, in «Modem Philology», 29, 1932, pp. 281-299. Proprio dalle ricerche di Lovejoy sol termine «natora» parti Lester G. Crocker, che a Lovejoy goarderà sempre come al proprio indiscosso maestro e che Lovejoy citerà come riferimento essenziale nella soa opera più ambiziosa, An Age of Cri-sis. Man and World in Eighteenth Century French Thought, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1959, pp. 18-19. Crocker prese sponto dal volome di Lovejoy e di G. Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, per evidenziare come l’idea di natora rappresentò ono dei ponti centrali e onificatori del secolo. Crocker distingueva tra il significato descrittivo e qoello normativo che il termine «natora» ebbe nel Settecento. Nel primo caso esso definiva ciò che era antecedente alla ragione, poramente organico e fisico, ciò che era semplice e «originale». Nel secondo caso «natora» poteva ricorrere anche in espressioni come «religione naturale» e «diritto naturale», ciò che quindi era morale e accettabile dalla ragione. La confosione tra qoeste doe attribozioni portò a intendere il naturale come criterio formale di validità, anche se per «natora» si conti-noarono a intendere cose diversissime: gli istinti degli nomini, gli attriboti più caratteristici della natora omana (per esempio la coscienza, l’altruismo, i gin dizi morali), ma anche ona sorta di razionalismo che riguardava verità evidenti e corrioni a totti (cfr. A.O. Lovejoy and G. Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1935, pp. 447-456). So Crocker e la soa adesione ai principi metodologici della scuola di Lovejoy si veda B. Maffiodo, Lester G.Crocker storico dellTl-luminismo, in «Rivista storica italiana», 1990, fase. II, pp. 458, 464, 475, 484-485, 505506.



450
esercitato il proprio metodo storico su aspetti diversi del secolo dei Lumi10. Un corpus vasto ed esauriente, nel quale era possibile riconoscere il segno di una predilezione convinta e costante.
Se poi poniamo attenzione alle date di pubblicazione di questi studi, un’altra considerazione sorgerà immediata. Molti di essi risalgono infatti al ventennio che va dall’inizio degli anni Venti al termine degli anni Trenta, periodo che segnò una forte ripresa di interesse nei confronti dell’Ulumini-smo, in Europa come negli Stati Uniti11. Per gli intellettuali americani questa riscoperta aveva il significato di un superamento della chiusura, anche culturale, nei confronti dell’Europa, e di una riconsiderazione delle proprie origini politiche e ideologiche. In un’America travolta dalla grande crisi del ’29, che aveva messo in discussione anche un certo modello di sviluppo economico e sociale, e con lo spettro dei nascenti fascismi in Europa, il ponte lanciato verso il Settecento era il segnale di una volontà di ricomposizione razionale della crisi. Il rinascere di interesse per i Lumi settecenteschi significava assumere come modello una certa Europa, razionalista e riformatrice, nella quale gli intellettuali avevano spesso svolto un ruolo primario nella richiesta e nell’elaborazione dei programmi di riforma. Aspetto, quest’ultimo, che certamente doveva contare in un periodo quale quello del new deal roosveltiano, durante il quale la cultura americana di orientamento progressista si caratterizzò per un piu marcato impegno e intervento nella vita pubblica. Da questa volontà e in questo momento politico e culturale nascevano dunque l’opera di Preserved Smith sullTllumini-smo12, quella di Gottschalk sulla rivoluzione francese13, la ricerca di Wade sull’organizzazione e la diffusione delle idee clandestine in Francia14, il
10 Cfr. Pride in Eighteenth-Century Thought, in «Modem Language Notes», 36, 1921, pp. 31-37; The Lenght of Human Infancy in Eighteenth-Century Thought, in «The Journal of Philosophy», 19, 1922, pp. 3 81-3 85; Herder and thè Enlighteenth Philosophy of History, testo di una conferenza poi inserito negli Essays in thè History of Ideas, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1948, pp. 166-182 (trad. it. L’albero della conoscenza. Saggi di storia delle idee, Bologna, Il Mulino, 1982).
11 Su tale rinnovato interesse per il secolo dei Lumi nella cultura europea degli anni Trenta si veda il saggio di G. Ricuperati, Paul Hazard e la storiografia dellTlluminismo, in «Rivista storica italiana», 1974, fase. II, pp. 372-404. Dello stesso autore si veda anche La storiografia sullTlluminismo dagli anni Trenta ad oggi, Torino, Tirrenia, 1973, pp. 43 sgg.
12 P. Smith, The Enlightenment (1687-1776), voi. II di zi History ofModern Culture, New York, H. Holt, 1929.
13 L.R. Gottschalk, The Era of thè French Revolution (1715-1815), Boston-New York, Houghton Mifflin, 1929.
14 I.O. Wade, The Clandestine Organisation and Diffusion of Philosophic Ideas in France from 1700 to 1750, Princeton, Princeton University Press, 193 8.



451
libro celeberrimo di Cari L. Becker15, o ancora quello d’esordio di Robert R. Palmer16.
Le pagine che seguono sono dedicate a un approfondimento degli studi lo-vejoyani sul Settecento. Con l’avvertenza che tali studi rappresentarono una parte soltanto, sia pur importante, della sua attività. Rispetto agli studiosi appena citati, storici di professione, Lovejoy ebbe infatti la particolarità di una formazione soprattutto filosofica. Egli studiò alla University of California sotto la guida del filosofo idealista George Holmes Howison, e consegui il dottorato a Harvard con Josiah Royce. Insegnò quindi filosofia a Stanford, alla Washington University di St. Louis (1901-1908), alla University of Missouri (1908-1910), e fu infine professore e poi professore emerito alla Johns Hopkins University di Baltimore dal 1910 al 1962. Rilevanti furono i suoi contributi alla discussione delle idee di James, di Dewey, di Bergson, e in generale quelli volti a combattere l’idealismo e il pragmatismo dominanti alla sua epoca, in nome di un realismo critico che affermava l’autonomia del mondo esterno e il carattere rappresentativo della conoscenza17.
La sua fama, particolarmente in Europa, resta comunque legata soprattutto agli studi di storia delle idee. La teorizzazione lovejoyana al riguardo è cosa troppo celebre perché ci si torni in questa occasione. Brevemente, e per gli scopi che qui ci proponiamo, possiamo ricordare che la history of ideas si fondava sul presupposto che le dottrine filosofiche, le visioni del mondo, gli «ismi», lungi dall’essere insiemi teorici unitari e coerenti, erano spesso aggregati di idee in accordo instabile e provvisorio, in un continuo e fecondo scambio con l’ambiente in cui sorgevano, con la cultura e le emozioni degli uomini che le forgiavano. Allo storico delle idee spettava
15 C. Becker, The Heavenly City of thè Eighteenth-Century Philosophers, New Haven, Yale University Press, 1932.
16 R.R. Palmer, Cathotics and Unhelievers in Eighteenth-Century France, Princeton, Princeton University Press, 1939.
17 Per gli scritti di Lovejoy su William James, cfr. Pragmatism and Theology, in «American Journal of Theology», 12, 1908, pp. 116-143; William James as Philosopher, in «International Journal of Ethics», 21, 1911, pp. 126-153; James"s Does Consciousness Exist?, in The Thirteen Pragmatisms and Other Essays, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1963, pp. 113-132. Anche gli altri due saggi dedicati alla figura di James apparvero su The Thirteen Pragmatisms. Su Dewey cfr. Pragmatism versus thè Pragmatist, in Essays in Criticai Realism: A Cooperative Study of thè Problem of Knowledge, London, Macmillan and Co., 1920, pp. 35-81; Time, Meaning and Transcendence, in «Journal of Philosophy», 19, 1922, pp. 505-515, 533-541; Pastness and Transcendence, in «Journal of Philosophy», 21, 1924, pp. 601-611. Sulla discussione da parte di Lovejoy della filosofia di Bergson cfr. The Prohlem of Time in Recent French Philosophy, in «Philosophical Review», XXI, 1912, pp. 11-31, 322-343, 527-545; Bergson and Romantic Evolutionism, in «University of California Chronicle», 15, 1914, pp. 429-487.



452
dunque il compito di scomporre tali aggregati apparentemente unitari, individuando le unit-ideas, gli elementi costitutivi di questi più vasti complessi. La history of ideas non era dunque unicamente rivolta allo studio degli elementi logici, concettuali, delle dottrine, ma anche a quelli emotivi, agli inconsci abiti mentali, a quello che nell’introduzione alla Great Chain ofBeing Lovejoy definiva un certo «pathos metafisico». All’immagine di una storia del pensiero come processo logico, lo studioso contrapponeva dunque una ricerca nella quale una parte importante spettava all’affettività, alla storia più sfuggente delle sensibilità18.
Questa volontà di fare storia intellettuale non andò comunque mai disgiunta nello studioso dagli interessi speculativi. Il suo sguardo rimase pur sempre quello di un filosofo con interessi storici, orientato dunque, nella considerazione del passato, dai problemi che la sua filosofia cercava di risolvere nel presente. Questo vale per gran parte degli scritti storici di Lovejoy, e quindi anche per quelli dedicati al secolo dei Lumi. Se il metodo teorizzato dallo studioso, quello della history of ideas, ebbe larga fortuna e autonoma applicazione nelle opere di numerosi studiosi americani ed europei del nostro secolo, è anche vero che esso fu utilizzato dal suo teorico in
18 Lovejoy espose le linee fondamentali del suo metodo storico principalmente nell’introduzione a The Great Chain of Being, cit., pp. 11-29. Si vedano anche, sempre di Lovejoy, The Historiography of Ideas, in «Proceedings of thè American Philosophical Society», 78, march 193 8, pp. 529-543, articolo poi posto ad apertura degli Essays in thè History of Ideas; e le Reflections on thè History of Ideas, articolo inaugurale del «Journal of thè History of Ideas», 1, 1940, pp. 3-23. Si trattava, come diceva il sottotitolo della rivista, di un «quaterly devoted to thè intellectual history». La storia delle vicende che portarono alla fondazione del «Journal» è stata fatta da Philip P. Wiener, uno dei principali collaboratori di Lovejoy sin dagli anni Trenta (cfr. P.P. Wiener, Lovejoy s Rote in American Philosophy, in Studies in Intellectual History, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1953, pp. 169-170). Già nel 1937 George Sarton, Xeditor di «Isis», una rivista americana di storia della scienza, aveva proposto a Lovejoy di aprire nella rivista stessa uno spazio dedicato agli studi di history of ideas. Lovejoy aveva però declinato l’invito, rilevando che gli storici, esattamente il pubblico che egli voleva raggiungere, difficilmente leggevano «Isis». Alcuni mesi dopo fu la volta di Philip Wiener, allora giovane insegnante di filosofia al City College di New York. Questi scrisse a Lovejoy, proponendo la fondazione di una rivista di storia della filosofia. Lovejoy rispose con entusiasmo, proponendo però di allargare il campo di studi: non più una rivista di storia della filosofia, bensì di storia delle idee. Passarono ancora circa due anni, nella ricerca dei fondi, dei collaboratori, di un editore. Finalmente nei primi mesi del 1940 usciva il primo numero del «Journal of thè History of Ideas»: Lovejoy ne era editor, Wiener managing editor. Il comitato di redazione includeva i nomi di Grane Brinton, Morris R. Cohen, Perry Miller, Marjorie Nicolson, John Herman Randall jr., Louis B. Wright. Il numero d’esordio riportava l’articolo già citato di Lovejoy sulla history of ideas, uno di Bertrand Russell su Byron, di Louis B. Wright sul Rinascimento inglese e di Robert R. Palmer sul nazionalismo in Francia.



453
studi che si connettevano direttamente al problema centrale di tutta la sua filosofia, quello di rendere ragione di un mondo pluralistico e temporale, nel quale un ruolo decisivo avevano gli elementi di evoluzione e di trasformazione.
Questa esigenza di «trasparenza» Lovejoy sempre ricercò, nelle opere di carattere speculativo e in quelle etiche, negli studi storici come nella sua attività di organizzatore culturale e nel suo impegno più direttamente politico. Egli credette alla possibilità di rendere la realtà razionalmente intelle-gibile, e dunque all’esistenza di «truths verifiable by thè common reason». Nella relazione inaugurale tenuta al XII Congresso dell’American Philo-sophical Association lo studioso invitava la comunità filosofica alla collaborazione sui più controversi problemi allora in discussione. Il suo appello a favore di una filosofia più rigorosa e scientifica sottintendeva la fiducia nell’esistenza di una razionalità fondamentale, propria di tutti gli uomini, e tale dunque da consentire di giungere a un accordo su alcune questioni di fondo: le leggi basilari del pensiero, la sfera degli affetti, la realtà del mondo esterno.
Il problema della rappresentazione del reale fu a lungo al centro del suo interrogarsi. Nei numerosi scritti dedicati all’argomento egli sostenne che l’evento che si conosce è cosa ben distinta dal conosciuto. L’oggetto sperimentato dai sensi dipende certo dal senziente, ed è incapace di esistere separato dall’esperienza; ma allo stesso tempo esso mantiene una realtà irriducibile e un’esistenza indipendente dal senziente. L’oggetto esterno era quindi secondo Lovejoy rappresentato nella coscienza piuttosto che direttamente presentato. La conoscenza non poteva che essere indiretta, perché sempre mediata attraverso i sensi; l’oggetto in sé, comunque esterno a noi, non era l’oggetto del conoscere19.
19 Molti sono gli scritti dedicati da Lovejoy all’esposizione del realismo critico. Tra questi si vedano: Reflections of a temperatisi on thè new realism, in «Journal of Philosophy», 8, 1911, pp. 589-600; Realism versus epistemological monism, in «Journal of Philosophy», 10, 1913, pp. 561-572; Pragmatism versus thè Pragmatist, in Essays in Criticai Realism: a cooperative study of thè problem of knowledge, London, Macmillan and Company, 1920, pp. 35-81; The Anomaly of Knowledge, in «University of California Publications in Philosophy», 4, 1923, pp. 3-43; The Revolt against Dualism: an Inquiry concerning thè Exi-stence of Ideas, Lasalle, Illinois, Open Court Publishing Company, 1930; Dualism good and bad, in «Journal of Philosophy», 29, 1932, pp. 337-354 e 375-381; The Thirteen Prag-matisms and other essays, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1963. Sulla teoria epistemologica lovejoyana, cfr. T.E. Hill, Contemporary theories of knowledge, New York, The Ronald Press Company, 1961; R.M. Chisholm, Theory of Knowledge Philosophy, ed. by R.M. Chisholm, H. Feigl, W.K. Frankena, J. Passmore, M. Thompson; «Humanistic Scholarship in America: The Princeton Studies», ed. by R. Schlatter, En-glewood Cliffs, NJ, Prentice Hall, 1964, pp. 23 3-3 44; L.S. Feur, The Philosophical Method of Arthur O. Lovejoy: Criticai Realism and Psychoanalytical Realism, in



454
Una reale attribuzione di indipendenza alle cose fisiche era comunque possibile secondo Lovejoy soltanto riconoscendo il tempo come realtà concreta dell’esperienza umana. L’esistente come oggetto fisico non poteva mai essere lo stesso dell’esistente come percezione, a causa della differenza di tempo che interviene in ogni percezione. Come affermava in The Revolt Against Dualism il tempo era «thè primary naturai postulate out of which thè belief in an external world, in objects which exist though they are not given in experience, arises»20. «Tempo-esperienza», dunque, reale, che consentiva di identificare con certezza il relativo locus temporale di ogni entità, processo o relazione. Tempo come concreta esperienza di successione, per mezzo della quale non soltanto la realtà assume forme diverse, ma nuove parti di essa, non esistenti in precedenza, emergono. Il temporalismo lo-vejoyano era dunque una particolare forma di evoluzionismo. Parlando di specific emergence, egli intendeva riferirsi alla possibilità di osservare empiricamente il sorgere all’esistenza di eventi che non sono semplici rielaborazioni di preesistenti entità naturali, ma anche di leggi fisiche non identificabili con leggi sostenute in passato: «We have [...] abundant reason to be-lieve that in thè history of our planet there have occured genuine new births of time, a sheer increase and diversification and enrichment of thè sum of things here»21. L’argomento del prevalere di un pensiero evoluzionistico doveva però essere riconosciuto anche nella sua genesi storica. Questo era il senso di una serie di articoli che egli dedicava al tema all’inizio della sua attività. Nel 1904 venivano pubblicati The Dialectic of Bruno and Spinoza22, articolo che anticipava molti dei temi della Great Chain of Being, e Some Eighteenth Century Evolutionists, in cui proclamava che «a
«Philosophy and Phenomenological Research», 23, 1963, pp. 493-510; R.A. Oakes, Some Perspectives on Lovejoy’s Epistemological Dualism, in Transactions of thè Charles S. Peir-ce Society, 9, 1973, pp. 116-12 3; A.J. Reck, The Philosophy of A.O. Lovejoy (1873-1962), in «Review of Metaphysics», 17, 1963, pp. 257-285.
20 The Revolt against Dualism, cit., p. 333.
21 The Meanings of «Emergence» and its Modes, in Proceedings of thè Sixth International Congress of Philosophy, New York Longmans, Green & Co, 1927, p. 32. Lovejoy tracciò le linee fondamentali del suo temporalismo in numerosi saggi. Tra questi si vedano: The Ohsolescence of thè Eternai, in «Philosophical Review», XVIII, 1909, pp. 479-502; The Dialectical Argument against Absolute Simultaneity, in «Journal of Philosophy», 27, 1930, pp. 617-632 e 645-654; A Temporalistic Realism, in Contemporary American Philosophy. Personal Statements, voi. 2, ed. by G.P. Adams and W.P. Montague, New York, The Macmillan Company, 1930, pp. 85-105. Sul temporalismo lovejoyano cfr. K.E. Duf-fin, Arthur O. Lovejoy and thè Emergence of Novelty, in «Journal of thè History of Ideas», 41, 1980, pp. 267-281; P.P. Wiener, The centrai rote of Time in Lovejoy’s Philosophy, in «Philosophy and Phenomenological Review», 23, 1963, pp. 480-492.
22 The Dialectic of Bruno and Spinoza, in «University of California Publication in Philosophy», 1, 1904, pp. 141-174.



455
satisfactory history of thè theory of descent is a chapter in thè records of human opinion that is stili to be written». La nozione di evoluzione della specie non era sorta con Darwin, ma era già una «militant hypothesis» nella Francia di Maupertuis, di Buffon, di Diderot. Gli sviluppi nell’embriologia e nell’anatomia avevano accompagnato e aiutato l’ascesa dell’evoluzionismo23. Argomento che avrebbe ripreso cinque anni più tardi, nel 1909, in The Argument for Organic Evolution before «The Origin of Species»1^, e che rimase tra i suoi più costanti interessi. Ancora nel 1938, in The Historio-graphy of Ideas, saggio poi ripubblicato negli Essays in thè History of Ideas, Lovejoy segnalava la mancanza di un «historically and philosophically re-spectable account of thè idea of evolution before Darwin», lamentando anche l’assenza di una stretta comunicazione tra la storia delle idee e della scienza da un lato, e gli specialisti di altre discipline dall’altro25. Un appello che verrà raccolto anni dopo, nel 1959, con la pubblicazione della raccolta Forerunners of Darwin (1745-1859), a cura di due tra i primi aderenti all’History of Ideas Club, il biologo Bentley Glass e lo storico della medicina Owsei Temkin26.
E soltanto con The Great Chain of Being che tutti questi temi acquisteranno una fisionomia pressoché definitiva. L’opera rappresentava l’approdo finale di trent’anni di studi storici e filosofici. Lovejoy la trasse da una serie di conferenze tenute all’Università di Harvard nel 1933 nell’ambito delle William James Lectures. Il contenuto del libro e le discussioni suscitate sono note27. The Great Chain of Being era il filo conduttore
23 Cfr. Some Eighteenth Century Evolutionists, cit., pp. 328-335.
24 The Argument for Organic Evolution before «The Origin of Species», cit.
25 Cfr. The Historiography of Ideas, in Essays in thè History of Ideas, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1948 (1965), p. 12 (precedentemente in «Proceedings of thè American Philosophical Society», 78, march 1938, pp. 529-543). Il rappresentante più illustre di questo incontro tra storia delle idee e storia della scienza rimane senza dubbio Alexander Koyré, il cui From thè Closed World to thè Infinite Universe dipendeva fortemente nella concezione da The Great Chain of Being. Due erano però gli elementi che differenziavano Koyré dalla scuola di Lovejoy: da una parte l’interesse prevalente per fonti tratte dalla filosofia e dalla scienza, dall’altro lo sforzo di legare più saldamente i concetti analizzati ai problemi specifici della società. Sulle differenze tra i due si veda VIntroduzione di P. Zambelli a A. Koyré, Dal mondo del pressapoco all’universo della precisione, Torino, Einaudi, 1963, pp. 31-33.
26 Cfr. Forerunners of Darwin (1747-1879), Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1959.
27 II libro fu accolto alla sua uscita con immediato favore. «The Crozer Quarterly» ne parlò come «one book on philosophy that ought to come into thè hands of thè generai reader» (E.M. Austin, «The Crozer Quarterly», 14, 1937, pp. 149-150); Clifford Barret sulla «New York Times Book Review» del 9 maggio 1937, sosteneva che «no student of thè history of literature, Science or philosophy may well neglect it»; John Laird, su «Mind» (46, 1937, pp. 400-405), lo definiva un libro «very good to read», e E. Nagel,


456
scelto da Lovejoy nell’interpretazione della filosofia e della scienza occidentali. Era l’idea della costituzione dell’universo come un’organica gerarchia di forme, dalla più primitiva e insignificante sino alla più comprensiva, Vens perfectissimum che, increato, era il culmine e il fine cui ogni creatura tendeva. L’idea della Catena dell’Essere si era presentata nei secoli associata ad altre unit-ideas, che ne avevano offerto la base teorica di sostegno e di giustificazione: l’idea di pienezza, secondo cui l’universo è completamente saturo di creature diverse, e non esiste vuoto o salto tra di esse; l’idea di continuità, per la quale una «catena» lega tutti gli esseri presenti nell’universo, costituendo un continuum che dalle forme meno sviluppate giunge sino a quelle più complesse; il principio di ragion sufficiente, per il quale ogni cosa che esiste ha in sé la propria necessità e ragione d’essere.
Lovejoy tracciava vicissitudini e mutazioni cui l’idea di Catena dell’Essere era stata sottoposta nei secoli: presente per la prima volta in modo riconoscibile nelle opere di Platone e di Aristotele, essa aveva avuto formulazione definitiva nel pensiero del neoplatonico Plotino. Attraverso il pensiero medioevale - Tommaso d’Aquino soprattutto - e la scienza e la filoso-
su «New Republic» (89, 193 6, p. 224), lo descriveva come «fascinating and moving». La valutazione dell’opera è continuata nei decenni successivi, intrecciandosi alla discussione sul metodo storico prescelto dallo studioso. Molti interventi si focalizzarono sul significato che Lovejoy attribuiva al termine unit-idea: alcuni, come M. Mandelbaum (The History of Ideas, Intellectual History, and thè History of Philosophy, in «History and Theory», 5, Beiheft, 1965, pp. 33-66), lamentarono che tali unit-ideas potevano essere «recurrant ideas» e non «continuing ideas», o anche soltanto «family resemblances» (cfr. anche N.B. Kvastad, On Method in thè History of Ideas, in «International Logic Review», 9, 1979, pp. 96-110). In altri casi venne criticato il rapporto di causa-effetto che Lovejoy aveva adottato. L.O. Mink sostenne che lo storico delle idee non doveva interessarsi tanto al problema di come un certo pensatore aveva influenzato un altro pensatore, quanto piuttosto comprendere in che modo un’idea aveva funzionato e come era divenuta parte dei processi culturali e della coscienza di un’epoca (cfr. L.O. Mink, Change and Causality in thè History of Ideas, in «Eighteenth Century Studies», 2, 1968, pp. 7-25; cfr. anche R.H. Pearce, A Note on Method in thè History of Ideas, in «Journal of thè History of Ideas», 9, 1949, pp. 372-379). In generale comunque si apprezzò lo sforzo lovejoy ano di rompere le barriere tra le discipline (cfr. T. Bredsdorff, Lovejovianism - or thè Ideological Mechanism: An Enquiry into thè Principles of thè History of Ideas Accor-ding to Arthur O. Lovejoy, in «Orbis Litterarum», 30, 1975, pp. 1-27). Il libro e il metodo di Lovejoy erano inoltre ben presenti a Quentin Skinner nel suo famoso saggio Meaning and Understanding in thè History of Ideas, in cui questi riepilogava i risultati e suggeriva le possibili prospettive della storia intellettuale alla fine degli anni Sessanta (cfr. in «History and Theory», 8, 1969, pp. 3-53). Per una rassegna dei problemi e delle discussioni sollevate da The Great Chain of Being, cfr. D.J. Wilson, Arthur O. Lovejoy and thè Mora! of «The Great Chain of Being», in «Journal of thè History of Ideas», 41, 1980, pp. 249-265.


457
fia della prima età moderna, Lovejoy giungeva al fiorire della great chain of being nelle diverse discipline scientifiche e umanistiche del XVIII secolo, e quindi alla sua crisi, tra Settecento e Ottocento, quando l’introduzione del divenire come elemento essenziale nella percezione del mondo aveva messo a dura prova l’idea di un universo statico e assoluto. Il volume non era dunque interamente rivolto allo studio di temi e autori settecenteschi. Vasto, il più vasto possibile, da Platone ai giorni nostri, era l’arco temporale considerato, e particolare l’angolo visuale prescelto. Ma al XVIII secolo era dedicata la parte più cospicua dell’opera, ben quattro capitoli che illustravano la voga che l’idea di Catena dell’Essere aveva avuto nelle opere di filosofi, poeti, moralisti, teologi dell’epoca:
Addison, King, Bolingbroke, Pope, Haller, Thomson, Akenside, Buffon, Bonnet, Goldsmith, Diderot, Kant, Lambert, Herder, Schiller - all these and a host of les-ser writers not only expatiated upon thè theme but drew from it new, or previou-sly evaded, consequences [...] Next to thè word «Nature», «The Great Chain of Being» was thè sacred phrase of thè eighteenth century, playing a part somewhat analogous to that of thè blessed word «evolution» in thè late nineteenth28.
Il primo dei quattro capitoli era dedicato all’esposizione delle più diffuse teorie settecentesche relative al posto dell’uomo nell’universo. Molte di esse avevano insegnato che questi non poteva essere considerato l’essere privilegiato del creato, come aveva sostenuto tanta apologetica, sia ortodossa sia deistica. Nell’ordine dell’universo ogni essere aveva una sua ragione, quindi una dignità indipendente dal posto occupato nella gerarchia delle creature. Il tema, che aveva già preso forma durante il Seicento, negli scritti di Galileo e di Henry More, di Cartesio e di Locke, si era venuto sempre più affermando nel Settecento, con Leibniz e Bolingbroke, Pope e Addison. Nella gerarchia degli esseri l’uomo si collocava esattamente nel punto di transizione tra le forme meramente senzienti e quelle puramente intellettuali. Lontano dalle forme di vita più semplici, egli era ugualmente lontano dai gradi superiori dell’universo29. Venivano poi pagine tese a dimostrare come l’idea di Catena dell’Essere avesse rappresentato il fondamento teorico dell’ottimismo settecentesco, ricostruito nelle opere di William King, di Pope, di Leibniz30. E ampio spazio era dedicato anche alle scienze della natura del XVIII secolo, e al ruolo che l’ipotesi di una scala di creature infinitamente graduata aveva svolto come stimolo al progresso delle conoscenze naturali. Il programma generale della Royal Society era stato quello «to discover unknown facts of nature in order to range them properly in their places in thè Chain of Being, and at thè same time to make this
28 The Great Chain of Being, cit., pp. 183-184.
29 Cfr. ivi, pp. 186-195.
30 Cfr. ivi, pp. 208-226.


458 Roberto Resta
knowledge useful to man»31. E neW Encyclopédie i philosophes avevano scritto che «thè art of thè philosopher consists in adding new links to thè se-parated parts, in order to reduce thè distance between them as much as possible»32. Anche l’utilizzazione di più efficienti strumenti di osservazione, quali per esempio il microscopio, sembrò dare ulteriori prove empiriche ai principi di pienezza e di continuità. Nel 1739 la scoperta dell"Hydra di Trembley fu subito salutata come l’anello mancante, e a lungo ricercato, tra i mondi vegetale e animale. Gran parte delle ricerche furono del resto orientate a ricercare similarità e continuità tra gli esseri. Filosofi e scienziati, Gùnther e Rousseau, Bonnet e Linneo, vollero accreditare la visione di un universo dove tutto è vita, dove nessun frammento di materia era cosi piccolo da non poter fornire ricettacolo e nutrimento a esseri viventi ancora più piccoli.
Agli ultimi decenni del Settecento risalivano però anche i primi segni di crisi della concezione. Sino ad allora essa era stata presentata in un modo che annullava ogni evoluzione. Dio aveva una volta per tutte creato il mondo nella sua perfezione. Il processo del tempo non portava alcun mutamento, né questo poteva essere concepibile in un universo che si voleva manifestazione di eterna razionalità. Questa concezione era apparsa sempre più insostenibile agli uomini del XVIII secolo. Erano stati soprattutto i progressi dell’osservazione scientifica a minare la fiducia in una fissa ed eterna scala di creature. Le ricerche dimostravano che alcune specie un tempo esistite erano poi scomparse, e che era possibile concepire specie intermedie tra quelle attualmente esistenti. Del resto già l’idea di specie, rappresentando la natura come una serie di distinte unità, contraddiceva il principio della pienezza su cui la nozione di Catena dell’Essere si era fondata. Permaneva, è vero, l’altro principio costitutivo di essa, quello di continuità. Tra le specie potevano sussistere vuoti, ma il loro porsi in una scala non era messo in discussione. La continuità permaneva tra le serie, tra l’organico e l’inorganico, tra il mondo vegetale e quello animale. Era in fondo la teoria di un’unità nel perpetuo flusso delle cose che cosi larga diffusione avrebbe avuto nelle opere dei filosofi e degli scienziati settecenteschi, in Diderot e in Robinet, in Buffon e in La Mettrie, in Needham e in Bonnet. Nonostante la sopravvivenza del principio di continuità, l’idea di Catena dell’Essere era però ormai destinata a rapida estinzione. La stessa idea di un continuum biologico avrebbe mutato di segno, persistendo non come gradazione e contiguità delle forme naturali, ma come una continuità temporale nel processo di organizzazione della natura. Essa sarebbe dunque diventata soprattutto un ideale regolatore, capace di assicurare l’unità del di-
31 Ivi, p. 232.
32 Ibidem.


459
venire, e come tale avrebbe avuto ampio uso in tutte le filosofie del divenire, nAVélan vital bergsoniano, nell’idealismo postkantiano, nell’evoluzionismo.
Il libro era dunque la storia di un «fallimento»33, o se si vuole del passaggio da una concezione statica e razionale dell’universo a una opposta, che faceva propri i concetti di divenire, di relatività, di processo. Evidente risultava il legame con la produzione più strettamente speculativa di Lovejoy. Con The Great Chain of Being lo studioso esaminava i precedenti storici di una tendenza del pensiero che soltanto nel Novecento si era definitivamente affermata: l’abbandono della fede in un mondo interamente razionale e l’approdo a una concezione contingente e pluralistica. L’idea di Catena dell’Essere aveva nei secoli poggiato su un assunto fondamentale: il cosmo era stato creato da Dio una volta per tutte. Esso era statico, assoluto, interamente logico, anche se non sempre comprensibile da mente umana. L’Essere supremo provvedeva le basi logiche di un mondo concepito come graduato sul modello della perfezione. Ogni forma possibile era al contempo anche attuale; per ogni idea ci doveva essere un oggetto sensibile corrispondente, in quanto ogni volere possibile aveva la sua realtà corrispondente. Questa concezione aveva mostrato i primi segni di crisi proprio nella seconda metà del Settecento. La temporalizzazione della Catena dell’Essere aveva rappresentato anche il suo tramonto: «a world of time and change - this, at least, our history has shown - is a world which can neither be deduced from nor recon-ciled with thè postulate that existence is thè expression and consequence of a System of “eternai” and “necessary” truths inherent in thè very logie of being»34. L’accettazione dell’esperienza del tempo svelava la contingenza del mondo: «its magnitude, its pattern, its habits, which we cali laws, have so-mething arbitrary and idiosyncratic about them. But if this were not thè case, it would be a world without a character, without power of preference or choi-ce among thè infinity of possibles»35. Ciò che più connotava l’uomo contemporaneo era dunque la coscienza della temporalità di ogni oggetto ed evento, il senso della relatività di ogni valore, della precarietà di ogni esperienza e conquista umana. Ciò che meglio definiva la coscienza moderna era la scoperta della storicità. Se soltanto nel Novecento tale processo era giunto al suo culmine, esso poteva essere fatto risalire a tendenze del pensiero affermatesi negli ultimi decenni del Settecento.
Questi temi avrebbero aperto, come vedremo tra breve, importanti questioni di morale nel pensiero di Lovejoy. Per ora basti però rilevare il nesso tra la sua maggiore opera storica e il realismo temporalistico di molti
33 Cfr. ivi, p. 329.
34 Ibidem.
35 Ivi, p. 332.


460
dei suoi scritti, e al tempo stesso il ruolo particolare che in essa veniva attribuito a temi e autori del XVIII secolo. Ma un altro settore della ricerca settecentesca dello studioso rivelò i segni della sua concezione evoluzionistica. Intendiamo qui riferirci agli studi lovejoyani sul primitivismo, e in particolare a due di essi: quello che analizzava il rousseauiano Diseours sur l'origine de ITnégalitéf e quello sulle analogie tra il pensiero di Rousseau e quello di lord Monboddo37, soprannome del giudice scozzese James Bur-nett, autore del celebre Origin and Progress of Language e considerato con Rousseau uno degli alfieri più convinti del primitivismo settecentesco. L’opera di Rousseau non aveva goduto sino ad allora di grande fortuna negli Stati Uniti: per gran parte dell’Ottocento il cittadino di Ginevra era stato infatti un soggetto generalmente trascurato dai critici e dagli studiosi americani38. I pochi che lo avevano preso in considerazione si erano quasi esclusivamente concentrati sull’«uomo» Rousseau, sui trascorsi della sua biografia piuttosto che su aspetti e problemi del suo pensiero. Spesso si era trattato di una disposizione severamente puritana, che aveva finito per accomunare in un giudizio negativo le vicende umane di Jean-Jacques e la sua produzione intellettuale. Thomas Davidson, nel 1898, aveva scritto che Rousseau «hated thè human mind in humanity; he hated Science, true love, and energy of will»39. Poco più tardi, nel 1903, un altro critico, William Hudson, aveva affermato che «his treatment of life was narrow and one-si-ded; his philosophy was full of paradoxes and inconsistencies»40. Per più di un decennio le cose non erano cambiate. Paul Elmer More, nel sesto volume dei suoi Shelhurne Essays, aveva parlato, a proposito di Rousseau, di «personalità demoniaca»41, e Irving Babbit, nel suo Rousseau and Roman-ticism, lo aveva bollato come «amatore del delirio»42. Lo stesso Babbit, nella sua ultima opera, Democracy and Leadership, aveva rincarato la dose: Rousseau aveva concepito «sofismi mostruosi», era stato un «corruttore della coscienza» e aveva «disumanizzato» l’uomo43.
36 Cfr. The Supposed Primitivism of Rousseau s «Discourse on Inequality», in Essays in thè History of Ideas, cit., pp. 14-37.
37 QE. Monboddo and Rousseau, in Essays in thè History of Ideas, cit., pp. 38-61.
38 Per uno sguardo alla fortuna di Rousseau negli Stati Uniti, cfr. A. Schinz, Etat pré-sent des travaux sur Jean-Jacques Rousseau, Paris, Les Belles Lettres, 1941, pp. 106-116.
39 T. Davidson, Rousseau and Education according to nature, New York, Scribner, 1898, p. 89.
40 W.H. Hudson, Rousseau and Naturalism in Life and Thought, New York, Scribner, 1903, p. 164.
41 P.E. More, The Shelhurne Essays, in «Bulletin of thè Washington University Associa-tion», 1906, 4, pp. 151-155.
42 I. Babbit, Rousseau and Romanticism, Boston-New York, Houghton Mifflin, 1919.
43 Id., Democracy and Leadership, Boston-New York, Houghton Mifflin, 1924.



461
Allo stesso periodo risale comunque anche un primo significativo mutamento di indirizzo, in direzione di una più serena valutazione dell’opera rousseauiana. Nel 1909 una pubblicazione dal titolo Rousseau, a Forerun-ner of Modem Pragmatism, accostava il filosofo al movimento di pensiero allora forse più in voga negli Stati Uniti, il pragmatismo44. Sei anni più tardi, nel 1915, era la volta dell’edizione critica degli scritti politici a opera di C.E. Vaughan, un lavoro che rinnovava profondamente quest’aspetto dell’esegesi rousseauiana45. Vaughan, nella sua cura meticolosa del testo, si servi dei manoscritti e delle prime edizioni delle opere del filosofo, definendone anche la posizione nell’ambito della storia del pensiero politico. Due erano le tesi principali di Vaughan: Rousseau non era stato un individualista, bensì un rigido difensore delle prerogative dello Stato, a cui l’individuo doveva piegarsi; egli non poteva essere considerato un puro teorico della politica, ma aveva tenuto conto delle «circostanze» nelle quali ogni azione politica deve dispiegarsi (Vaughan attribuiva questa disposizione all’influenza di Montesquieu). Dopo la guerra, nel periodo in cui i partecipanti al conflitto erano alle prese con i trattati di pace, veniva pubblicato a New York L'Etat de Guerre and Projet de Paix perpétue Ile46. Era quindi la volta di una serie di articoli che affrontavano aspetti particolari dell’opera di Rousseau47. Infine, nel 1923, compariva il saggio di Lovejoy. La tesi che lo studioso americano vi svolgeva era fortemente innovativa48.
44 Cfr. Rousseau, a Forerunner of Modern Pragmatism, Chicago, Open Court, 1909.
45 Cfr. The Politicai Writings of ]ean-Jacques Rousseau, ed. by C.E.Vaughan, The University Press, 1915, 2 voli.
46 Cfr. LEtat de Guerre/and/Projet de Paix Perpétuelle by Jean-Jacques Rousseau, Intro-duction by S.G. Patterson, New York, Putnam, 1920.
47 Cfr. soprattutto S.C. Chew, An English Predecessor of Rousseau, George, First Baron Littleton, 1735, in «Modem Language Notes», fune 1917, pp. 72-94; e G.R. Havens, The Theory of Naturai Goodness in Rousseau"s «Nouvelle Héloise», ivi, November 1921,, pp. 182-212.
48 E curioso quanto Albert Schinz dice a questo proposito nel suo Etat présent des tra-vaux sur Jean-Jacques Rousseau. Egli infatti attribuiva al suo lavoro La Pensée de Rousseau (Paris, A. Colin, 1929, in particolare alle pagine 158-196) il merito di aver riconosciuto che Rousseau non considera lo stato di natura come la condizione piu felice per gli uomini. Quindi, orgoglioso, affermava che «cette nouvelle interprétation de Rousseau fìt son chemin». Negli Stati Uniti l’avrebbe ripresa Lovejoy, nel suo saggio sul «supposto primitivismo» «arretant brusquement les campagnes anti-rousseauistes violentes qui reposaient entièrement sur le grief d’exalter l’homme de nature» (Etat présent, cit., p. 185). Schinz datava lo studio di Lovejoy al 1933. Peccato che questi lo avesse scritto nel 1923, quindi sei anni prima rispetto a La Pensée de Rousseau, che è del 1929. L’interpretazione che rigettava il «primitivismo» rousseauiano era già stata avanzata anche prima del saggio di Lovejoy. Era presente, per esempio, in un articolo di J. Izoulet sulla «Revue Hebdomadaire» del gennaio 1909, dove l’autore faceva notare che i caratteri attribuiti da Rousseau all’uomo primitivo nel secondo Discours erano quelli dell’animalità



462
Egli rifiutava l’interpretazione generalmente accettata secondo cui Rousseau era stato un ardente sostenitore della superiorità dello stato di natura rispetto a forme successive di convivenza umana. Al contrario, egli doveva essere considerato tra gli iniziatori di un movimento di pensiero che avrebbe condotto alla negazione del primitivismo. La concezione rousseauiana di stato di natura non era né unitaria né coerente. Con il termine état natu-rel il cittadino di Ginevra aveva inteso quattro stadi diversi, di cui soltanto il primo era quello della pura animalità, antecedente al sorgere di ogni legame civile, e non aveva comunque indicato questa fase come la piu felice e ideale per gli uomini49. L’uomo aveva conseguito la più alta felicità durante il terzo stadio, in un momento in cui le sue facoltà morali e intellettuali erano sufficientemente sviluppate, senza tuttavia che l’innocenza originaria fosse del tutto perduta. Gli sviluppi successivi, la diffusione dell’agricoltura e della metallurgia, l’instaurarsi delle prime forme di proprietà privata, l’ambizione sempre più divorante degli uomini, avevano reso indispensabile la formazione della società politica, e con ciò stesso la fase felice dell’umanità era terminata. In questo modo, a giudizio di Lovejoy, Jean-Jacques raccordava la sua analisi a quella del Leviathan hobbesiano: l’uomo che giunge al vertice del processo di sviluppo sociale giunge anche a uno stato di male in tollerabile. La società politica era stata inventata per arginare la violenza e l’insicurezza caratteristiche dello stato di natura50. Ancora più recisa sarebbe stata la negazione del primitivismo nel Contrat Social. A questo punto Rousseau non faceva eccezione neppure per il terzo stadio del Discours sur l’origine de l’inégalité. Mai nella storia era esistita una condizione ideale per la società umana: «l’heureuse vie de Page d’or fut toujours un état étranger à la race humaine»51. Rousseau ritrovava ormai nel futuro un nuovo ideale di convivenza umana: «far from thinking that there is no longer any virtue or happiness attainable by us, and that hea-ven has abandoned us without resource to thè depravation of thè species,
pura, e non di un essere propriamente umano; e in E. Champion, J.-J. Rousseau et la Révolution frangaise, Paris, A. Colin, 1910, dove a p. 51 si diceva: «son éloge de l’état de nature est une satire presque aussi sombre que celle qu’il fait de l’état social: l’hom-me sauvage n’a pas de vices, mais pas davantage de vertus; ni bon, ni mauvais; il est nul, il est bete, ne pense, n’aime, ni hait, n’a ni droits, ni devoirs». Dopo l’articolo di Lovejoy, negli Stati Uniti, questa interpretazione fu ripresa dall’importante studio di E.H. Wright, The Meaning of Rousseau, London-New York, Oxford University Press, 1929; e da S.V. Ogden, in un articolo apparso nell’«American Politicai Science Review», Au-gust 193 8, pp. 643-656.
49 Cfr. The Supposed Primitivism of Rousseau’s «Discourse on Inequality», cit., pp. 16-17. 50 Cfr. ivi, pp. 33-34.
51 Ivi, p. 34. La citazione di Lovejoy era tratta da J.-J. Rousseau, The Politicai Writings of Jeanfacques Rousseau, cit., I, p. 448.


463
let us endeavor to draw from thè very evil from which we suffer thè re-medy which shall cure it»52.
Simili erano le conclusioni a cui giungeva l’analisi del pensiero di James Burnett. The Origin and Progress of Language era stato uno dei primi testi del mondo anglosassone a negare l’illusione primitivistica. Burnett vi aveva affermato che lo stato di natura era una condizione di pura animalità, e che la principale differenza tra gli uomini e gli altri esseri animati consisteva in una graduale manifestazione delle più alte facoltà intellettuali. La storia umana doveva dunque essere considerata come una lenta, dolorosa ascesa dall’animalità alla vita razionale e sociale, e una nuova scienza storica avrebbe dovuto tracciare questo sviluppo. Burnett giungeva anche a ipotizzare l’identità di specie tra uomo e orangutan, sino all’ipotesi di una discendenza comune di tutti gli antropoidi. In questo modo egli si era implicitamente dichiarato a favore dell’evoluzionismo biologico, come i suoi contemporanei francesi Maupertuis, Diderot, Robinet. Da forme di vita primitiva si erano progressivamente sviluppati esseri più avanzati, dotati di coscienza e di funzioni fisiche più progredite. L’orangutan era l’anello di una catena che dalla pura animalità portava all’uomo; esso era la testimonianza di quello che era stato il passato dell’umanità, una tappa della sua lenta ascesa. In questo modo, concludeva Lovejoy, Burnett aveva anticipato di vent’anni la Zoonomia di Darwin53.
Né Rousseau né lord Monboddo avevano dunque inteso celebrare lo stato di natura, nella sua accezione di stato in cui l’uomo ignora qualsiasi nozione morale e si comporta in modo non differente dagli altri animali. Lungi dal fare l’apologià del primitivismo, essi l’avevano anzi combattuto, riconoscendo nella storia umana un’insopprimibile ansia di conoscere, di progredire, di conquistare nuovi traguardi54. Ammettendo la perfettibilità come principale caratteristica dell’essere umano, sostenendo che le differenze tra gli uomini e le altre specie consistevano nella capacità di manifestare gradualmente una sempre più elevata consapevolezza intellettuale, Rousseau e Monboddo avevano diffuso tra i primi una concezione evoluzionistica dell’uomo. Cent’anni prima di Darwin, il secondo Discours formulava e diffondeva una ancor primitiva ma comunque già delineata concezione evolutiva della storia umana55.
52 The Supposed Primitivism of Rousseau s «Discourse on Inequality», cit., p. 35. Anche in questo caso la citazione era tratta dai Politicai Writings of ]ean-]acques Rousseau, cit., p. 454.
53 Cfr. Monboddo and Rousseau, cit., p. 53.
54 The Supposed Primitivism of Rousseau s «Discourse on Inequality», cit., p. 24.
55 Cfr. ivi, p. 25.



464
Ciò che interessava Lovejoy in Monboddo e in Rousseau era dunque il fatto che essi fossero stati evoluzionisti in senso antropologico, che avessero cioè riconosciuto nelle vicende umane una diversità di fasi, un’evoluzione che aveva toccato non soltanto la loro costituzione fisica ma anche la loro organizzazione sociale, i prodotti della loro mente e quelli della loro creatività, le loro passioni e i loro desideri, in una parola la loro storia. Lovejoy poteva cosi contrapporsi a chi, come Durkheim, aveva sostenuto che la ricostruzione rousseauiana dello stato di natura non aveva alcun intento storico, bensì di pura analisi psicologica. Quanto affermato da Jean-Jacques all’inizio della sua opera, di non pretendere di offrire vérités historiques, non doveva infatti essere preso alla lettera. Esso serviva soltanto a garantirsi dal pericolo della censura ecclesiastica e della persecuzione. In realtà, «Rousseau was keenly interested in tracing thè succession of phases throu-gh which man’s intellectual and social life has passed; but he recognized that thè knowledge of his time permitted only raisonnements hypothetiques on thè subject»56. In questo modo lo scrittore ginevrino aveva precorso la scienza etnologica. Egli, come del resto Monboddo, aveva intuito la transitorietà propria dell’esperienza umana, e quindi la sua intrinseca storicità. In Monboddo e in Rousseau era riconoscibile «that distrust of universal formulas, that distinctively evolutionary relativism in politicai and social philosophy, which was to be among thè traits chiefly differentiating thè thought of thè nineteenth century from that of thè earlier modem centu-ries - but which has been but imperfectly acquired even yet by a large part of mankind»57.
56 Ivi, p. 18.
57 Monboddo and Rousseau, cit., p. 57. E da ricordare che questa stessa interpretazione di Rousseau come maestro della moderna etnologia è stata proposta da Claude Lévi-Strauss, che al filosofo ginevrino ha reso omaggio in molte sue opere (cfr. soprattutto Rousseau, fondateur des Sciences de Thomme, in AaVv, Rousseau, Neuchàtel, 1962; trad. it. in C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi, 1967, pp. 85-96). Lovejoy e Lévi-Strauss non motivavano comunque con gli stessi argomenti la loro tesi. Per Lovejoy si trattava soprattutto del riconoscimento di una serie di fasi successive, quindi differenti, nella storia dell’uomo. Lévi-Strauss faceva invece risaltare il parallelismo che Rousseau stabiliva tra lo stato di natura e quello di civiltà. In Tristi Tropici lo studioso affermava che «lo studio dei selvaggi ci ha dato ben altro che la rivelazione di un utopistico stato di natura o la scoperta della società perfetta nel cuore delle foreste; ci aiuta a costruire un modello teorico della società umana, che non corrisponde a nessuna realtà osservabile, ma con l’aiuto del quale riusciremo a distinguere “l’originario dall’artificiale nell’attuale natura dell’uomo”» (cfr. C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 380). Ciò che faceva dello stato di natura il «modello teorico» di ogni società era la continua tensione che in essa caratterizzava l’uomo, e che era possibile ritrovare in ogni fase della civiltà umana: se nello stato di natura questa tensione si indirizzava verso le virtù civili, nello stato di società la tensione era


465
Sino a ora ci siamo soffermati sull’aspetto forse più caratteristico degli studi settecenteschi di Lovejoy, quello connesso alla sua filosofia temporalisti-ca. La riflessione dello studioso americano, soprattutto in The Great Chain of Being, ambiva comunque a offrire un’interpretazione il più possibile complessa ed esaustiva del secolo dei Lumi. Evidente era anzitutto la volontà di non fare del Settecento il secolo esclusivo dei philosophes. La Francia di Voltaire, di Diderot, di Rousseau era rappresentata allo stesso titolo dell’Inghilterra, della Germania, dell’Italia. La straordinaria versatilità della sua cultura permetteva a Lovejoy di rincorrere esempi e citazioni nelle diverse discipline: filosofia, scienza, letteratura, arte, religione, pensiero politico. Estremamente vasto era il ventaglio degli autori considerati, a creare lo «sfondo» della vita intellettuale, della morale corrente, dei criteri estetici del tempo. Perché, come aveva sostenuto nell’introduzione a The Great Chain of Being, per isolare il pensiero collettivo di ampi gruppi di uomini era più utile rivolgersi a quegli autori, spesso «minori», che meglio avevano saputo rappresentare le predilezioni, le aspirazioni, anche i pregiudizi correnti, di un’epoca58. Ecco quindi che accanto al Leibniz della Teodicea trovavano spazio le considerazioni di una signora della buona società inglese, lady Chudleigh, che nel 1710. aveva riflettuto sulla vanità del Tutto e sulla miseria del genere umano59; la Contemplation de la nature di Bon-net o le ricerche di Linneo sAThomo troglodytes precedevano di poche righe le descrizioni degli Ottentotti fatte dai viaggiatori del tardo Seicento e del primo Settecento60; o ancora le mirabili geometrie dATEthica spinozia-na erano interpretate anche attraverso le parole di uno dei primi biografi del filosofo di Amsterdam, quel Lucas autore de La vie de M. Benott de Spinoza61.
Era ovviamente un’interpretazione che, secondo le teorizzazioni di Lovejoy stesso, si concentrava prevalentemente su una cultura di tipo filosofico, letterario, artistico. Lovejoy trascurava qualsiasi periodizzazione interna al secolo dei Lumi, ed era carente per quanto riguarda lo sforzo di precisare lo sfondo politico, economico, sociale, entro cui i processi di pensiero e la polemica culturale deUTlluminismo erano sorti. Poca o nessuna attenzione era dedicata alle stesse istituzioni culturali e ai canali di diffusione delle idee del secolo: accademie, giornali, teatri, sistema educativo. Una scelta che marcava la profonda distanza da tentativi coevi di interpretazione, quale per
rivolta alla ricerca di un sé continuamente sfuggente. Lo stato di natura offriva dunque a parere di Lévi-Strauss una struttura attraverso la quale l’etnologo poteva interpretare realtà diverse.
58 The Great Chain of Being, cit., pp. 19-20.
59 Cfr. ivi, pp. 190-191.
60 Cfr. ivi, p. 234.
61 Cfr. ivi, p. 292.


466
esempio, sempre in area americana, il già citato History of Modern Culture di Preserved Smith, che dedicava interi capitoli ai giornali e alle riviste, alle università e alle scuole, ai musei e alle forme di propaganda illuministica62. L’unità della narrazione storica era dunque ricercata esclusivamente attraverso la rete delle idee del secolo, considerate in sé capaci di unificare la molteplicità delle esperienze umane. L’Illuminismo lovejoyano restava distante dal piano del concreto operare degli uomini, dal nesso idee-riforme, dai processi lenti e faticosi attraverso cui le idee dei Lumi si erano venute diffondendo in tutta Europa. Le idee non esistevano più in un campo di significati plurali e relazionati, ma erano considerate come se fossero interamente isolabili dal loro contesto psicologico e culturale, dalla vita, personale e collettiva, in cui erano state generate63. Il termine «Illuminismo» era trattato alla stregua di tutti gli altri «ismi» di cui Lovejoy aveva scritto nella prefazione a The Great Chain of Being: complessi di dottrine che era possibile ridurre a elementi più semplici. Esso era smontato, analizzato, studiato con maestria ricorrendo al metodo analitico della distinzione e della riduzione a unità di base. Il pensiero settecentesco viveva di spinte e di tendenze spesso contraddittorie, di tensioni tra opzioni politiche e intellettuali divergenti che era però possibile ricondurre ad alcune precise istanze di fondo.
La scelta di fare la storia di una unit-idea particolare aveva ovviamente riflessi importanti sull’interpretazione complessiva del periodo. Un metodo
62 Cfr. P. Smith, A History of Modern Culture, cit., pp. 126-140, 273-3 04, 402-449.
63 Fu Leo Spitzer tra i primi a formulare queste critiche al metodo lovejoyano. Lo studioso americano, secondo Spitzer, avrebbe considerato in modo astratto idee e movimenti di pensiero, riconoscendoli dotati di una continuità sovratemporale e privandoli della loro più intima unità con la storia degli uomini che li avevano prodotti. Cfr. L. Spitzer, Geistesgeschichte versus History of Ideas as Applied to Hitlerism, in «Journal of thè History of Ideas», 5, 1944, pp. 191-203. A queste critiche Lovejoy rispose riaffermando la validità del suo metodo nell’articolo Reply to Professor Spitzer, ivi, pp. 204-219. Ma questo è anche il senso di molte delle critiche che accolsero la traduzione italiana di The Great Chain of Being nel 1968, per Feltrinelli. Le obiezioni riguardarono soprattutto la pretesa di isolare elementi semplici, le unit-ideas, entro sistemi più complessi. Del resto in Italia la storia delle idee nell’accezione lovejoyana non godette mai di grande fortuna. Quando The Great Chain of Being venne pubblicata per la prima volta negli Stati Uniti la storia della filosofia era ancora concepita in Italia come storia di una ragione astorica che progressivamente rivela se stessa in un ordine razionale, e scarso spazio avevano dunque gli elementi non-logici, emotivi, di sensibilità. Destino in parte simile nel dopoguerra, quando la history of ideas dovette subire attacchi soprattutto da parte marxista. Essa rinunciava infatti esplicitamente a ogni aspirazione a unificare e risolvere le varie storie speciali in una conoscenza storica unitaria, o in una scienza storica e dialettica dello sviluppo della società, per rivolgersi unicamente a un certo gruppo di fattori presenti nella storia. Su questo si veda l’introduzione di Paolo Rossi a L'albero della conoscenza, cit., pp. 11-12.



467
storico che prendeva a oggetto della ricerca idee che si svolgono lungo i secoli, quasi una «lunga durata» intellettuale, non poteva che privilegiare gli elementi di continuità, di permanenza, rispetto a quelli di rottura e di novità. Un’attitudine che era rafforzata dalla scelta di fonti tratte principalmente dalla filosofia e dalla letteratura, trascurando dunque quelle nelle quali più ci si era misurati con i problemi della riforma e della trasformazione della società. Ampio spazio era dato a Leibniz. Il suo ottimismo filosofico, l’assoluto logico determinismo che aveva diviso con Spinoza, la volontà di spiegare la razionalità del reale ne avevano fatto secondo Lovejoy un pensatore esemplare della temperie intellettuale settecentesca. Al filosofo tedesco risaliva una sistemazione del problema dell’ottimismo che avrebbe avuto largo corso in molte teodicee: il migliore dei mondi possibili doveva essere quanto più pieno e vario possibile. Era nella natura dell’Essere supremo, anzi era la manifestazione più alta dell’Essere supremo, quella di creare, e l’esistenza di una cosa era dunque desiderabile indipendentemente dalla sua eccellenza. I mali particolari convergevano nella superiore perfezione del Tutto, e ogni fatto dell’esistenza era fondato in una ragione chiara e evidente quanto un assioma matematico. Era una considerazione dell’ottimismo settecentesco inteso soprattutto come sforzo di giustificazione del male, e non come fede nel progresso del genere umano, che portava a privilegiare teologi e pensatori religiosi, in particolare quelli - Samuel Clarke, Pope, Bonnet, Pluche - fautori di una religiosità «secondo ragione». Prospettiva questa che avrebbe avuto un felice riscontro pochi anni dopo nel primo libro di Robert R. Palmer, Catholics and Unbelie-vers (1939), che dimostrava come parte della cultura cattolica francese settecentesca condividesse idee e dispositions of mind pienamente assimilabili alla cultura illuministica. La scelta di dare spazio a posizioni intellettuali tradizionalmente trascurate nelle indagini sui Lumi era rivelata anche nelle pagine dedicate al pessimismo settecentesco64, e in generale a posizioni fortemente conservatrici in politica e in morale65. Anche se poi Lovejoy precisava che queste concezioni avevano svolto «a relatively small factor in politicai thought in thè eighteenth century», e indicava proprio nell’ascesa degli ideali egualitari uno dei caratteri dominanti del secolo66.
64 Cfr. The Great Chain of Being, cit., pp. 200-203. Questo aspetto verrà ripreso, per restare in ambito americano, da Lester G.Crocker nel già citato An Age of Crisis, ma soprattutto da Henry Vyverberg, che nel 1958 cercherà di ridimensionare l’idea del prevalere delle tendenze ottimistiche durante rilluminismo, per rivelare invece la presenza di forti componenti di pessimismo storico nelle opere di molti autori settecenteschi (cfr. H. Vyverberg, Historical Pessimism in thè French Enlightenment, Cambridge, Harvard University Press, 1958).
65 Cfr. ivi, pp. 203-207.
66 Cfr. ivi, p. 207.



468
Al di là dei differenti orientamenti in politica, religione, morale, l’unità delle varie tendenze intellettuali del secolo era ritrovata nella volontà di affermare, o anche soltanto ricercare, la sostanziale «logicità del mondo». In tutte le sue tendenze il Settecento aveva creduto in un’idea di ragione concepita come riassunta nella conoscenza di poche verità semplici e in sé evidenti, «thè same in all men and equally possessed by all [...] regardless of differences of time, place, race, and individuai propensieties and en-dowments»67. Credenze, istituzioni, manifestazioni del pensiero e della creatività: in tutte queste sfere l’Illuminismo aveva insegnato a conformarsi a un criterio concepito come semplice e immutabile per ogni essere razionale.
Lovejoy aveva già limpidamente riassunto la sua opinione al riguardo in un articolo del 1932, The Parallel of Deism and Classicism, facendo largo uso di quella disposizione all’analisi e alla scomposizione di complessi più vasti che abbiamo già notato. In quello che egli definiva il «razionalismo illuministico» erano riconoscibili nove unit-ideas che avevano contribuito in larga parte a strutturare il pensiero dell’epoca, ma anche il gusto, la sensibilità, il senso comune. Possiamo cosi riassumerle: 1) l’uniformismo, cioè l’assunzione che la ragione è perfettamente uguale in tutti gli uomini, in ogni tempo e luogo; 2) l’individualismo razionalistico, la convinzione che l’uomo può raggiungere la verità da solo, anche contro la tradizione e l’autorità esterna; 3) l’appello al consensum gentium, alla voce generale e perpetua di tutti gli uomini; 4) il cosmopolitismo, e la conseguente condanna di ogni forma di nazionalismo; 5) l’avversione all’entusiasmo e all’originalità, alla rivelazione e all’intuizione di singoli dotati di capacità straordinarie; 6) l’egualitarismo intellettuale, cioè una tendenza che Lovejoy diceva «democratica» in questioni di religione, di morale, di gusto; 7) l’antiintel-lettualismo razionalistico, il disprezzo per ogni ragionamento che si ponesse al di sopra delle capacità di comprensione della maggioranza o che comunque non riguardasse gli interessi immediati di questa; 8) il primitivismo razionalistico, secondo il quale le universali verità della ragione dovevano essere ben conosciute anche dai primitivi abitatori del nostro pianeta; 9) la filosofia negativa della storia, la convinzione che tutti i cambiamenti di fede, di cultura, di istituzioni, in generale considerati espressioni di progresso, dovevano essere considerati piuttosto espressioni di regresso68. Il fattore centrale dominante della storia intellettuale europea dalla fine del Cinquecento al Settecento era stato dunque la lotta per rendere gli uomini il più possibile uniformi, come «figli di una madre comune»: «thè Enlightenment
67 Ivi, pp. 288-289.
68 Cfr. The Parallel of Deism and Classicism, in Essays in thè History of Ideas, cit., pp. 78-98.


469
was [...] an age devoted, at least in its dominant tendency, to thè sempli-fication and thè standardization of thought and life - to their standardiza-tion by means of their semplification»69. Com’era già avvenuto per gran parte della storiografia sul Settecento, da Dilthey a Cassirer, il secolo dei Lumi era considerato il culmine di un processo di secolarizzazione che aveva avuto origine nel Rinascimento.
Una delle conseguenze di questa impostazione era la svalutazione decisa da parte di Lovejoy della storiografia illuministica. In Herder and thè Enligh-tenment Philosophy of History egli esaltava il dinamismo tipico della storia herderiana contrapponendola a quella illuministica, che svalutava la storia intendendo l’azione umana come l’adeguamento a una norma astratta di natura umana, che la ragione può desumere dalla natura stessa70.
Ciò portava per lo studioso a una incomprensione della storia come differenza e mutamento, e a una sua utilizzazione come miniera di exempla dell’irragionevolezza a cui le passioni e l’abbandono delle semplici e vere norme della natura avevano condotto gli uomini. Era evidentemente un giudizio che trascurava molte delle voci che proprio nei primi decenni del secolo si erano levate per contrastare il giudizio di antistoricismo che la cultura romantica e idealista avevano dato della storiografia settecentesca. I nomi erano ovviamente quelli di Dilthey71, con il suo saggio del 1903, di Cassirer, che come è noto aveva dedicato un capitolo del suo Die Philo-sophie der Aufkldrung al senso storico dell’Illuminismo72; e ancora di Mei-necke73, che non stabili una netta opposizione tra Herder e la storiografia illuministica, ma al contrario additò nella concezione illuministica della storia un momento della crisi del giusnaturalismo, inteso come l’affermazione dell’assolutezza della ragione e della sua capacità di offrire all’uomo norme universalmente valide, presupposto quindi di Herder, Goethe, Ranke.
Soprattutto il giudizio sulla concezione della storia in epoca illuministica sembrava contraddire quanto affermato nella stessa Great Chain of Being, dove il Settecento era stato indicato come il secolo della temporalizzazione della Catena dell’Essere, dell’introduzione della nozione di tempo nelle opere dei filosofi e degli scienziati, della sempre maggiore consapevolezza della relatività, e quindi della storicità, di ogni istituzione e valore umano. Era
69 The Great Chain of Being, cit., p. 292.
70 Cfr. Herder and thè Enlightenment Philosophy of History, in Essays in thè History of Ideas, cit., pp. 166-182.
71 W. Dilthey, Das achtzehnte ]ahrhundert und die geschichtliche Welt, in «Deutsche Rundschau», agosto-settembre 1901, poi nel voi. Ili dei Gesammelte Schriften, Leipzig-Berlin, 1927, pp. 209-268.
72 E. Cassirer, Die Philosophie der Aufkldrung, Tùbingen, J.O.B. Mohr (Paul Siebeck), 1932.
73 F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, Munchen-Berlin, R.Oldenbourg, 1936.



470
del resto una contraddizione implicita nell’ottica stessa scelta da Lovejoy per interpretare il Settecento. Il secolo era considerato come un’unità percorsa al suo interno da dinamiche tensioni di polarità. Se la tendenza dominante del periodo doveva essere ricercata in un’idea di ragione rigida e astratta, sussunta in poche e semplici verità, Lovejoy era poi costretto, proprio per recuperare la ricchezza di posizioni intellettuali del secolo, a riconoscere che esso era stato caratterizzato da una tendenza contraria, che egli definiva «romantica», che aveva invece valorizzato lo spirito di trasformazione e di diversità:
by thè late eighteenth century [...] thè cosmical order was coming to be conceived not as an infinite static diversity, but as a process of increasing diversification. The Chain of Being having been temporalized, thè God whose attributes it disclosed had been declared by not a few great writers to be one who manifests himself through change and becoming; nature’s incessant tendency was to thè production of new kinds; and thè destiny of thè individuai was to mount through all thè spi-res of form, in a continuai self-trascendence74.
Uniformità e diversità, riconoscimento di una legge naturale universalmente valida e storicità di ogni manifestazione della natura umana: l’Illuminismo lovejoyano oscillava tra queste due opzioni, l’una eredità del passato, l’altra premessa agli sviluppi futuri.
Ancora pochi anni e questa considerazione del secolo dei Lumi muterà radicalmente. L’occasione fu offerta da quelle leetures allo Swarthmore College che abbiamo citato all’inizio di queste pagine. Già la data di queste -il 1941 - non può non attirare la nostra attenzione. Poco dopo lo scoppio della guerra in Europa e con l’imminente coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto, Lovejoy sentiva il bisogno di riflettere intorno al nodo desideri-ragione, e di offrire cosi i fondamenti di una sua teoria etica. Certo anche la scelta di riflettere sul problema morale si ricollegava implicitamente al suo evoluzionismo storico e biologico: il dato più rilevante nella storia dell’evoluzione era stato senza dubbio l’emergere dei fenomeni psichici, quindi il costituirsi progressivo di un animale, l’uomo, dotato della facoltà di pensiero. Ma come non vedere in queste apparentemente accademiche conversazioni con professori e studenti dello Swarthmore College il riflesso degli avvenimenti che stavano in quei mesi sconvolgendo le vite e i destini di milioni di uomini? Di fronte al precipitare del mondo nel conflitto Lovejoy non rinunciava a quella che era stata da sempre la sua ambizione: cercare una ragione degli atti degli uomini, rendere il mondo, come dicevamo all’inizio di questo lavoro, «intellegibile». Egli stesso rendeva peraltro in più punti esplicito il collegamento col presente. Nella prima del-
74 The Great Chain of Being, cit., p. 296.


471
le otto conferenze che costituivano il volume, egli malinconicamente affermava che
we all find thè spectacle of human behavior in our own time staggering to contemplate; we are all agreed that thè world is in a ghastly mess, and that it is a man-made mess; and there is no theme of public discourse now more well worn than thè tragic paradox of modem man’s amazing advance in knowledge of and power over his physical environment and his complete failure thus far to transform him-self into a being fit to be trusted with knowledge and power75.
E poco più avanti:
Pure moralizing, ethical theories, thè preaching of elevated ideals, have not proved adequate, though they are indispensable, remedies for man’s disorders; for we have had many centuries of such preaching and moralizing, and while it has produced some considerable, though locai and transient, improvements in human behavior, thè total result, when one views thè contemporary scene, seems amazingly incommensurate with ambitions, thè magnitude, and thè duration of thè effort and thè genius that have been spent in it76.
Il riferimento al presente era dunque il filo che percorreva per intero le pagine delle Reflections. Trattando della natura dell’uomo, dei suoi desideri, dei moventi delle sue azioni, era allo spettacolo di follia e di orrore contemporaneo che egli e i suoi ascoltatori ritornavano.
Come arginare le forze dell’irrazionale in quel momento trionfanti? Quale equilibrio ricercare tra desiderio, unico movente delle azioni umane, e il necessario controllo sociale degli istinti individuali? Ancora una volta, secondo un’attitudine che abbiamo già sottolineato, la riflessione personale traeva alimento e si sviluppava attraverso le opinioni degli uomini del passato. E ancora una volta era al XVII, ma soprattutto al XVIII secolo, che egli si volgeva. I pensatori settecenteschi erano stati infatti particolarmente penetranti nel valutare la natura umana, e le loro analisi potevano tranquillamente essere poste accanto a quelle dei teorici contemporanei. Non a caso, trattando di istinti e di irrazionale, Lovejoy accennava alle teorie di Sigmund Freud. Queste erano «incomplete, deficient in scientific caution, and (in some of its details) extravagant»77, ma meritavano comunque la massima attenzione per i problemi che avevano sollevato. Erano in fondo le stesse questioni su cui si erano misurati i teorici del XVIII secolo. Anch’essi avevano creduto che l’uomo fosse principalmente «an irrational creature», e contro tale irrazionalità avevano misurato la loro fede nella ragione e nel progresso del genere umano.
75 Reflections on Human Nature, cit., p. 8.
76 Ivi, p. 9.
77 Ivi, p. 12.


472
Come si vede, era mutata sensibilmente l’ottica rispetto a quanto Lovejoy aveva scritto in The Great Chain of Being e negli altri lavori sopra menzionati. Gli uomini dei Lumi non erano più i rigidi fautori di una legge di natura razionale e comune a tutti. L’accento dello studioso non cadeva più sull’uniformità, sull’universalità di norme e di valori, ma piuttosto sulla considerazione della natura umana come equilibrio instabile di ragione e di istinto. Possiamo immaginare che questa mutata considerazione dipendesse dalla maggior libertà che una serie di conferenze offrivano rispetto a un’opera che sin dall’inizio si proponeva la dimostrazione di una tesi peci-sa, l’affermarsi del pensiero temporalistico. Va però anche ricordato che The Great Chain of Being era stata un’opera programmatica, che aveva voluto illustrare nel concreto della ricerca una particolare metodologia storica. Al contrario le Reflections, pur dedicando alcune considerazioni alla history of ideasi non si proponevano alcun fine dimostrativo, e risultavano quindi più libere nella struttura e nei collegamenti. Sin dalla prima delle sue conferenze Lovejoy poteva cosi contraddire un’opinione largamente accettata, quella relativa alla fede dei philosophes nella virtù e nella razionalità innata dell’uomo. L’obiettivo polemico era presto dichiarato: si trattava del libro di Cari Becker, The Heavenly City of thè Eighteenth-Century Philosophers, che Lovejoy pure definiva «a celebrated, learned and bril-liantly written hook»79. Becker aveva cosi esposto «gli articoli della religione» deU’Illuminismo: «1) man is not natively depraved; 2) thè end of life is life itself, thè good life on earth instead of thè beatific life after death; 3) man is capable, guided by thè light of reason and experience, of per-fecting thè good life on earth»80. L’uomo era quindi naturalmente enligh-tened e disposto al bene comune, generoso e virtuoso e tollerante. Per Lovejoy tale opinione era un «radicai historical error». Il problema principale del secolo dei Lumi era stato al contrario proprio quello di costruire una società ben ordinata e assicurare la convivenza tra gli uomini, nonostante questi fossero inclini alle passioni e poco disposti al bene comune. La risposta più frequente che a questo problema era stata data nel XVIII secolo insisteva sulla possibilità di dare vita a un’ordinata comunità di uomini, quindi a una società con delle istituzioni e un governo, abilmente controbilanciando le varie parti in conflitto. Lovejoy faceva il caso degli estensori della Costituzione americana, che avevano dimostrato di possedere un’esatta cognizione di quanto poco la ragione fosse capace di guidare gli uomini. Madison, in The Federalista aveva per esempio sostenuto che le
78 Cfr. ivi, pp. 67-70.
79 Ivi, p. 53.
80 C.C. Becker, The Heavenly City of thè Eighteenth-Century Philosophers, cit., pp. 4657.



473
opinioni politiche, e in generale ogni atto umano, erano sempre guidate da motivi personali. Impossibile sradicare negli uomini lo «spirito di fazione», cioè la tendenza a far prevalere il proprio interesse su quello della comunità. Questo non impediva però che fosse comunque possibile istituire una società politica subordinando gli interessi privati all’interesse pubblico, equilibrando le volontà dei singoli e dei diversi gruppi in un più vasto insieme81. La teoria politica dei Padri Fondatori - ma Lovejoy citava anche la Fable of thè Bees di Mandeville e VEssay on Man di Pope82 - si fondava dunque sul principio del counterpoise, un «essentially external, politicai, and quasi-mechanical device» che consentiva di bilanciare «thè irrational and mutually antagoniste motivations of individuata»83.
Lungo le pagine delle Reflections si moltiplicavano le citazioni di autori settecenteschi - Samuel Johnson, Edward Young, Rousseau, Voltaire - a comporre quel curioso traité des passions novecentesco che Lovejoy si proponeva. Era però soprattutto a David Hume e a Adam Smith che egli guardava, per l’acutezza con cui questi avevano saputo indagare il nesso tra ragione e istinti. Lovejoy riprendeva la distinzione del Treatise of Human Nature e della Theory of Moral Sentiments tra giudizi morali, che appartengono alla sfera della ragione, e le motivazioni delle azioni, che invece rientrano nella sfera del desiderio. Hume e Smith avevano concordato che «reason alone can never be a motive to any action of thè will; and [...] it can never oppose pas-sion in thè direction of thè will»84. I giudizi morali erano dunque esclusivamente giudizi di approvazione o di disapprovazione delle persone e dei motivi, sentimenti, propositi delle loro azioni. Descrivere certe qualità o motivi come ammirevoli o malvagi significava che «thè ideas of thè qualities give rise in us to pleasant or unpleasant feelings, of varying degrees of intensity»85. La questione di fondo era presto enunciata: come connettere i desideri, unici moventi delle azioni, ai giudizi morali, guidati dalla ragione e soli in grado di assicurare il necessario controllo sociale delle azioni umane? Era il problema che gli eventi contemporanei rendevano più urgente, quello di fondare una morale senza cui il mondo sarebbe sprofondato nel caos degli istinti e delle opposte sopraffazioni. La risposta offerta dagli utilitaristi settecenteschi pareva ancora valida. Se pure condizione ineliminabile della natura umana era la ricerca del proprio interesse, l’uomo non esisteva in un mondo etico a parte, bensì in una società in cui ogni soggetto è sottoposto al giudizio di tutti. Egli era un self-conscious agent, e pronunciava dunque continuamente
81 Cfr. Reflections on Human Nature, cit., pp. 46-57.
82 Ivi, pp. 41-45.
83 Ivi, p. 64.
84 Ivi, p. 182.
85 Ivi, p. 250.



474
giudizi circa le proprie azioni e quelle dei suoi simili. Questo «created a sort of social situation inside thè individuai; he has as it were, admitted another man within his breast, to sit in judgement upon him, and with whom he engages in a sort of internai debate»86. Il desiderio di approvazione, la ricerca della considerazione e del rispetto altrui, favorivano la creazione di un sistema comune di valori e di abitudini sociali in cui ognuno poteva rispecchiarsi e a cui ognuno si sentiva in qualche modo tenuto a rispondere. U approbative-ness, o «orgoglio», come l’avevano chiamata nel XVIII secolo, era «thè most powerfull and persistent motive of men’s outwardly observable behavior»87. Attraverso di essa l’uomo poteva essere condotto a privilegiare ragionate scelte morali. Se pure la ragione non poteva da sola determinare alcuna scelta, essa poteva dunque essere associata a uno stato emotivo, il desiderio degli uomini di essere considerati e approvati nelle loro azioni, assicurando la pace del corpo sociale e il necessario controllo delle forze dell’irrazionale.
Con questa conclusione di disincantato realismo si chiudevano le Reflec-tions. Se pure la ragione era incapace di dominare il mondo delle passioni, essa poteva ugualmente svolgere un ruolo nel loro controllo, e dunque essere assunta come fondamento delle scelte morali. Di fronte al ghastly mess del mondo contemporaneo la ragione, sia pure una ragione debole, soggetta al condizionamento degli istinti, strumento di corretto pensiero piuttosto che onnicomprensivo sistema teorico, questa ragione era la sola sfida plausibile agli errori e al disordine della storia dell’umanità. Il nostro secolo aveva visto il trionfo dei principi di diversity, change and time nel pensiero umano, ma attendeva ancora che si facesse piena luce su ciò che più direttamente riguardava l’uomo:
we shall need a better knowledge of his inner constitution, of thè nature, interaction, effects, and relative potency of human motives or springs of action - thè emo-tions and desires that determine men’s behavior as individuai and (especially) as groups, and in particular as politicai groups, that their behavior is now most atro-cious and destructive. Such a knowledge [...] might best be called thè theory of human nature88.
L’accettazione della temporalità del mondo, come Lovejoy aveva scritto nelle pagine finali di The Great Chain o/Being, conduceva all’accettazione della sua contingenza, della relatività e dell’arbitrarietà delle sue leggi. Tale contingenza era però anche la condizione necessaria affinché per gli uomini si aprissero gli spazi immensi della libertà di scelta e di azione. Se nulla era la conseguenza di leggi necessarie interne alla logica dell’essere,
86 Ivi, p. 262.
87 Ivi, p. 131.
88 Ivi, p. 10.



475 l’umanità si trovava in ogni momento di fronte a se stessa, artefice unica del proprio destino. Di qui l’urgenza con cui il problema morale si presentò a Lovejoy nell’ultima fase della sua attività. Se pure tutto era provvisorio e soggetto a mutamento, l’uomo doveva ugualmente ricercare un ragionato e durevole sistema di valori su cui fondare la propria storia. Le Re-flections vollero essere un primo e modesto contributo a questa ricerca. Il ritorno al Settecento che in esse si delineava era un modo per riconsiderare e riscoprire quei valori che egli vedeva intorno a sé negati: ragione, tolleranza, relatività. Allo stesso tempo era però anche l’occasione per dichiarare che la contemporanea dissoluzione dei valori liberali e democratici non era l’eredità ultima del secolo dei Lumi, ma ne era piuttosto il tradimento finale, l’ultima e più atroce sconfitta.
Con ciò siamo tornati al punto da cui eravamo partiti. La pubblicazione delle Reflections chiudeva l’attività di studioso di Lovejoy. Di lì a qualche mese si sarebbe conclusa anche la sua vita. Vicino alla fine egli volle comporre un breve autoritratto, poche righe in cui riassumere predilezioni e tratti caratteristici di un’intera esistenza. Ricordava di aver trascorso gran parte della sua vita «to philosophize in comfort, security and without mun-dane distractions, chiefly interested in analyzing thè meaning of thè more abstract concepts, and thè psycology of human volition - in particular in its relation to ethics»89. E aggiungeva che il carattere di un uomo si poteva più chiaramente riconoscere dagli eroi che questi si era scelto, e dagli uomini da cui si era sentito rappresentato. Per se stesso sceglieva il filosofo più amato, David Hume. Nelle circostanze esterne della sua vita, nelle disposizioni naturali della sua mente, negli interessi intellettuali dominanti, egli diceva di essere stato un filosofo «della stessa specie di David Hume», attento a sottoporre alla verifica della ragione qualsiasi verità acriticamente accettata, non pretendendo di offrire su alcuna di esse conclusioni definitive. Antidogmatismo dunque e riconoscimento dei propri limiti; fede nella ragione ma anche consapevolezza di quanto impervio ne fosse il cammino. E qui come altrove, il riferimento a un pensatore del XVIII secolo per rendere più esplicito il proprio. Gli studi settecenteschi di Lovejov si concludevano cosi, con il suggello del filosofo prediletto e soprattutto con un’opera che riproponeva il tema centrale di tutto il suo lavoro: come conciliare un universo temporale e pluralistico con la necessità di valori razionali che guidassero le scelte e gli atti degli uomini; come conciliare, dunque, tempo e ragione. Ancora una volta la riflessione personale si era legata alla sua Bildung storica, senza che lo studio del passato perdesse di interesse o di credibilità scientifica. Ancora una volta la considerazione dell’oggetto di ricerca era stata accompagnata da pagine di riflessione sui
89 Citato da DJ. Wilson, Arthur O. Lovejoy, cit., p. 209.


476
modi in cui la ricerca doveva essere condotta. Ricostruzione del passato, riflessione sugli strumenti di questa ricerca, considerazione della rilevanza che i problemi affrontati assumevano nel presente. A questo arduo magistero intellettuale Lovejoy cercò di non venire mai meno90.
90 Dopo un periodo, negli anni Sessanta e Settanta, in cui la fortuna di Lovejoy sembrò declinare, lo studioso è tornato d’attualità negli anni Ottanta, con la ripresa della discussione teorica intorno alla storia intellettuale. Nel 1987 il «Journal of thè History of Ideas» dedicò un numero per celebrare il mezzo secolo della Great Chain of Being, con articoli di DJ. Wilson, G. Gordon-Bournique, E.P. Mahoney, F. Oakley e Melvin Ri-chter (cfr. Lovejoy, «The Great Chain of Being» and thè History of Ideas, in «Journal of thè History of Ideas», 48, 2, 1987). Contributi importanti sono inoltre venuti da Donald R. Kelley, l’attuale editor del «Journal». Tra questi citiamo D.R. Kelley, Horizons of In-tellectual History: Retrospect, Circumspect, Prospect, in «Journal of thè History of Ideas», 48, 1, 1987, pp. 143-169; e, sempre di Kelley, What is happening to thè History of Ideas?, in «Journal of thè History of Ideas», 51, 1990, pp. 3-25. Proprio quest’ultimo articolo rappresenta a tutt’oggi uno dei più equilibrati tentativi di bilancio della history of ideas, e al tempo stesso una meditazione sul futuro della disciplina da parte di uno degli «eredi» di Lovejoy. Significativamente Kelley propone di utilizzare l’espressione intellectual history, e non più history of ideas, proprio a voler allontanare i «fantasmi» di idealismo impliciti nella scelta di fare della storia della filosofia il referente privilegiato della disciplina (un’attitudine che era certamente di Lovejoy). Intellectual history è secondo Kelley «doing a kind, or several kinds, of historical interpretation, in which philosophy and literature figure not as controlling methods but as human creations suggesting thè con-ditions of historical understanding» (What is happening, cit., p. 18). L’approccio interdisciplinare, che era stato uno dei punti centrali del programma lovejoyano, rimane ancor oggi secondo Kelley valido, anche se ciò non deve significare l’adozione di strumenti critici «alla moda» propri di altre discipline. A questo proposito si pone per Kelley il problema dell’atteggiamento da tenere nei confronti di studiosi come Hayden White, Dominick LaCapra, David Harlan, teorici del linguistic turn, un modo di fare storia che si avvale delle indicazioni provenienti dall’ermeneutica di Gadamer e Ricoeur, da Heidegger e dai suoi discepoli francesi Foucault e Derrida, e che rifiuta ogni reale possibilità di giungere a una determinazione delle intenzioni dell’autore, cioè di un «significato», della verità di un’opera, e del contesto entro cui l’opera è stata composta. Per Kelley non era possibile evitare le implicazioni che il linguistic turn poneva, tanto più che esso si rivelava utile soprattutto nel rivelare risorse, strutture, memorie culturali conservate nel linguaggio (topoi, tropi, metafore, analogie), non soltanto dell’alta cultura ma anche delle forme di espressione irriflessa, o popolare (anche questo secondo un’indicazione di Lovejoy). Se è però vero che il significato di un testo non è univoco, è altrettanto vero secondo Kelley che la ricerca delle intenzioni dell’autore è premessa indispensabile di qualsiasi lavoro di storia intellettuale. Quanto alla questione dell’attenzione al «contesto», che i sostenitori del linguistic turn denigrano, Kelley prende atto che non è certamente possibile giungere alla ricostruzione dell’intera rete di relazioni entro cui un’opera si colloca. Ciò non significa però che il testo o l’autore studiato non possano essere collocati in un «contesto», e che quindi, attraverso lo studio del linguaggio di un’epoca, non si riesca a ricostruire le condizioni di possibilità per la nascita di un’opera.