"Illuminismo politico"? Alcuni problemi di metodo sulla storiografia politica del Settecento

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Title
"Illuminismo politico"? Alcuni problemi di metodo sulla storiografia politica del Settecento
Creator
Eugenio Di Rienzo
Date Issued
1995-10-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
36
issue
4
page start
977
page end
1010
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
Poteri e strategie. L'assoggettamento dei corpi e l'elemento sfuggente. Italy: Mimesis, 1994.
Rights
Studi Storici © 1995 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20231101211030/https://www.jstor.org/stable/20566739?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1995%26ed%3D1995%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa55ea866ebd78139fa98e504f7cb660a
Subject
power
State
rationality
pastoral power
extracted text
«ILLUMINISMO POLITICO»?
ALCUNI PROBLEMI DI METODO SULLA STORIOGRAFIA
POLITICA DEL SETTECENTO*
Eugenio Di Rienzo
1 . In un suo recente, lucido intervento, Paolo Casini ha sottolineato come la tendenza degli studi sull’Illuminismo vada sempre più verso «un’accezione debole di questo termine», come «sulla scena interdisciplinare della ricerca non regni alcun consenso riguardo alla definizione dell’Illuminismo come concetto rigoroso di un’epoca» e che, di conseguenza, «ogni tentativo di periodizzare e costruire tipi ideali di questa età finiscano per dar luogo ad esiti contraddittori»1.
Sono considerazioni, queste, che mi sembrano imporsi con urgenza ancora maggiore quando si passi ad un settore specifico del lavoro storiografico, come quello relativo alla ricostruzione della teoria e della pratica politica, che hanno caratterizzato il Settecento. In questo settore degli studi, infatti, alcune recenti prese di posizioni appaiono mettere in dubbio addirittura la validità del concetto di Illuminismo politico, per il rischio, insito nell’utilizzazione di questa categoria storiografica, di estromettere, dal quadro dell’indagine, quanto di diverso il XVIII secolo ha prodotto nel campo della teoria politica e della pratica istituzionale.
Ed è proprio nel tentativo di reagire a questa tendenza interpretativa, per cosi dire «illuministico-centrica»2, che si deve iscrivere il contenuto di una pagina del volume di Robert Darnton, The kiss of Lamourette, recentemente pubblicato anche in versione italiana, dove lo studioso statunitense sosteneva che «la storia amministrativa, più che la teoria filosofica, potrebbe essere il luogo dove cercare la vera spinta riformatrice» di questo periodo e dove, conseguentemente, si invitava lo storico del XVIII secolo a rivolger-
* A Paolo Alatri, in memoria.
1 Cfr. P. Casini, Scienza, utopia, progresso. Profilo dell’Illuminismo, Roma-Bari, 1994, p. 7. 2 Una tendenza, questa, che ha alla sua origine le affermazioni di Franco Venturi, in un intervento del 1960, dove si sosteneva, in sintesi, che il movimento dei Lumi non consisteva in un’esperienza intellettuale determinata, ma in un fenomeno che aveva finito per condizionare l’intera vita culturale, politica, sociale del Settecento. Cfr. L’illuminismo nel Settecento europeo, in XI Congrès International des Sciences Historiques, Gò-temborg-Stockholm-Uppsala, 1960, pp. 106-135.



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si agli archivi delle amministrazioni statali ed immergervisi, «invece di leggere Voltaire, se si vuole comprendere l’intreccio tra idee e politica nel Settecento»3.
L’indicazione di Darnton appare, in ogni caso, tutt’altro che isolata nel più recente panorama degli studi, anche italiano. Se già nel 1985, Giuseppe Giarrizzo indicava, per l’Italia del Settecento, nella «nuova generazione dei grands commis d’Etat, portatori di progetti tecnico-amministrativi e tecnicofinanziari» i veri attori di un progetto di riforma, da intendersi sotto la cifra unificante di «sviluppo come amministrazione»4; Mario Mirri, in un importante contributo del 1992, compreso negli atti del convegno di Castel-fiorentino su Pompeo Neri, ipotizzava il passaggio da una storia dei «Lumi» e «delle riforme» ad una che prendesse in considerazione l’autonoma dinamica istituzionale degli Stati della penisola nel XVIII secolo5. Una proposta, questa, a cui si affiancava, nello stesso volume, quella di Cesare Moz-zarelli, che sollecitava la necessità di una nuova storiografia che, proprio sul terreno della storia degli apparati statuali e delle istituzioni, rinvenisse la fisionomia di un Settecento non più analizzato «attraverso la categoria discrimine di Illuminismo»6.
3 Cfr. R. Darnton, Il bacio di Lamourette, Milano, 1994, pp. 254-255.
4 Cfr. L’Illuminismo e la società italiana. Note di Discussione, in L'età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, Napoli, 1985, 2 voli., I, pp. 167 sgg., in particolare p. 170. In questo saggio, Giarrizzo affermava molto significativamente: «Se i lumi sono parte, spesso preminente dello sviluppo sociale, il rapporto tra i due termini non può essere unico ed univoco in Italia cosi come in Europa: i processi culturali di innovazione-modernizzazione, e i mutamenti di struttura sociale, e il nuovo stile della politica hanno avuto per 1’“illuminismo” (qui identificato con il movimento riformatore) effetti non minori di quelli che il moto dei lumi ha potuto avere sulla loro genesi, dinamica e senso; ed il livello del dibattito e dei processi di riforma è dato -spesso anche nel breve periodo - dallo stadio di quei processi e mutamenti. Di qui l’esigenza di sottrarre a tentazioni schematiche correnti le idee-chiave che hanno sorretto e sorreggono la interpretazione tuttora più autorevole del ’700 italiano, quella che si intitola a Franco Venturi [...]» (ivi, pp. 168-169).
5 Cfr. M. Mirri, Dalla storia dei «lumi» e delle «riforme» alla storia degli «antichi stati italiani». Primi appunti, in Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelfiorentino (61 maggio 1988), a cura di A. Fratoianni e M. Verga, Castelfiorentino, 1992, pp. 401-540. Il saggio di Mirri è un fondamentale contributo analitico alla ricostruzione della tradizione degli studi storici sul Settecento del nostro XX secolo, che valorizza, giustamente, il contributo della «storiografia realistica» da Anzilotti a Volpe, Vaisecchi, Morandi e quello della storiografia economica e sociale di Luzzato, Einaudi, Dal Pane, Prato, Pugliese, Villani, Berengo. Ma su questo punto si veda anche F. Barbagallo, Le origini della storia contemporanea in Italia fra metodo e politica, in «Studi Storici», 29, 1988, 3, pp. %7 sgg.
6 Cfr. C. Mozzarelli, Riforme e controriforme, in Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelfiorentino, cit., pp. 391 sgg., in particolare p. 392.



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Queste ipotesi mi sembrano, d’altra parte, già aver trovato una loro conferma pratica nei lavori di storia istituzionale di Carlo Capra sul Ducato di Milano e sulla Lombardia austriaca7, nei quali, come ha giustamente messo in luce Giuseppe Ricuperati, emerge con forza il «percorso di un riformismo dei funzionari che coincide solo parzialmente con gli ideali illuministici»8, e dalla pubblicazione di due ricerche recenti, che indagano quei cruciali settori, ad un tempo economici e politici, da cui si originerà la crisi irreversibile e poi il crollo dell’antico regime francese.
Quella di Antonella Alimento, su Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV, che individua proprio negli sforzi di alcuni degli elementi del personale amministrativo di quel periodo la più autentica, innovativa e molto spesso radicale, spinta per arrivare alla risoluzione del problema della riforma del sistema impositivo, a cui farà riscontro, invece, il più assoluto silenzio, magari interrotto da qualche «bon mot» volteriano, dell’intero partito enciclopedista su quest’ordine di problemi. E quella del 1992, di Manuela Albertone, Moneta e politica in Francia, che costituisce, senza dubbio, una delle analisi più convincenti del problema della finanza statale francese, tra seconda metà del secolo e rivoluzione, dove si sottolinea giustamente l’estraneità, il disinteresse, la vera e propria arretratezza culturale di intellettuali come Diderot, d’Holbach, Raynal per quel settore della vita pubblica, che più di ogni altro avrebbe determinato la catastrofe politica del 17899.
7 Cfr. Il Settecento, in D. Sella-C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1533 al 1796, nel IX volume della Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, Torino, 1984, pp. 153 sgg.; La Lombardia austriaca (1706-1796), Torino, 1987, e il saggio Le Finanze degli Stati italiani nel secolo XVIII, in L'Italia alla vigilia della Rivoluzione francese, Atti del LIV Congresso di storia del Risorgimento italiano, Roma, 1990, pp. 141 sgg. Sempre sulla Lombardia austriaca, si tenga presente, in questa stessa ottica di storia istituzionale, anche l’importante lavoro di C. Mozzarelli, Sovrano, società e amministrazione locale nella Lombardia te-resiana (1749-1758), Bologna, 1982.
8 Cfr. A long journey. The Italian Historiography on Enlightenment and its politicai si-gnifiance (1980-1990), in «Storia della storiografia», 1991, 20, pp. 3 6 sgg.; trad. it. in Un decennio di storiografia italiana sul secolo XVIII, a cura di A. Postigliola, Napoli, 1995, pp. 387 sgg. Lo stesso Capra aveva messo in luce, d’altra parte, in un suo intervento del 1979, l’estraneità del ceto intellettuale illuministico nei confronti dei concreti problemi di una riforma dello Stato. Cfr. Riforme finanziarie e mutamento istituzionale nello Stato: gli anni sessanta del secolo XVIII, in «Rivista storica italiana», XCI, 1979, p. 367. Per la ripresa di questa tesi, in un contesto più problematico, cfr. Il Settecento, cit., pp. 268 Sgg' . . .
9 Cfr. rispettivamente M. Albertone, Moneta e politica in Francia. Dalla Cassa di sconto agli assegnati (1776-1792), Bologna, 1992, in particolare pp. 235 sgg.; A. Alimento, Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV Dalla «taille tarifée» al catasto generale, Firenze, 1995. Alle stesse conclusioni era pervenuto, d’altra parte, chi scrive nel suo Alle ori-



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Condivisibili o non condivisibili che siano, queste prese di posizione, pur nella loro diversità, propongono un problema storiografico importante, che sembra condurre non dico all’eclissi, ma certo all’opacizzarsi, all’interno del più recente panorama degli studi, della tradizionale categoria di «politica illuministica», cosi come è stata presentata, pur in un ventaglio ben diversificato di ipotesi, nella letteratura degli anni passati10.
Certo, si tratta di una dialettica interna alla dinamica interpretativa, del tutto fisiologica e necessaria al rinnovamento della ricerca e che, occorre dire, si ripresenta quasi ciclicamente all’attenzione dello storico del Settecento, come mi sembra aver ricordato Giuseppe Ricuperati in un suo recente intervento apparso su «Studi settecenteschi»11, che per davvero assume la dignità di un saggio di «storia della storiografia» e in cui viene ricordato come «un grande libro» l’importante contributo di Luigi Salvatorelli del 1935, direttamente dedicato proprio a questa problematica.
gini della Francia contemporanea. Economia, politica e società nel pensiero di André Morel-let: 1756-1819, Napoli, 1994. Più in generale su questo punto, si veda la radicale, ma in buona misura condivisibile, posizione di Mirri: «La storia politica e delle riforme in Francia trova le sue ragioni, le sue spinte e i suoi ostacoli, al di fuori del mondo dei philosophes; e chi intenda studiarla dovrà seguirne piuttosto il suo autonomo svolgimento, dal maturare dei problemi ai frequenti fallimenti, a partire dalla considerazione dei mutevoli e contraddittori rapporti tra società e amministrazione nei loro riflessi politici» (Dalla storia dei «lumi» e delle «riforme» alla storia degli «antichi stati italiani», cit., p. 517).
10 Su questo punto è da vedersi per intero il volume di F. Diaz, Per una storia illuministica, Napoli, 1973, e i saggi, sempre di Diaz, «Idée philosophiques» e organizzazione del potere, in La politica della ragione. Studi sull’Illuminismo francese, a cura di P. Casini, Bologna, 1978, pp. 11 sgg.; Discorso sulle «lumières». Programmi politici e idee forza della libertà, in L’età dei Lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, cit., I, pp. 101-163. Egualmente importante, ma diverso nell’impostazione di fondo, è poi il denso contributo di G. Ricuperati, Il pensiero politico degli illuministi nel quarto volume della Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, Torino, 1975, pp. 245 sgg. In questo caso, infatti, la grande apertura interpretativa di questo lungo saggio, che spazia dalla «crisi della coscienza europea» del primo Settecento all’affermarsi del messaggio dei Lumi nei vari ambiti nazionali, consente una lettura estremamente più duttile e articolata del concetto di «politica illuministica». Le linee direttive del lavoro di Ricuperati sono poi state riprese nell’antologia curata da E. Tortarolo, Il pensiero politico dell’Illuminismo, Torino, 1982. Un contributo importante, su questa stessa tematica, è infine quello di A. Postigliola, La città della ragione. Per una storia filosofica del Settecento francese, Roma, 1992, che riporta il problema del pensiero politico del Settecento francese alle sue valenze «alte» di riflessione teorica, per molti versi non coincidenti con il discorso illuministico.
11 Cfr. G. Ricuperati, Le categorie di periodizzazione e il Settecento. Per una introduzione storiografica, in «Studi settecenteschi», 1994, 14, pp. 9 sgg. Ma sempre di Ricuperati, si veda anche il bel quadro storiografico contenuto in II Settecento, in La storiografia italiana degli ultimi venti anni, a cura di L. De Rosa, Bari, 1989, II, pp. 97-161.



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2 . Nel suo II pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, infatti, Salvatorelli, in aperta polemica con le conclusioni del Corso sugli scrittori politici italiani di Giuseppe Ferrari del 1862, che aveva sostenuto l’estinzione della riflessione politica in Italia dopo il tramonto della filosofia della ragion di Stato, definiva in questa maniera il carattere del nuovo pensiero politico settecentesco. Questo, scriveva Salvatorelli, non si trova certo negli stanchi epigoni della ratio status di questo periodo, come sosteneva Ferrari, ma piuttosto in «altri scrittori, non trattatisti politici ex professo, i quali, occupandosi di legislazione o di economia rappresentano in realtà il nuovo pensiero politico». Esso affiora dalle riflessioni dei giuristi, degli storici, degli economisti, dei moralisti, i quali, al di là dei problemi della «natura e della struttura del potere sovrano e dei mezzi per fondarlo e mantenerlo», osservano «le condizioni, sotto questo potere e in relazione all’opera sua, della società e degli individui». I nuovi scrittori politici dell’Illuminismo, in Italia come in Francia e nell’intera Europa, capovolgono dunque il vecchio confine della politica. E in questo, appunto, conclude Salvatorelli, sta il «nucleo dell’Illuminismo», dispiegatosi nella determinazione di una «nuova moralità politica», culminata nella proclamazione di «quello spirito d’umanità, che costituisce la caratteristica fondamentale e l’apporto più glorioso del pensiero settecentesco»12.
La rivendicazione decisa e orgogliosa, da parte di Salvatorelli, dell’esistenza di un pensiero politico illuministico «degno di questo nome», pur da connotare nella sua specifica peculiarità, mi sembra costituire ancora oggi un argomento largamente condiviso da una delle tendenze più importanti della storiografia italiana, che non casualmente ne ha fatto la vera e propria matrice genetica di quella rivalutazione senza condizioni del movimento dei Lumi, portata avanti soprattutto da Franco Venturi13. Ma questo stesso argomento appare in grado di misurarsi con successo, almeno parzialmente, anche con strumenti di analisi diversi, sul piano della concettualizzazione teorica come su quello della ricostruzione storica.
12 Cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, 19412, pp. 2-3.
13 Direttamente ispirate all’ipotesi di Salvatorelli sono, infatti, queste affermazioni di Venturi del 1954, in un saggio che conteneva in nuce le linee direttive del futuro Settecento riformatore: «Lo spirito delle riforme è legato alla sua interna logica. Riformare l’amministrazione della giustizia, le mentalità e la realtà economica, abbattere privilegi [...] voleva dire, nel Settecento italiano, accettare sostanzialmente la situazione politica esistente [...] L’antipolitica dell’illuminismo non è un vezzo, o una moda e neppure un errore, è l’espressione chiara di una necessità [...] Non ci stupiremo dunque vedendo che i maggiori frutti teorici del riformismo italiano non stiano nelle politiche, ma nelle discussioni sulla legislazione civile e penale e nello studio dell’economia» (La circolazione delle idee, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1954, 2-3, p. 207).



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La tesi espressa da Salvatorelli di un capovolgimento del vecchio confine della politica, che il movimento illuminista avrebbe determinato, presenta infatti delle notevoli affinità con quanto scriveva quasi nello stesso periodo, seppure da un ben diverso versante ideologico, Cari Schmitt, quando affermava che proprio con il XVIII secolo viene ad incrinarsi il monopolio politico dello Stato cinque-seicentesco e che da quel momento la politica si trasporta oltre lo Stato, nella società civile, nell’opinione pubblica, come è stato poi ampiamente ribadito nei due lavori di Koselleck e Habermas14, anch’essi ormai classici, che direttamente o indirettamente si muovono nella stessa sfera concettuale elaborata dall’autore de II concetto di politico.
Ma in questo passaggio dallo Stato alla società, come suo specifico campo d’azione, la politica, continua Schmitt, non perde però le sue caratteristiche peculiari. Essa rimane fondata, sulla necessità di individuare un centro di decisione, unico e relativamente stabile, che rimane tale anche nel passaggio da un regime formalmente assolutistico ad uno che sposti la collocazione della sovranità al più articolato panorama delle forze economiche, politiche, intellettuali che costituiscono la sfera sociale. Ma soprattutto la nuova dimensione della politica non perde, secondo Schmitt, in questa dislocazione, i suoi criteri genetici, la sua capacità di definirsi autonomamente nei confronti degli altri settori del pensiero e dell’azione umana.
Schmitt individua, come sappiamo, questi criteri genetici nella coppia oppositiva amico/nemico, nella quale è possibile ricondurre i motivi dell’azione e della teorizzazione politica. Nel XVIII secolo, naturalmente, anche questa coppia subisce una profonda dislocazione. Se fino a questo momento il nemico è solo il nemico dello Stato, il «nemico pubblico», dopo questa data, l’inimicizia politica si trasporta nei più svariati settori della vita associata, nella società civile stessa. La politica può infatti, aggiunge Schmitt, trarre la sua esistenza da tutti i campi dell’esistenza umana, «da contrapposizioni religiose, economiche, morali», pur rimanendo immutata nei suoi fondamenti e nelle sue motivazioni più profonde. Essa, non indica un settore concreto particolare, ma solo il grado d’intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini, i motivi della quale possono causare, in tempi diversi, differenti unioni e separazioni15.
14 Cfr. rispettivamente J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Bari, 1974; R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, 1972. La prima edizione di questi lavori era rispettivamente del 1969 e del 1959. Ma di Koselleck si veda anche Semantica del concetto di rivoluzione, nel volume d’insieme La Rivoluzione francese e l'idea di rivoluzione, Milano, 1986, pp. 7 sgg.
15 Cfr. Il concetto di «politico» (1932), in Le categorie del «politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, 1972, pp. 121-122. Per una lettura del pensiero di Schmitt, fuori da ogni semplificazione e strumentalizzazione, si veda P.P. Portinaro, La crisi dello


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Identico quindi il punto di partenza di Salvatorelli e di Schmitt, ma diversissime, per non dire opposte, le conclusioni del loro ragionamento. Per Salvatorelli, infatti, allo spostamento dei tradizionali confini della politica corrisponde, non una profonda ridefinizione di questa sfera dell’azione umana che conserva però i suoi tratti distintivi peculiari, ma una vera e propria estinzione della politica nel «nuovo spirito d’umanità» illuministico. Schmitt, d’altra parte, nel tracciare l’itinerario storiografico, che prima ricordavamo, non era certo guidato da una teoria della politica per cosi dire «bellicista», che ponesse a priori una sorta di equazione tra politica e guerra e una correlativa antitesi tra morale e politica. La guerra scriverà, infatti, Schmitt non è «lo scopo o la meta o anche soltanto il contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo, provocando cosi lo specifico comportamento politico»16.
Scopo della riflessione e della pratica politica sarà invece, sempre secondo Schmitt, il superamento di questo stato conflittuale endemicamente presente nella società, a partire dal XVIII secolo, per tracciare un nuovo confine di neutralizzazione, più raffinato e più articolato da quello assicurato dallo Stato classico. Un obiettivo, questo, che sarà possibile raggiungere, però, soltanto a condizione di tener ben presente la carica di inimicizia, latente o manifesta, che si genera dai rapporti di vita associata17 e che invece, potremo aggiungere, integrando su questo punto il discorso di Schmitt
«jus publicum europaeum». Saggio su Cari Schmitt, Milano, 1982. Per una sua contestualizzazione storica, si veda, invece, S. Breuer, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Roma, 1985.
16 Cfr. Il concetto di «politico», cit., p. 117. Ma la definizione della politica, in quanto conflitto, aveva già trovato precocemente, in Italia, una sua organica espressione in Croce. Cfr. Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, 196110, pp. XII-XV. Ma si veda anche La Nausea della politica (1919), in Etica e Politica, a cura di G. Galasso, Milano, 1994, p. 198: «E solo da pochi, o solo in pochi momenti, si accetta rassegnati la verità, che altro riposo non è concesso all’uomo se non nella lotta e per la lotta, nessun’altra pace se non nella guerra e per la guerra. Di qui la continua negazione, che quello stato d’animo implica, della politica: della politica che è la maggiore o la più vistosa manifestazione della lotta umana».
17 Questo punto sarà sviluppato, più analiticamente, da Schmitt nella Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico, Milano, 1981. Il volume raccoglie saggi del 1963 e del 1975. Su questo stesso punto, ricordiamo la posizione di Benedetto Croce, in un intervento del 1945, dove, dopo aver ribadito, ancora una volta, la «durezza ed insieme la necessità della politica», si affermava: «E non importa se chi cosi ragiona e dice passi per l’apologeta della guerra, della violenza e dell’astuzia, quando non solo egli è il contrario di ciò, ma non è neppure quel che si dice un pessimista, perché ragionar bene e riconoscere la verità è un atto di fede nell’umanità» (Durezza della politica, in Pensiero politico e Politica attuale. Scritti e Discorsi, Bari, 1946, p. 66).



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con gli argomenti di Koselleck, il pensiero politico dei Lumi nel suo complesso ha cercato di «rimuovere». La mentalità illuministica affiderà, infatti, fideisticamente, in virtù del clamoroso fraintendimento, per dirla con Croce, dell’«utile» politico con l’«egoistico»18, la risoluzione di questo problema ad una vera e propria teleologia del progresso storico, al cui apice doveva realizzarsi una sorta di miracolosa estinzione della politica nella morale e del conflitto nel venir meno degli interessi antagonistici19.
Un semplice confronto tra le tesi della ph ilo sophie parigina, che maggiormente influenzeranno l’intero movimento dei Lumi sul continente europeo, e quelle elaborate, nello stesso periodo, in Inghilterra, da esponenti intellettuali che, come mi sembra abbia dimostrato Pocock, sarebbe davvero forzoso etichettare semplicemente come «illuministi»20, potrebbe essere, allora, ancora istruttivo a questo riguardo. E, in questo caso, si dovrebbe contrapporre il faticoso lavorio di coloro, come Blackstone, Bolingbroke21, Hume, e poi, seppure con esiti diversissimi, Burke, Bentham, lo stesso composito mondo del radicalismo anglosassone, che si sforzavano di meglio definire quei concetti di contratto politico, di Costituzione, di rappresentanza, di opposizione, di partito politico, di diritto di resistenza, che saranno alla base dell’azione e della cultura politica dell’Europa contemporanea22; e
18 Cfr. Politica in nuce (1924), in Etica e Politica, cit., p. 250. Ma per la ripresa di questa tematica, in un contesto maggiormente vicino al nostro discorso, si veda il saggio Istituzioni razionali e irrazionali del 1922, ivi, pp. 218-219.
19 Cfr. Critica illuminista e crisi della società borghese, cit., p. 15: «Con la scissione tra la morale e la politica, la morale deve inevitabilmente estraniarsi dalla realtà politica [...] La morale che non può integrare la politica, poiché poggia sul vuoto, deve fare di necessità virtù. Estranea alla realtà, essa scorge nel campo della politica una determinazione eteronoma, che ostacola soltanto la sua autonomia. Di conseguenza questa morale, nella misura in cui perviene al culmine della sua determinazione, ritiene di poter eliminare completamente dal mondo l’aporia del politico. Il fatto che la politica sia il destino, ma appunto non nel senso di una cieca fatalità, non viene compreso dagli illuministi. Il loro tentativo, di negare attraverso la filosofia della storia la fatticità storica, di “rimuovere” il fattore politico, ha per la sua origine carattere utopistico [...] Sotto il fuoco incrociato della critica [illuministica] non fu soltanto fiaccata la politica del tempo; nel medesimo processo anche la politica stessa, in quanto compito permanente dell’esistenza umana, si dissolse in utopistiche costruzioni del futuro».
20 Cfr. J.G.A. Pocock, Clergy and Commerce. The Conservative Enlightenment in England, in L'età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, cit., I, pp. 523-564. Ma su questo stesso punto, sempre di Pocock, si veda anche Virtue, Commerce and History. Essay on politicai Thought and History, Chiefly in thè Eighteenth Cen-tury, Cambridge, 1985, in particolare la parte seconda del volume, pp. 91 sgg.
21 Su questo autore, si veda ora la ricca introduzione di G. Abbattista all’edizione italiana del L’Idea di un Re patriota, Roma, 1995.
22 Su questo argomento, un buon contributo generale è offerto dal volume miscellaneo, The Varieties of British Politicai Thought, 1500-1800, ed. by J.G.A. Pocock, G.J. Scho-



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quanti, come gli uomini dei Lumi, elaboravano una riflessione metapolitica, molto spesso unicamente traducibile in slogan eminentemente propagandistici, in parole d’ordine squisitamente ideologiche, che troveranno la loro più ampia, ma forse meno armonica, cassa di risonanza nella sociabi-lité delle accademie di provincia e delle logge massoniche della fine dell’antico regime23.
Tale inadeguatezza politica dei Lumi ha, d’altra parte, un riscontro non solo nei confronti delle problematiche che si vengono a determinare, nel XVIII secolo, nell’assetto interno degli Stati, ma anche nel panorama internazionale. In questa sfera, infatti, ITlluminismo europeo, dal?Encyclopédie a Kant, chiude con miopia quella necessaria riflessione sulla guerra, portata avanti dai teorici dello «jus publicum europaeum» dei secoli passati24, sposando le tranquillizzanti ipotesi pacifiste dell'abbe' de Saint-Pierre25, proprio nel momento in cui la diversa dimensione bellica del conflitto dei Sette anni e poi di quello rivoluzionario proponeva drammaticamente il nuovo
chet, L. Schwoerer, Cambridge, 1993, con particolare riferimento ai saggi di Pocock che indagano la cultura politica angloamericana dal 1760 al 1790. Dello stesso Pocock si veda la parte terza del già citato Virtue, Commerce and History, The varieties of Whiggism from Exclusion to Reform: A history of ideology and discourse, pp. 215 sgg. Ma due studi, in particolare, sono di grande utilità per apprezzare il delinearsi, nell’area inglese, di una mentalità politica che travalica i tradizionali steccati istituzionali e culturali dell’antico regime, in una nuova dimensione sociale ed extrastatale: J. Brewer, Party Ideology and Popular Politics at thè Accession of George III, Cambridge, 1976, in particolare pp. 219 sgg.; P.N. Miller, Defining thè Common Good. Empire, Religion and Philosophy in Eighteenth-Century Britain, Cambridge, 1995.
23 Ma sulla scarsa rilevanza della riflessione politica dell’Illuminismo francese, nel confronto con la cultura anglosassone, rimando al mio II pensiero politico di André Morel-let, introduzione ad A. Morellet, Manoscritti storico-politici, testi inediti, a cura di E. Di Rienzo, Firenze, Centro editoriale toscano, 1995.
24 Su questo argomento resta fondamentale, naturalmente, l’analisi di C. Schmitt, Il No-mos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», a cura di E. Castrucci, Milano, 1991, in particolare cap. 3, pp. 161 sgg. Per un bel quadro del gioco diplomatico della prima metà del Settecento cfr. P. Alatri, L'Europa dopo Luigi XIV (171X1731), Palermo, 1986, e Id., L'Europa delle successioni (1731-1748), Palermo, 1989. Sulla irreversibile rottura dello «justum potentiae aequilibrium» degli Stati europei, già a partire dalla guerra dei Sette anni, si veda invece P.W. Schroeder, The Transformation of European politics: 1763-1848, Oxford, 1993.
25 Su questo punto cfr. l’ampia rassegna di M. Mori, L'illuminismo francese e il problema della guerra, in «Rivista di filosofia», 1974, 2-3, pp. 145 sgg. Ma ora sul pacifismo settecentesco, si veda anche, rispettivamente, l’antologia, a cura di D. Archibugi e F. Voltaggio, Filosofi per la pace, Roma, 1991, e D. Archibugi, Il sogno degli uomini semplici ossia la pace perpetua, introduzione a P.-A. Gargaz, Progetto di pace perpetua, Palermo, 1992. Sempre di Mori cfr., infine, il bel volume La ragione delle armi. Guerra e conflitto nella filosofia classica tedesca (1770-1830), Milano, 1984.



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aspetto «morale» di questo fenomeno, che come comprenderà più tardi Von Clausewitz26, andava trasformandosi in «guerra assoluta», in «guerra di popolo», capace di coinvolgere intere nazioni, sul piano economico, ideologico, politico, militare, infrangendo la tradizionale separazione tra soldato di professione e cittadino di uno Stato.
Ma il carattere eminentemente impolitico della riflessione illuministica, non deve certo spingere lo storico della politica ad abbandonare il terreno di ricerca del XVIII secolo verso gli approdi del pensiero conservatore e reazionario della Restaurazione, sulle tracce del cammino già percorso da Schmitt nel suo Romanticismo politico21 e, molto più precocemente, dal Croce di Etica e Politica, dove si ricordava con rimpianto, di fronte al mondo nuovo dell’Illuminismo, che certo non «è il mondo della storia politica e della filosofia della politica», la perdita di vista del «problema del Machiavelli, cioè quello di affermare la qualità propria e la necessità della politica come politica e quello di Vico, d’intendere come la dura e violenta politica si congiunga con la vita etica»28.
L’azione e la teoria politica di questo periodo storico individuano, infatti, una realtà molto più ricca e complessa di quella rappresentata dal movimento illuminista, che rappresenta, è necessario ricordarlo, solo una parte, senza dubbio importante, ma non certo la totalità dell’intero Settecento, la cui fisionomia, proprio in questo settore, dovrà essere indagata nella sua irriducibile specificità.
3. Costituiscono però un ostacolo a questo progetto alcune categorie interpretative, su cui vale la pena soffermarsi, anche per riportare il discorso dal settimo cielo della teoria al concreto campo del lavoro storiografico. Tra queste categorie, in primo luogo, bisogna annoverare quella stessa di «Illuminismo», che sta rischiando ormai di perdere i suoi tratti distintivi e di conseguenza le sue stesse capacità euristiche per una vera e propria ipertrofia dei suoi confini.
Giusto, mi sembra infatti, sottolineare il carattere «multidimensionale» del-rilluminismo29, altrettanto giusto, poi, cercare di isolare con acribia e
26 Si veda su questo punto R. Aron, Penser la guerre, Clausewitz, I, L’àge européen, Paris, 1976.
27 Cfr. C. Schmitt, Romanticismo politico (1968), Milano, 1981.
28 Cfr. B. Croce, Per la storia della filosofia della politica (1924), in Etica e Politica, cit., p. 298. Per la ripresa sistematica di questo giudizio si veda A. Gerbi, La politica del Settecento. Storia di un’idea, Bari, 1928. Ma sul rapporto tra Croce e Illuminismo, si veda la penetrante analisi di G. Cotroneo, Croce e l’illuminismo, Napoli, 1970, e quella di E. Nuzzo, Il «giovane» Croce e l’Illuminismo, Napoli, 1971.
29 Cfr. K. Khon, The Multidimensional Enlightnment, in «The Journal of History of thè Ideas», 1970, 3.



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minuzia le varianti regionali di questo movimento30, ma non per fare dei Lumi, delle «Lumières», deH’«Enlightenment», deH’«Au£klarung», deU’«Illustra-ciòn», una chiave interpretativa capace di monopolizzare, l’interpretazione della storia intellettuale europea dalla seconda generazione dei repubblicani inglesi dell’inizio del XVIII secolo, o dal Traité des trois imposteursfi fino agli esponenti del liberalismo, nella Restaurazione della prima metà del XIX secolo.
Da questa ipertrofia del concetto di Illuminismo deriva direttamente, poi, quella di un’altra categoria interpretativa, più interna al lavoro dello storico politico di questo secolo, come quella di dispotismo illuminato. Coniata dallo stesso movimento delle Lumières, a scopi eminentemente propagandistici, più che per indicare un preciso disegno politico-istituzionale32, questa espressione costituisce ormai un vero e proprio impedimento, più che un ausilio, al lavoro storiografico. Come ha giustamente sottolineato Bernardo Sordi, infatti, in un contributo apparso nel recente volume dedicato a Istituzioni e società in Toscana nell'Età moderna’.
Sarebbe probabilmente troppo azzardato sostenere che la categoria dell’assolutismo illuminato rappresenti ancora - se mai lo è stata - una categoria storiografica forte [...] in grado di restituire la complessità di una molteplice congerie di esperienze storiche [...] dato che al di là dell’immagine evanescente di un interesse e di un intervento del centro, nella disciplina dei fattori istituzionali e sociali, il concetto non riesce però ad andare, invischiato, com’è, in una contrapposizione tra esaltazione e limitazione del potere [...] che suona ormai di maniera di fronte ai gravi problemi interpretativi posti dal delicato tornante tra costituzionalismo antico e costituzionalismo moderno33.
30 Cfr. il volume miscellaneo The Enlightenment in thè National Context, ed. by R. Por-ter and M. Teich, Cambridge, 1981.
31 Su questo punto cfr. M. Candee Jacob, L’Illuminismo radicale. Panteisti, massoni, repubblicani, Bologna, 1983. Esempio paradigmatico delle conseguenze di questa linea interpretativa sono poi le affermazioni di Silvia Berti, nell’introduzione che precede la sua pregevole edizione italiana del Trattato dei Tre Impostori. La Vita e lo Spirito del Signor Benedetto de Spinoza, Torino, 1994, p. XIX, dove si parla, a proposito del Traité, di «una consapevolezza già pienamente illuministica». Per un’interpretazione che mi sembra riportare correttamente questo testo alla temperie culturale del tardo «libertinismo erudito», si veda, invece, F. Charles-Daubert, Les Traités des Trois Imposteurs au XVIIe et au XVIIT siècles, pubblicato nella raccolta di studi Filosofia e Religione nella Letteratura clandestina. Secoli XVII e XVIII, a cura di G. Canziani, Milano, 1994, pp. 291-33 6.
32 Per un’analisi ideologica di questo concetto si veda la ricerca di M. Bazzoli, Il pensiero politico dell’assolutismo illuminato, Firenze, 1986. Ma il volume di Bazzoli costituisce, in realtà, un’analisi attenta e aggiornata dell’intero pensiero politico del XVIII secolo, in un contesto europeo.
33 Cfr. B. Sordi, Modelli di riforma istituzionale nella Toscana leopoldina, in Istituzioni e società in Toscana nell’Età moderna, Roma, 1994, pp. 5 90-5 91.


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E un giudizio, questo, su cui ormai concordano altri lavori, da quello di Carlo Capra sul riformismo asburgico34, a quello di Luciano Guerci dedicato alle monarchie assolute del XVIII secolo, in cui pagine molto importanti sono dedicate proprio ad un’analisi metodologica dell’ambiguità della categoria di «dispotismo illuminato»35.
Non c’è dubbio, tuttavia, anche di fronte a tali prese di posizione, che questo paradigma storiografico conservi ancora una notevole persistenza. Se Léonard Krieger ne ha difeso l’utilità, anche sul piano teorico, in un saggio del 1975, seppur raccomandandone l’uso con tante cautele e tanti distinguo da renderne problematica l’applicazione nella ricerca sul campo36, nel volume di Vincenzo Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, questo concetto sembra mantenere una sua validità indiscussa, tanto da far affermare all’autore che proprio nella formulazione del progetto del dispotismo illuminato, appoggiato dal nuovo ceto intellettuale settecentesco, risiedeva «il sostanziale radicalismo di una proposta che, combattendo il vecchio modello dello Stato patrimoniale e delle sue forme burocratiche, della libertà come privilegio, della struttura cetuale, minava alle radici stesse la compagine istituzionale e politica dell’Antico regime»37.
34 Cfr. C. Capra, Il riformismo asburgico, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea. L’età moderna, Torino, 1986, V, p. 553, dove è contenuta la condivisibile opinione, secondo la quale la categoria di assolutismo illuminato può conservare la sua utilità solo per lo studio di fenomeni politici tipici «delle aree arretrate d’Europa, quelle in cui l’accentramento politico amministrativo e la burocratizzazione precedono e in qualche modo sostituiscono lo sviluppo spontaneo delle nuove forze sociali e la nascita di un’opinione pubblica autonoma».
35 Cfr. L. Guerci, Le monarchie assolute. Permanenze e mutamenti nell’Europa del Settecento, Torino, 1986, pp. 502 sgg. Ma, su questo punto, si veda anche il saggio metodologico di Aurelio Musi, dove, sul piano più generale, si invitava addirittura a disaggregare il fenomeno «assolutismo» nel suo insieme, per ricercarne «gli elementi non assolutistici», gli «ambiti di autonomia in esso persistenti» (cfr. La storiografia politicoamministrativa sull’età moderna: tendenze e metodi degli ultimi trentanni, in Stato e pubblica amministrazione nell’Ancien Regime, a cura di A. Musi, Napoli, 1979, pp. 11 sgg., in particolare pp. 17-18). Per una conferma di questa ipotesi interpretativa, si vedano rispettivamente R. Mettam, Power and factions in Louis XIV’s France, Cambridge, 1988, e il recente J. Rogister, Louis XV and thè Parlement of Paris: 173 7-1755, Cambridge, 1995, che sottolineano le difficoltà di attuare, da parte dello Stato assoluto, una strategia di dominio sulla società francese, tra XVII e XVIII secolo.
36 Cfr. L. Krieger, An Essay on thè theory of Enlightened Despotism, Chigago-London, 1975, in particolare pp. 17 sgg.
37 Cfr. I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Bari, 1989, II, 2, p. 158. Ma il capitolo dell’opera di Ferrone è da vedersi per intero, come emblematico tentativo di opporsi alla tendenza storiografica, che sostiene la sostanziale incapacità dellTlluminismo di porre i problemi di una riforma dello Stato settecentesco.



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In questo caso, il concetto di dispotismo illuminato, con la sua capacità, per usare ancora le parole di Ferrone, di porre addirittura «le premesse per la rivendicazione della libertà e della rappresentanza politica», è ancora pienamente utilizzato, sul piano interpretativo, come una sorta di linea di collegamento tra il secolo ferreo della politica seicentesca e le nuove luminose o «illuminate», anche se forse non più «illuministiche», prospettive che si apriranno con la frattura rivoluzionaria38.
Ci troviamo qui di fronte ad una e vera propria crux del nostro discorso, relativa alla difficoltà per lo studioso del Settecento di abbandonare quel «discorso dell’Illuminismo su se stesso», quella visione tendenziosa del passato, che gli proviene dalla stessa storiografia dei Lumi. Da questa prospettiva, infatti, può apparire giustificato contrapporre, come Ferrone fa, il vecchio Stato seicentesco, alunno di una filosofia della ragion di Stato intesa come sostrato demoniaco della politica, unicamente intenta a predicare la violenta riduzione delle dinamiche sociali ad esclusivo vantaggio della libido dominandi del principe e magari dell’egoismo dei ceti privilegiati, alle strategie autenticamente innovatrici di un «despotisme éclairé», figlio della ragionevole filosofia dei Lumi, senza approfondire le linee di continuità che legano profondamente i due progetti sul piano della concreta azione politica come dei programmi e degli obiettivi di governo.
La nuova interpretazione della teoria della ratio status cinque-seicentesca di questi ultimi anni, particolarmente ma non esclusivamente attiva nell’area francese degli studi39, ha avanzato infatti ipotesi molto diverse da quelle di un Ferrari, di un Meinecke, di un Gerhard Bitter e dello stesso recente contributo di Viroli40, arrivando a individuare in questo fenomeno, come accade nel bel lavoro di Gianfranco Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano^, l’esistenza di due diverse, ma strettamente interrelate, forme di concepire e praticare l’attività politica. Se il primo modello fa riferimento a categorie come quelle di «forza», di «decisione» ed è teso unicamente alla conserva-
38 In questo stesso senso, la categoria di «dispotismo illuminato» è ancora utilizzata, senza eccessive preoccupazioni metodologiche, nella pure pregevole biografia di F.AJ. Sza-bo, Kaunitz and thè Enlightened Absolutism, I, 1733-1780, Cambridge, 1995.
39 Per una analisi esauriente di questa nuova letteratura storiografica, cfr. rispettivamente V. Dini, Il ritorno della «ragion di Stato», in «Filosofia politica», 1994, 8, pp. 239 sgg., e D. Taranto, Sulla politica della ragion di Stato, in «Studi Storici», 33, 1994, 2, pp. 5 75 sgg. Ma su questo punto, si veda anche la serrata analisi metodologica di E. Nuzzo, Crisi dell'aristotelismo politico e ragion di Stato. Alcune preliminari considerazioni metodologiche e storiografiche, in Crisi dell’aristotelismo politico e ragion di Stato, Firenze, 1995, PP- 11 sgg.
40 Cfr. M. Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato, Roma, 1994.
41 Cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, Bologna, 1993.



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zione della stabilità politica, il secondo si ispira invece alle più morbide ed elastiche tattiche di dominio dello «scambio politico» tra pubblico e privato, in una strategia di vera e propria ricerca del consenso, che non esclude a priori, ma cerca soltanto di governare, quegli elementi di dinamicità che soprattutto provengono dalle forze economiche della società42.
Siamo, in altri termini, in presenza di un progetto complessivo di «gover-namentalità», per usare l’espressione coniata da Michel Foucault43, dove veramente la politica della «ragion di Stato» sembra aver incubato nel suo seno la «politica della ragione» del XVIII secolo, come era stato sostenuto autorevolmente da Robert Mandrou già nel 197644. Un’ipotesi, questa, che ha fatto parlare, sul piano questa volta della concreta ricerca storiografica, della possibilità di utilizzare il termine di «riforma», fino ad ora esclusivo monopolio della storia politica del Settecento maturo, anche per l’attività dello Stato del tardo Seicento45 e soprattutto della prima metà del nuovo secolo. E, in questa prospettiva, si sono mossi i lavori di Marcello Verga e Jean-Claude Waquet sulla Toscana tra Seicento e Settecento, che propongono, in maniera assai convincente, il paradigma della continuità interna, tra i due secoli, di un movimento riformatore antecedente a quello dei Lumi46.
Ma in ogni caso, questo progetto di «governamentalità» sembra molto diverso dall’immagine stereotipa, tracciata dal Muratori, quando parlava della politica del secolo passato come «fiera perturbatrice dei popoli» e paradossalmente, invece, appare vicinissimo a quello avanzato dall’autore degli Annali d’Italia, nel suo Della pubblica Felicità del 1749, che Giuseppe Ricuperati ha definito come un perfetto, «autentico manuale per il riformismo moderato» settecentesco, capace addirittura di «iniziare alla politica
42 Ma su questo punto, soprattutto per l’area francese, cfr. il mio Saggezza, Prudenza, Politica: da Pierre Charron a Samuel Sorbière, in L’aquila e lo Scarabeo. Culture e conflitti nella Francia del Rinascimento e del Barocco, Roma, 1988, pp. 109 sgg.
45 Cfr. M. Foucault, Poteri e strategie, a cura di P. Della Vigna, Milano, 1994, pp. 43 sgg. Si tratta del testo della lezione tenuta nel febbraio 1978, al Collège de France.
44 R. Mandrou, Ragione e ragion di Stato: 1649-1775, Milano, 1978, pp. 252 sgg. La prima edizione di questo lavoro, in lingua tedesca, è del 1976.
45 Cfr. il volume d’insieme La Toscana nell’età di Cosimo III, Atti del Convegno, Pisa-S. Domenico di Fiesole, 4-5 giugno 1990, a cura di F. Angiolini-V. Becagli-M. Verga, Firenze, 1993, con particolare riferimento al saggio metodologico di Elena Fasano Guari-ni, alle pp. 113 sgg.
46 Cfr. rispettivamente M. Verga, Da «cittadini» a «nobili». Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano, 1990; J.C. Waquet, Le Grand Du-ché de Toscane sous les derniers des Médicis. Essai sur le système des finances et la stabilite des institutions dans les anciens états italiens, Rome, 1990. Ma, sempre di Verga, si veda il saggio Legislazione, Istituzioni e assetti sociali in Pompeo Neri, in Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelflorentino, cit., pp. 7 sgg.



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illuminata» due futuri sovrani riformatori dell’importanza di Giuseppe e Pietro Leopoldo d’Asburgo47.
Un testo, questo di Muratori, dove, però, l’autentico segno di novità, consisterebbe soprattutto, secondo la classica lettura di Salvatorelli48, nell’affermazione di principio secondo la quale «non è stato inventato il principato per far del bene al solo principe»; ma «principalmente per far del bene alla Repubblica, cioè per procurare la felicità de’ popoli sottoposti»49, che invece è possibile ritrovare come un motivo ricorrente nella totalità della letteratura politica cinque-seicentesca50, se se ne esclude, forse, la versione più radicalmente machiavellica, come rivela la consultazione di uno strumento ancora oggi di grande utilità, come quello costituito dalle opere di Rodolfo de Mattei sul pensiero politico italiano e sul problema della ragion di Stato nella Controriforma51.
La continuità forte che mi sembra si possa ritrovare, almeno nella prima metà del XVIII secolo, tra il modello di governo delle amministrazioni seicentesche e settecentesche, al di là della pretesa frattura determinata dall’avvento del «dispotismo illuminato»52, dovrebbe poi aiutarci a cogliere nella loro autonomia fenomeni importanti come quello del giurisdizionalismo
47 D. Carpanetto-G. Ricuperati, L’Italia del Settecento. Crisi Trasformazioni Lumi, Roma-Bari, 1986, pp. 165-171. Già nel II pensiero politico degli illuministi, cit., p. 267, Ricuperati definiva il testo di Muratori come «il manifesto del dispotismo illuminato». Ma sull’influsso della proposta politica muratoriana sul riformismo ministeriale del Bogino, in Piemonte, cfr. Id., I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino, 1989, pp. 179-180 e passim.
48 Salvatorelli, op. cit., p. 21.
49 Cfr. L. A. Muratori, Della pubblica felicità, oggetto de" buoni principi, a cura di B. Brunello, Bologna, 1941, p. 15. Ridimensiona giustamente la novità del messaggio politico di Muratori, proprio su questo punto, Bazzoli in II pensiero politico dell'assolutismo illuminato, cit., pp. 480 sgg.
50 Cfr. Discorsi del Signor Scipione Ammirato sopra Cornelio Tacito, in Fiorenza, 1598, p. 236, dove si afferma che: «dee il principe cedere al ben pubblico, e non il bene pubblico al principe». Importante, mi sembra, a questo proposito, l’annotazione di Croce nel suo Stato e Chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia, in Etica e politica, cit., p. 395: «E fu merito della Chiesa cattolica di avere, nel modo che potè e seppe, asserito questa esigenza contro il crudo e unilaterale machiavellismo, cioè contro la mera politica che si dava per il tutto, e di aver costretto, con la sua tenace e incalzante opposizione, questa teoria a correggere le sue esagerazioni e storture, e a integrarsi e inverarsi, pur serbando la particolare e originale verità che le era propria». Ma su questo punto cfr. anche Storia dell'età barocca in Italia, Bari, 19462, I, 2, pp. 71 sgg.
51 Cfr. R. De Mattei, Il pensiero politico italiano nell'età della Controriforma, Milano-Na-poli, 1982-1984, 2 voli.; Id., Il problema della «Ragion di Stato» nell'età della Controriforma, Milano-Napoli, 1979.
52 Questa frattura si realizzerà precocemente invece, almeno sul piano teorico e in un diverso contesto ideologico, nell’opera di Paolo Mattia Doria, La vita civile, composta nel



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e dell’anticurialismo, che molto poco hanno a che spartire con il movimento dei Lumi, sia per la loro matrice genetica che per le loro finalità politiche, come ha annotato giustamente Luciano Guerci53.
E a questo riguardo, penso per l’Italia, al caso paradigmatico di Niccolò Fraggianni che rappresentò non solo, per dirla con Croce, la più grande figura del giurisdizionalismo meridionale settecentesco54, ma anche, forse più dello stesso Tanucci, la vera mente politica del riformismo carolino della prima metà del secolo55. Un personaggio, questo, di cui dalla lettura fattane da Franco Venturi, nelle pagine di Settecento riformatore56, traspaiono prevalentemente le caratteristiche di esponente di spicco della quinta colonna giannoniana, di implacabile oppositore alle «intraprese de’ preti», secondo la definizione di Genovesi57, di difensore d’ufficio della versione
primo decennio del secolo, come ha sottolineato magistralmente Salvatore Rotta (cfr. Paoto Mattia Doria rivisitato, in «Studi settecenteschi», 1982-1983, 3-4, pp. 45 sgg., in particolare pp. 55-56). Ma sul pensiero politico di questo autore, si vedano rispettivamente V. Conti, Paolo Mattia Doria. Dalla repubblica dei togati alla repubblica dei notabili, Firenze, 1978; E. Nuzzo, Verso la «Vita civile». Antropologia e politica nelle lezioni accademiche di Gregorio Caloprese e Paolo Mattia Doria, Napoli, 1984.
53 Cfr. L. Guerci, Le monarchie assolute, cit., dove si afferma a p. 505: «Di un giurisdizionalismo magari efficace ma spicciolo - da collocarsi nella prima metà del secolo - che cede il passo ad un riformismo di ampia portata innovatrice di idee illuministiche, mi sembra occorra parlare con prudenza: che il giurisdizionalismo non mancò di una chiara idea della sovranità dello Stato e creò una solida tradizione che forni esempi e strumenti ai sovrani riformatori del secondo Settecento».
54 B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 19656, pp. 203-204, 207.
55 Su questo punto cfr., rispettivamente, il volume d’insieme Bernardo Tanucci statista letterato giurista, Atti del convegno internazionale di studi per il secondo centenario: 17831983, a cura di R. Ajello e M. D’Addio, Napoli, 1988. Ma, su questa stagione del riformismo meridionale, si vedano i bei contributi di E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla politica civile, Firenze, 1984, e di A.M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, XII, Il secolo dei lumi e le riforme, Milano, 1989. Più in generale sul nesso Illuminismo/riformismo nel Regno di Napoli, estremamente interessanti sono le dense pagine di G. Galasso, Illuminismo napoletano e Illuminismo europeo, in La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana nel Settecento, Napoli, 1989, in particolare pp. 16 sgg.
56 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria: 1730-1764, Torino, 1969, pp. 33, 89, 53 8, 541; Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti: 1738-1774, Torino, 1976, pp. 165-167.
57 Cfr. A. Genovesi, Autobiografia, a cura di G. Savarese, Milano, 1962, p. 28. A proposito di questo giudizio, giustamente è stata osservata la possibilità di sottoscriverlo, «a patto di non fraintenderne il senso, scambiando per un ostinato anticlericale un uomo che si distinse non solo per preparazione giuridica e vasta cultura, quanto per severa religiosità» (cfr. E. Del Curatolo, L’editto carolino contro la massoneria [17311 nel quadro dei rapporti tra Regno di Napoli e Santa Sede, in «Clio», XXIII, 1987, 1, pp. 35 sgg., in particolare p. 43).



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regnicola dell’«Illuminismo radicale», rappresentata da una figura, in verità, più stravagante che interessante e autenticamente eterodossa, come Raimondo di Sangro58.
Si tratta di una lettura della biografia politica di Fraggianni, certo non contrastante, ma per molti punti diversa dall’interpretazione di questo personaggio operata da Giuseppe Ricuperati, fin dal 197059, e poi da Elia del Curatolo, da Ajello e da un giovane e validissimo studioso come Francesco Di Donato60, che ce ne restituisce la fisionomia complessiva di grande servitore dello Stato, attento osservatore della battaglia anticurialista europea come quella dei parlamenti francesi, capace di proporre per la risoluzione del problema della politica ecclesiastica una prassi di separazione e di reciproco rispetto tra Chiesa e organismi civili61, molto più incisiva di quella sostenuta dalla propaganda antireligiosa ed eterodossa del tempo, di cui Fraggianni62 si dimostrò, in ogni caso, inflessibile
58 Cfr. P. Zambelli, Illuminismo moderato e Illuminismo radicale a Napoli. «Quipu»: Segni d’intesa fra Sansevero e i «Moderni». Fraggianni, Genovesi, Orlandi, in L’Europa nel XVIII secolo. Studi in onore di Paolo Alatri, a cura di V.I. Comparato, E. Di Rienzo, S. Grassi, Napoli, 1992, I, pp. 83 sgg. Diversamente, su questo punto, Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, cit., pp. 238 sgg.
59 Cfr. G. Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli, 1970, pp. 288-290, 316-317 e passim.
60 Cfr. rispettivamente E. Del Curatolo, Per una biografia di Niccolò Fraggianni. La Giovinezza, in «Clio», VI, 1971, 2, pp. 253-3 02; Id., Niccolò Fraggianni. Delegato della «Reai Giurisdizione», ivi, VII, 1972, 1, pp. 25-40; R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, Cava dei Tirreni, 1972, Vili, pp. 708-713; R. Ajello, Fraggianni e la parabola della monarchia borbonica, prefazione a N. Fraggianni, Lettere a B. Corsini: 1739-1746, a cura di E. Del Curatolo, Napoli, 1991, pp. XIX-XXXIX; F. Di Donato, La Segreteria del Regno e Niccolò Fraggianni: 1723-1733, in «Archivio storico per le provincie napoletane», CVII, 1989, pp. 247-3 09; Id., Stato, Magistrature e controllo dell’attività ecclesiastica. Niccolò Fraggianni nel 1743, ivi, CXI, 1993, pp. 255-328.
61 In questa strategia, è anche da collocarsi il fondamentale contributo del Fraggianni alla stesura dell’editto del 10 luglio 1751 contro la massoneria napoletana. Cfr. L’editto carolino contro la massoneria, cit., pp. 43-54.
62 Nell’aprile del 1753, Fraggianni redigeva una prammatica che intimava la consegna dei torchi e vietava di stampare, se non in tipografie debitamente autorizzate e naturalmente dopo la consueta approvazione dei revisori. Il provvedimento, concordato con gli altri ministri di Carlo di Borbone, faceva parte naturalmente della tradizionale strategia giurisdizionalista di questo personaggio e mirava a rafforzare il potere sovrano grazie a tale controllo sulla stampa, nei confronti della propaganda curialista, ma anche della diffusione della cultura eterodossa. Nella lettera inviata nel marzo di quell’anno alla Corte papale, Fraggianni aggiungeva infatti, proprio in relazione a questo provvedimento che si andava elaborando in quei giorni, che «il Re per conservare illesa ne’ suoi domini la purità della S. Religione molto si adopera specialmente nell’introduzione e vendita de’ libri proibiti fino a fargli privatamente o pubblicamente abbruciare». Cfr. P. Zambelli, Illuminismo moderato e Illuminismo radicale, cit., p. 99.



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persecutore, negli anni del suo governo, nonostante le sue buone letture «illuministiche»63.
4 . Il mancato riconoscimento dell’autonomia della politica delle amministrazioni settecentesche, da parte di una prospettiva d’indagine tendenzialmente «illuministico-centrica», avrebbe poi provocato, secondo Mario Mirri, nel saggio precedentemente citato, anche un allontanamento di fatto della storiografia italiana, più tradizionalmente legata alla prospettiva della «storia delle idee», dallo studio delle realtà più specificatamente istituzionali del Settecento64.
E questo un appunto che non mi sembra possibile condividere, quando si pensi soprattutto ai lavori di Guerci, di Manuela Albertone, prima ricordati, senza dimenticare i volumi di Diaz sul Granducato di Toscana e su Francesco Maria Gianni65, quelli di Ferrone e di Pasta su due personaggi come Celestino Galiani e Giovanni Fabbroni, che svolsero buona parte della loro attività all’interno degli apparati istituzionali di antico regime66, la monografia di Edoardo Tortarolo sul rapporto tra intellettuali e Stato prussiano67, ed, ora, la grande fatica storiografica di Giuseppe Ricuperati sul Settecento sabaudo68, innovativa anche sotto il profilo metodologico, che ha fornito l’impulso a importanti ricerche, sviluppate poi autonomamente dai suoi allievi, di cui qui voglio ricordare almeno la monumentale biografia politica dedicata da Romagnani a Prospero Balbo69.
63 Cfr. P. Zambelli, Letture vichiane e illuministiche del Segretario del Regno Niccolò Frag-gianni, in «Bollettino del centro di studi vichiani», XIV-XV, 1984-1985, pp. 215-227.
64 Cfr. Dalla storia dei «lumi» e delle «riforme» alla storia degli «antichi italiani», cit., p. 519, dove si considera come «isolato» il tentativo del volume di Ricuperati e Carpanetto di «ricostruire tutti gli aspetti della società, tenendo conto, oltre che delle condizioni economiche e sociali, anche degli assetti costituzionali e istituzionali».
65 Cfr. Il Granducato di Toscana. I Medici, Torino, 1977; Francesco Maria Gianni. Dalla burocrazia alla politica sotto Pietro Leopoldo in Toscana, Milano-Napoli, 1966.
66 Cfr. V. Ferrone, Scienza Natura Religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, 1982, in particolare, pp. 317-454; R. Pasta, Scienza, politica e rivoluzione. L'opera di Giovanni Fabbroni (1752-1822), intellettuale e funzionario al servizio dei Lorena, Firenze, 1989.
6/ Cfr. E. Tortarolo, La ragione sulla Sprea. Coscienza storica e cultura politica nell'illuminismo berlinese, Bologna, 1989. Ma di Tortarolo occorre ricordare anche il bel volume Illuminismo e Rivoluzioni. Biografia politica di Filippo Mazzei, Milano, 1986.
68 Cfr. G. Ricuperati, Il Settecento, in II Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, Torino, 1994, pp. 445 sgg. Di grande interesse, per la storia istituzionale di questo Stato, è anche la ricerca di W. Barberis, Le armi del principe. La tradizione militare sabauda, Torino, 1988.
69 Cfr. G.P. Romagnani, Prospero Balbo, intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), Torino, 1988-1990, 2 voli. Ma cfr. anche Id., Le culture rivali. Ideologia delle riforme e



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Tutti studi, questi, che, per la gran parte, mi sembrano essersi emancipati originalmente dalle tradizionali categorie interpretative di «Illuminismo politico» e di «dispotismo illuminato», per esaminare direttamente la dinamica politica del secolo in una prospettiva di storia dello Stato e delle istituzioni, operando a volte un ribaltamento radicale dei primitivi punti di partenza, che non è privo di conseguenze sul piano dei risultati delle analisi. Nel già ricordato volume, L’Italia del Settecento, del 1986, Dino Carpanetto affermava:
Se lo si guarda nei suoi riferimenti ideologici e culturali, il flusso delle riforme risulta animato da una visione dei problemi complessivamente preilluministica [...] Il movimento riformatore italiano, in altre parole, non mise in discussione i pilastri dell’edificio monarchico e assolutistico, non mirò all’edificazione di una società rinnovata nel profondo. Portò con sé tutti i risvolti civili di quel paternalismo autoritario, avvezzo a comandare senza verifiche né controlli, che era parte dell’orgoglio politico della nobiltà e che si combinava con l’assolutismo dei principi. La cultura giuridica dei riformatori di questo periodo [...] fu ancorata ad un regalismo tecnicista, che vide il problema del potere esclusivamente come una faccenda di gestione degli strumenti politici e coercitivi, di fatto insensibile alle questioni della legittimità, della libertà, della giustizia sociale70.
E qui presente una decisa equazione, nel giudizio di valore, tra l’antico assolutismo dei principi e il movimento riformatore, che mi sembra ancora risentire del vecchio pregiudizio illuminista contro l’«esprit d’administra-tion», costituzionalmente incapace di portare a compimento la spinta al cambiamento suggerita dalla filosofia settecentesca, che finisce per condurre ad una svalutazione di quanto di nuovo, di originale, non di rado di autenticamente radicale, si andava elaborando all’interno degli apparati istituzionali e delle burocrazie del Settecento. E non casualmente, allora, in una diversa e più raffinata prospettiva storiografica, Ricuperati individuava, nel saggio Gli strumenti dell’assolutismo sabaudo del 199071, che conteneva le linee direttive del più ampio lavoro sulla monarchia piemontese del Settecento, la categoria del «ben ordinato Stato di polizia», coniata da Raeff nel 197572, per dar conto delle dinamiche interne di quell’insieme statale, in alternativa al tradizionale concetto di «dispotismo illuminato».
Illuminismo nell esperienza di due funzionari sabaudi, in Ragioni dell’anti-Illuminismo, a cura di L. Sozzi, Alessandria, 1992, pp. 417 sgg.
70 Cfr. L’Italia del Settecento, cit., p. 194. Ma sul problema del riformismo settecentesco in Italia, si veda anche l’utile strumento, offerto da questo autore, nel suo L’Italia del Settecento. Illuminismo e movimento riformatore, Torino, 1980.
71 Cfr. Gli strumenti dell’assolutismo sabaudo: Segreterie di Stato e Consiglio delle finanze nel XVIII secolo, in «Rivista storica italiana», CII, 1990, pp. 796 sgg.
72 Cfr. M. Raeff, The well ordered Police-State and thè Development of Modernity in Se-venteenth and Eigbteenth Century Europe: An Attempi at a Comparative Approach, in



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Il semplice aggiornamento dell’ottocentesco concetto di «Stato di polizia», che forse è stato realizzato, con maggior rigore metodologico, da Stolleis nel 198873, e il suo ampliamento in chiave di storia comparata, operato da Raeff, per cogliere i processi di modernizzazione dello Stato moderno nel suo passaggio da puro strumento della soggettiva volontà del principe a Stato di diritto, dove l’attività del governante si trova ad essere limitata da un ventaglio di garanzie giuridiche e legali, che preservano almeno la libertà civile del suddito, possono certo essere utili per ricostruire la fisionomia del Piemonte di Bogino, della Prussia di Federico II e del neocameralismo, della Russia di Caterina II, dello stesso impero giusep-pino, nella loro alterità agli ideali di cambiamento illuministici; ma rivelano tutta la loro inadeguatezza, una volta chiamati a darci conto del progetto riformatore, che altri apparati governativi dovettero sperimentare, in presenza di realtà nazionali diverse e ben più evolute sul piano della crescita economica e sociale.
Del tutto estranea alla dimensione del «well ordered Police-State», è per esempio in Francia il modello di cambiamento istituzionale formulato da Vincent de Gournay, alla metà del Settecento, e poi portato avanti con continuità per tutto il secolo, seppur tra successi significativi ma effimeri e clamorose disfatte, dalla folta schiera dei suoi allievi, tutti appartenenti al ceto burocratico-amministrativo del regno: da Turgot a Malesherbes, da Tru-daine de Montigny a Loménie de Brienne.
Un progetto, questo di Gournay, che, già nella sua prima formulazione, prevedeva un ben articolato ventaglio di riforme di struttura sul piano economico e finanziario (dalla battaglia per la libertà commerciale e industriale non limitata unicamente al piano interno, alla riforma del sistema impositivo, alla liberalizzazione del mercato del denaro in vista di un’opera di risanamento del debito pubblico), in grado di costituire, come ipotizzava lo stesso Gournay, il preludio necessario ad una riforma politica, che fosse in grado di configurare una diversa organizzazione del potere74, capace di rispecchiare efficacemente i nuovi rapporti di forza che sul terreno
«The American Historical Review», 1975, 2, pp. 1221 sgg. A questo saggio ha fatto poi seguito il volume di Raeff, The well ordered Police State. Social and institutional Change trough Law in thè Germanies and Russia: 1600-1800, New Haven-London, 1983.
73 Cfr. M. Stolleis, Geschichte des òffentlichen Rechts in Deutschland, in Reichspuhlizistik und Policeywissenschaft: 1600-1800, Mùnchen, 1988, in particolare pp. 334 sgg.
74 Si pensi solo alla chiara consapevolezza espressa da Gournay, quando affermava che le grandi riforme di politica economica, da esso proposte, non avrebbero potuto non riflettersi sulla stessa «forme du gouvernement» (cfr. J.-C. Vincent de Gournay, Traités sur le commerce, traduit de J. Child, avec les Remarques inédites de Vincent de Gournay, textes édités d’après les manuscrits de la Bibliothèque Municipale de Saint-Brieuc, par Takumi Tsuda, Tokio, 1983, p. 258).


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sociale si erano delineati nella Francia della fine del secolo e che, in mancanza di questa, sarebbero rimasti drammaticamente irrisolti nel tradizionale apparato istituzionale dell’«Estat Royal»75.
Questo progetto di globale riforma dello Stato non si limitava, infatti, ad una semplice e neutrale modernizzazione delle tradizionali strutture di antico regime, ma prevedeva invece un cambiamento radicale della globale filosofia di governo sul piano degli obiettivi di fondo, delle stesse scelte di campo sociale. Al vecchio modello politico di derivazione seicentesca, che prevedeva un ruolo mediatore ed equilibratore della sovranità in primo luogo nei confronti della sfera economica, occorreva infatti sostituire un’organizzazione politica diversa, che fosse in grado di inglobare la nuova conflittualità che, proprio su quel terreno, si era determinata con la rottura del monopolio politico dello Stato classico, con il suo venir meno come unico centro di decisione, di organizzazione, di armonizzazione degli antagonismi e dei conflitti della società.
Si tratta di un programma di mutamento, il cui prezzo sarà alto sul piano politico come su quello sociale. In primo luogo, infatti, il nuovo modello statale dovrà presentarsi come oggettivamente alleato a quei nuovi ceti egemoni che dalla metà del secolo intersecano trasversalmente le tradizionali gerarchie giuridiche dell’antico regime, in nome di quell’«individualismo possessivo», che dovrebbe egualmente battere in breccia l’apparato dei vecchi privilegi come quello delle garanzie sociali, tradizionalmente destinate alla tutela dei ceti subordinati. Due settori, questi, egualmente e strenuamente difesi invece, in ossequio alla vecchia funzione economicamente equilibratrice dello Stato, da un fronte vasto di oppositori che andrà dai numerosi epigoni settecenteschi della «police d’Etat» del secolo passato a Necker e Linguet, a membri del parti philosophique come Diderot, Grimm, Meister76.
Sul piano più squisitamente politico, poi, la realizzazione di queste riforme avrà per contropartita la concessione proprio a quei nuovi ceti egemoni di un diritto di cittadinanza, che non potrà limitarsi più al solo informale diritto di protesta, di proposta, di replica, assicurato da un movimento illuminista che si era arrogato il privilegio esclusivo di costituire il tramite tra opinione pubblica e governo, ma che dovrà, d’ora in poi, essere sancito da un preciso diritto di rappresentanza politica.
75 Ho tentato di delineare questo progetto di riforma, nelle sue molteplici articolazioni, nella mia monografia dedicata ad un intellettuale come André Morellet, che fiancheg-gerà per tutto l’antico regime l’operato di questo gruppo di burocrati (Alle origini della Francia contemporanea, cit.).
76 Cfr. ivi, pp. 33 sgg., per l’opposizione di questi philosophes ai progetti antivincolistici sul commercio dei grani.



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Per questo ultimo problema, poi, il caso francese mi sembra costituire una variante significativa, sebbene non del tutto isolata, nei confronti di quel globale fallimento del processo di modernizzazione delle monarchie europee, in assenza di un parallelo progetto di concessione e allargamento della rappresentanza politica, che Manuela Albertone ha messo in luce nel suo saggio sugli Stati europei del XVIII secolo77.
In Francia, almeno, la necessità di arrivare alla costruzione di un modello rappresentativo, di fatto pressoché ignorata dagli uomini dei Lumi, se non sulla falsariga del mito della rivoluzione americana78, non è agitata soltanto dall’opinione pubblica progressista e dal gruppo fisiocratico, che riuscirà a sbarazzarsi molto più precocemente dei philosophes della paralizzante ipoteca del «despotisme légal»79, ma è anche un’esigenza profondamente avvertita, dalla metà del secolo, dagli ambienti liberali dell’amministrazione. Questi, infatti, sperimenteranno, almeno parzialmente, la possibilità di costruire una nuova organizzazione del potere a base rappresentativa, già a partire dagli anni 1760, nel progetto di generalizzazione degli Stati provinciali di Choiseul, nelle microriforme delle organizzazioni municipali di L’A-verdy, nella creazione delle assemblee provinciali voluta da Turgot, ma anche da Necker e Calonne, e che, nel progetto di Loménie de Brienne del
77 Cfr. Tra riforme e rivoluzioni. Gli Stati europei del Settecento, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all'età contemporanea, cit., pp. 531 sgg.
78 Cfr. Dalla storia dei «lumi» e delle «riforme» alla storia degli «antichi italiani», cit., p. 503: «Egualmente il dibattito sugli assetti politico-istituzionali degli antichi Stati che si apre agli inizi del secolo [...] sebbene finisca per confluire anche nel movimento dei “lumi” (e, per un altro verso, per influenzarlo), non può non essere considerato contemporaneamente, nella sua specificità, con i suoi diversi tentativi di tradurre in soluzioni tecniche e procedure praticabili esigenze, principi, diritti, che compresero certamente, da un certo momento in poi, i valori affermati dai philosophes, ma che includevano anche altre esigenze, e in primo luogo quella di concrete forme di controllo e di partecipazione, che questi non avevano contribuito ad elaborare. Non a caso i philosophes, o almeno una buona parte di personalità di formazione illuminista, non mostrarono una comune sensibilità per questi problemi: non scesero su questo terreno, non andarono al di là della conferma dei loro orientamenti ideologici generali».
79 Cfr. G. Weulersse, La Physiocratie à l’aube de la révolution: 1781-1792, Paris, 1985, pp. 189 sgg., che ricapitola la posizione fisiocratica anche per il decennio precedente. Per quello che riguarda i circoli più avanzati dell’amministrazione regia, il deciso allontanamento dall’ipotesi del dispotismo «illuminato» o «legale» è poi davvero immediato, come dimostra l’incarico dato da Trudaine de Montigny a Morellet di confutare, alla data stessa della sua comparsa, l’opera di Mercier de la Rivière, L'ordre naturel et es-sentiel des sociétés politiques del 1767. Su questo punto cfr. il mio Per una storia del concetto di dispotismo nel '700 francese. Il manoscritto inedito dell'abbé Morellet: «Sur le Despotisme légal et contre M. de la Rivière», in Individualismo assolutismo democrazia. Atti in memoria di Anna Maria Battista, a cura di V. Dini e D. Taranto, Napoli, 1992, pp. 137 sgg.



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1787, avrebbe dovuto preludere alla costituzione di una vera e propria rappresentanza politica nazionale80.
Ma, proprio in questo punto, e cioè in quel cruciale passaggio «dal vecchio al nuovo costituzionalismo», che era stato così bene messo in luce anche nel lavoro di Nicola Matteucci del 197681, la variante francese ha avuto la possibilità, non dico di generalizzarsi, ma almeno di espandersi anche al di là del confine di quello Stato, nell’ultimo squarcio dell’antico regime. Penso alla Toscana di Leopoldo II, dove il modello di cambiamento aperto dalle riforme annonarie, articolatosi poi in una molteplicità di direzioni (dalla riforma delle comunità a quella delle amministrazioni provinciali, dalle strategie di razionalizzazione tributaria e finanziaria ai tentativi di codificazione) e culminato, addirittura, nel 1782, con l’apertura di un’innovativa prospettiva costituzionale trovava la sua matrice genetica, non nella generica influenza della cultura illuministica, come si è ancora recentemente affermato82, ma in una diversa e precisa scelta progettuale. Questa era maturata attraverso la frequentazione che i principali protagonisti della vita pubblica di quella regione (dall’abate Niccoli ad Angelo Tavanti) ebbero con la cultura politica, e non solo economica, del tardo movimento fisiocratico e, per quel tramite, con quella dei circoli più avanzati dell’amministrazione francese di fine secolo83.
5. La riscoperta di un’autonomia forte della dinamica politico-istituzionale settecentesca, nei confronti delle proposte provenienti dal mondo dei Lumi, è poi destinata, naturalmente, a ripercuotersi anche sui tradizionali paradigmi di periodizzazione di questo secolo. Giuseppe Ricuperati nel suo intervento su Le categorie di periodizzazione e il Settecento, partendo dalla crisi di scientificità del modello di storia economico-sociale, che a suo avviso
80 Su questo punto si veda il mio Istituzioni e teorie politiche nella Francia moderna, in «Studi Storici», 22, 1982, 2, pp. 330 sgg., in particolare pp. 348-353. Ma ora cfr. il saggio di K.M. Baker, Representation redefined, in Inventing thè French Revolution. Essays on French Politicai Culture in The Eighteenth Century, Cambridge, 1990, pp. 224 e sgg.
81 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino, 1976. Il volume raccoglie due saggi precedentemente apparsi nel quarto tomo della Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo. Ma su questo stesso punto, cfr. D. Richet, Elite et Despotisme, in «Annales Esc», janv.-fév. 1969, pp. 1-23.
82 Cfr. R. Pasta, Scienza, politica e rivoluzione, cit., pp. 402 sgg.
83 Cfr. rispettivamente M. Mirri, Per una ricerca sui rapporti fra «economisti» e riformatori toscani: l’abate Niccoli a Parigi, in «Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli», 1959, 2, pp. 55 sgg.; B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Milano, 1991, pp. 151 sgg. Ma cfr. anche G.M. Manetti, La costituzione inattuata. Pietro Leopoldo Granduca di Toscana: dalla riforma commutativa al progetto di costituzione, Firenze, 1992.



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toglierebbe ogni privilegio a meccanismi di periodizzazione basati sulle strutture e ad una loro pretesa oggettività, ha scelto di ritmare le scansioni cronologiche del secolo su quelle determinate dal movimento illuministico, non sottovalutando, ma assumendo coscientemente, il carattere ideologico forte e inevitabilmente rischioso di questa indicazione.
In questo modo, vengono cosi liquidati i tentativi di periodizzazione in chiave di storia economica, come quelli di Ernst Labrousse, ma anche di storia politica o delle mentalità, a tutto vantaggio di quelli elaborati dalla storiografia letteraria e paraletteraria della storia delle idee e della storia delle civilizzazioni, che permettono di estendere, se non la cronologia materiale, almeno l’eredità culturale di questo secolo «tutto illuministico», oltre la rivoluzione, la Restaurazione, l’avvento della democrazia moderna, quello dei nuovi totalitarismi, praticamente fino ai nostri giorni, seppure tra interruzioni catastrofiche di questa continuità.
Ma allo storico della politica e delle istituzioni politiche del Settecento conviene, forse, scegliere itinerari più circoscritti e strumenti magari più rozzi e artigianali, per segnare i tempi del suo campo di ricerca. Due maestri degli studi dell’età dei Lumi, come Franco Venturi e Furio Diaz, ci hanno, ad esempio, proposto una periodizzazione dell’«Illuminismo politico» che grosso modo, fatto salvo il momento d’incubazione costituito dalla «crisi della coscienza europea» sei-settecentesca, andava dall’inizio del decennio 1750 alla metà degli anni 1770.
Dopo quella data, infatti, Diaz dichiarava nel suo Filosofia e politica del 1962 formalmente chiuso il progetto politico «philosophique», sottolineando l’inadeguatezza politica dei Lumi a guidare la grande transizione della fine del secolo XVIII84 e, per il periodo successivo, arrivava a parlare, nel suo volume del 198685, di un movimento illuministico, solo contrapponendolo al più ampio e lungo «movimento dei popoli», a cui il primo avrebbe potentemente contribuito a dare origine, annullandosi però nella fisionomia di questa sua creazione. Mentre Franco Venturi, negli ultimi volumi del suo grande massiccio storiografico, constatava malinconicamente la portata di quel vero e proprio cortocircuito culturale che s’instaura tra il Settecento illuminista, l’evento rivoluzionario e il nuovo secolo86, rinunciando addirittura all’uso del termine «Illuminismo» nel suo
84 Cfr. F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino, 1962, pp. 565 sgg.
85 Cfr. Id., Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli. L’Europa tra illuminismo e rivoluzione, Bologna, 1986.
86 Per la Francia della seconda metà del XVIII secolo, Venturi affermava: «Ciò che viene attaccato è la cultura ereditata dalla generazione che va scomparendo, quell’illuminismo che si è trincerato nelle accademie, nelle case editrici, nelle logge, nei club, nei giornali e che ora pare debole, fragile, perché vive sulle proprie forze, senza.essere protetto né dal governo, che continua a diffidare degli eredi degli enciclopedisti, né dai



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più recente volume, dedicato alla Repubblica di Venezia, che si estende fino al 179787.
E una periodizzazione, questa, su cui anche lo storico politico può ampiamente concordare, ricordando, soltanto, come molto spesso al tempo della massima espansione dei Lumi non corrisponda quello della progettazione e dell’attuazione dei più autentici tentativi di cambiamento promossi dalle amministrazioni settecentesche. In Francia, ad esempio, le riforme di natura prevalentemente economica del gruppo di Gournay, sono già predisposte teoricamente e, in misura almeno significativa, realizzate alla fine del 1750, sulla scia dell’operato dell’apparato burocratico del trentennio precedente, come hanno dimostrato i lavori di Thomas Schaeper del 1980 e del 1983 e quello di Simone Meyssonier del 198988.
Nella seconda metà del decennio 1760 - nel momento più alto dell’affermazione dei Lumi - il movimento di riforma economica subisce una secca battuta d’arresto con il fallimento del progetto di riforma fiscale, di libera-
parlamenti, tradizionali nemici dei lumi, né naturalmente, dalla chiesa. I philosophes continuano ad essere isolati, anche se paiono avere nelle proprie mani tanti strumenti di affermazione e di propaganda» (cfr. Settecento riformatore. La caduta dell'antico regime [1776-1789], I, I grandi Stati dell'Occidente, Torino, 1984, p. 423). Assai pertinente il commento di Ricuperati su questo punto, secondo il quale, per questo periodo, nell’opera di Venturi «un’altra concettualizzazione periodizzante, che non nasce dalla storia delle idee, quella di Antico Regime, connessa con termini come “crisi” e “caduta”, si sovrappone a quella di Illuminismo, sia pure nella variante sottilmente depotenziata di “Settecento riformatore”» (A long journey. The Italian Historiography on Enlightenment and its politicai signifiance, cit.). Ricordiamo, in ogni caso, che la consapevolezza di una «crisi dei Lumi», nei confronti delle nuove esigenze politiche e ideali, del tardo Settecento, appare precocemente in Venturi, già in L’antichità svelata e l’idea di progresso in N.-A. Boulanger (1722-1759), Bari, 1947, p. 95. Ma su questo stesso tema, si vedano le lucide pagine di R. Ajello, L'estasi della ragione: dall'illuminismo all'idealismo. Introduzione alla «Scienza» di Filangieri, in Formalismo medievale e moderno, Napoli, 1990, pp. 39 sgg.
87 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. L'Italia dei Lumi (1764-1776), II, La Repubblica di Venezia (1767-1797), Torino, 1990.
88 Cfr. rispettivamente Th J. Schaeper, The Economy of France in thè Second Half of thè Reign of Louis XIV, Montreal, 1980; Id., The French Council of Commere: 1700-1715. A Study of Mercantilism after Colbert, Columbus, 1983; S. Meyssonier, La Balance et l'Hor-loge. La genèse de la pensée liberale en France au XVIIF siede, Paris, 1989. Tre opere, queste, che hanno ormai consegnato all’antiquariato storiografico la tesi di L. Rothkrug (Opposition to Louis XIV. The politicai and social origins of thè French Enlightenement, Princeton, N.J., 1965), che vedeva nelle ipotesi di un Fénelon, di un Bélesbat, di un Boi-sguilbert le uniche alternative liberiste al perdurante mercantilismo borbonico, nonché naturalmente le origini remote del «French Enlightenment». Ma sulla cultura economica e politica francese, tra fine del XVII e prima metà del XVIII secolo, un quadro ancora insostituibile è rappresentato dal lavoro di S. Rotta, Il pensiero francese da Bayle a Montesquieu, in Storia delle idee politiche, economiche, sociali, IV, cit., pp. 177 sgg.



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lizzazione del mercato annonario e del commercio transoceanico (anche quest’ultimo fieramente osteggiato, dal parti philosophique}^ \ per riprendere poi vigore, con l’acquisizione di obiettivi ormai dichiaratamente politico-istituzionali, e anche dopo il fallimento del ministero Turgot, nel decennio 1780.
Si tratta di una discrasia cronologica tra Lumi e riforme, che si potrebbe ritrovare anche fuori della Francia90, e che conoscerà un nuovo tornante significativo nel periodo a cavallo tra fine dell’antico regime e primo trentennio del nuovo secolo. Se infatti con la crisi politica di fine Settecento si assiste ad una vera e propria eclissi dell’eredità dei Lumi, ampiamente testimoniata dalla profonda ostilità tra uomini e idee philosophiques e uomini e idee della rivoluzione91 e poi della Restaurazione92, non è possibile parlare invece di una rottura senza soluzioni di continuità con le proposte di
89 Sulla opposizione di uomini come Diderot e Grimm, all’abolizione del privilegio esclusivo della Compagnia delle Indie, alla fine del decennio 1760 cfr. Alle origini della Francia contemporanea, cit., pp. 161 sgg. Ma sempre su questo punto si veda ora G. Dulac, Les gens de lettres, le banquier et l’opinion: Diderot et la polémique sur la Compagnie des Indes, in «Dix-huitième», 1994, 26, pp. 178 sgg.
90 Cfr. C. Mozzarelli, Riforme e controriforme, cit., pp. 395 sgg., dove viene messo a confronto il progetto di riforma fiscale e rappresentativa delle comunità realizzato, per il Milanese nel 1755, da Pompeo Neri su basi rigidamente censitarie, in alternativa alle tradizionali distinzioni giuridiche, e quello sottoscritto da Pietro Verri e Cesare Beccaria nel 1783, che restituiva di fatto il controllo dei governi locali all’antico predominio patrizio.
91 Cfr. rispettivamente A.Ch. Kors, D’HolbacEs coterie. An Enligbtenment in Paris, Princeton, 1976, e il mio Illuminismo, rivoluzione e ricerca storiografica: l’eredità di Daniel Mornet, introduzione alla traduzione italiana di D. Mornet, Le origini intellettuali della rivoluzione francese: 1715-1787, Milano, 1981, pp. XI sgg. Ma sul recupero, spesse volte solo parziale e contraddittorio, dell’eredità delle Lumières nel periodo del Direttorio e del Consolato, si veda J. Kitchin, Un Journal «philosophique»: la Dècade (1794-1807), Paris, 1965, pp. 101 sgg.
92 Ricuperati nel suo Le categorie di periodizzazione e il Settecento, cit., pp. 28 sgg., insiste, in pagine molto documentate, sulla pur cauta rivalutazione del patrimonio illuministico da parte degli uomini della Restaurazione liberale. Occorrerebbe, però, mettere in rilievo il carattere strumentale di questo recupero, molte volte funzionale solo alla lotta contro gli eccessi del nuovo «partito devoto» e ricordare, proprio sul piano politico, l’ostilità dimostrata da un Constant verso gli eredi del parti philosophique, in un testo come il Des réactions politiques del 1797, che poco o nulla ha da invidiare alle invettive di Robespierre nel suo Sur les rapports des idées religieuses et morales del maggio 1794. Cfr. rispettivamente B. Constant, Opuscules politiques, préface et notes de Ph. Raynaud, Paris, 1988, pp. 110-112; OEuvres de M. Robespierre, par M. Bouloiseau et A. Soboul, Paris, 1951-1967, X, pp. 455-456. In questo stesso contesto, è da porre la radicale avversione di Constant al progetto politico di Filangieri, su cui si veda la bella analisi di V. Frosini, Filangieri e Constant: un dialogo tra due secoli, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XII, 1983, pp. 351 sgg.



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riforma incubate, dalla prima metà del Settecento, negli ambienti più aperti della burocrazia regia, che ritroveremo finalmente operanti nei primi decenni del XIX secolo.
Al «breve XVIII secolo», tutto risolto nella congiuntura dei Lumi si dovrebbe sostituire, quindi, un «lungo XVIII secolo»93, che porterà alla costruzione, come ha dimostrato Isser Woloch in un suo lavoro del 199494, di quel «nuovo regime» istituzionale e civile, generatosi nel primo triennio della rivoluzione in Francia e che, al di là dell’episodio del Terrore95 e del dominio napoleonico, ma non senza contrarre forti debiti con il mondo delle riforme settecentesche, ritroveremo nella Restaurazione e fino alla prima metà del XIX secolo96.
Naturalmente è questa un’ipotesi non solo diversa, ma direi profondamente alternativa nei confronti di quella tradizionalmente continuistica di un Tocqueville o di un Quinet97. E questa diversità consiste proprio nel fatto che tale ipotesi non valorizza come elemento di continuità la semplice modernizzazione del centralismo burocratico dell’antico regime, promossa dalla rivoluzione giacobina e dal regime napoleonico, ma invece quegli elementi di profonda novità, nei confronti del più tradizionale dispotismo borbonico, che uno storico dell’amministrazione, come Jean Meyer, ha visto come parte integrante dell’attrezzatura mentale di un nucleo consistente dei quadri politici alto-mediani della burocrazia francese, almeno già a partire dagli anni 177098.
93 Per questa interessante proposta di periodizzazione, cfr. P. Alatri, Amministrazione e riforme nel Settecento francese, «Studi Storici», 35, 1994, 3, pp. 851 sgg., in particolare p. 857.
94 Cfr. I. Woloch, The New Regime. Transformations of thè French Civic Order: 1789-1820s, New York-London, 1994. Ma su questo punto, si veda anche M.P. Fitzsimmons, The Remaking of France. The National Assemhly witb thè Constitution of 1791, Cambridge, 1995.
95 Sul carattere «congiunturale» del Terrore nel processo rivoluzionario e più in generale almeno nella media durata della storia politico-istituzionale della Francia cfr. B. Baczko, Comment sortir de la Terreur. Thermidor et la Revolution, Paris, 1989, e ora la bella messa a punto contenuta nel volume collettivo The French Revolution and thè Crea-tion of Modem Politicai Culture, IV, The Terror, ed. by K.M. Baker, Oxford, 1994.
96 Ma sulla genesi di un modello politico costituzionale-rappresentativo tra antico regime, rivoluzione e prima metà dell’Ottocento, si vedano gli importanti risultati dei volumi d’insieme, a cura di V. I. Comparato, Modelli nella storia del pensiero politico, Firenze, 1987-1993, 3 voli. Su questo stesso punto, cfr. anche i due volumi, a cura di C. Carini, Dottrine e istituzioni della rappresentanza (1789-1848), Firenze, 1990, e La rappresentanza tra due rivoluzioni (1789-1848), Firenze, 1991.
97 Cfr. F. Furet, Rivoluzione senza Terrore?, in 11 modello politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di M.L. Salvadori e N. Tranfaglia, Firenze, 1984, in particolare, pp. 58 sgg.
98 Cfr. J. Meyer, Continuité et discontinuité de Fancien régime à la révolution, in Histoi-re comparée de l’administration: W-XVITF siècles, Actes du Colloque franco-allemand de



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Anche questa interpretazione, certamente, andrebbe verificata, in altre aree regionali, come mi sembra aver fatto Carlo Capra per la Lombardia", Ro-magnani per il Piemonte sabaudo100 e soprattutto Mario Mirri per la Toscana, in un saggio del 1990101, dove la decisa rivalutazione del riformismo leopoldino considerato in rapporto all’esperienza rivoluzionaria, porta l’autore a una proposta di periodizzazione che, sebbene lontana dall’ottica risorgimentale dei vecchi lavori dell’Anzilotti102, si protende addirittura verso le origini del processo di unificazione nazionale, e che una volta accettata porrebbe all’origine della nostra civiltà politica altri progenitori, forse meno eroici ma certo non meno nobili, degli uomini dei Lumi, in una prospettiva storiografica che, anche in questo caso, ci porterebbe a ridimensionare lo spessore politico del movimento illuministico.
6 . Un’operazione, questa, che non può non provocare, ne sono ben conscio, una dislocazione di valori, non limitabile alla sola prospettiva storiografica. Proprio Ricuperati, nel suo saggio appena ricordato, ricostruiva con partecipazione il significato eminentemente politico, che ha assunto nel nostro paese la riscoperta e la rivalutazione del mondo dei Lumi, tracciando un itinerario che andava dall’esplicito messaggio di resistenza contro la dittatura contenuto nelle pagine de II pensiero politico italiano di Salvatorelli103 all’impegno civile che ha animato ininterrottamente l’attività di Franco
Tours: 27 mars-1 avril 1977, Mùnchen, 1990, IX, pp. 58 sgg. Ma su questo stesso punto cfr. Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV, cit., in particolare pp. 335 sgg.
99 Cfr. C. Capra, Alle origini del moderatismo e del giacobinismo in Lombardia: Pietro Verri e Pietro Custodi, in «Studi Storici», 3 0, 1989, 4, pp. 873 sgg., e Id., Costituzione e proprietà in Lombardia negli anni della Rivoluzione francese, in Rivoluzione francese. La forza delle idee e la forza delle cose, a cura di H. Burstin, Milano, 1990, pp. 219 sgg.
1(1 0 Cfr. Prospero Balbo, intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), cit., in particolare, II, pp. 669 sgg. Ma sull’attività, in senso riformista, di un forte nucleo di amministratori sabaudi, negli ultimi anni del secolo, si veda anche G. Ricuperati, Il Settecento, cit., pp. 807 sgg.
101 M. Mirri, Riflessioni su Toscana e Francia, riforme e rivoluzioni, in «Annuario dell’Accademia etrusca di Cortona», XXIV, 1990, pp. 117-223, in particolare pp. 219 sgg. Il volume dell’«Annuario» raccoglie gli atti del convegno su 1789 in Toscana. La rivoluzione francese nel Granducato.
102 Cfr. A. Anzilotti, Le riforme in Toscana nella seconda metà del secolo XVIII. Il nuovo ceto dirigente e la sua preparazione intellettuale, in Movimenti e contrasti per l’unità d’Italia, Bari, 1939, pp. 36-64.
103 Come è sottolineato anche nel saggio di M. Ciliberto, Il pensiero politico, in Manuale di letteratura italiana, III, Dalla metà del Settecento all’Unità d’Italia, a cura di F. Brio-schi e C. Di Girolamo, Torino, 1995, pp. 46-47. Ma cfr. ora A. Galante Garrone, L’illuminista» Salvatorelli, in «Nuova antologia», gennaio-marzo 1995, pp. 68-70.



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Venturi «storico e militante»104 che, nel 1969, dedicava significativamente il primo volume della sua grande opera a «chiunque, in qualsiasi momento e circostanza, ha tentato di riformare qualche cosa nel nostro paese»105.
Il vero e proprio momento genetico di questo movimento ideale era costituito però, è ancora Ricuperati a ricordarlo, dairarticolo di Pietro Gobetti, Illuminismo, apparso su «Il Baretti» del dicembre 1924, dove si poteva leggere un fermo, rigoroso e del tutto laico appello a «salvare la dignità, prima che la genialità, per ristabilire un tono decoroso e consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni», a «lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo»106, da opporre all’avanzata, ormai incontenibile, della pochezza, dell’approssimazione, del municipalismo della cultura del regime.
Eppure, mi sembra che questo messaggio debba essere meglio contestualizzato, per coglierne fino in fondo il suo autentico significato. Il termine «illuminismo» ritorna infatti a più riprese, nel lessico di Gobetti in questo periodo, in un senso che prevalentemente, con poche eccezioni107, è sinonimo di mancata adesione alle ragioni effettuali della politica. Cosi accade nella sua polemica con Salvatorelli, ad esempio, e più esplicitamente anco? ra in quella che lo opporrà a Giustino Arpesani, a cui si rimproverava una «visione primitiva» della democrazia, dove «la politica è pensata come un problema di illuminismo, di adesione ai dogmi specifici, tutto l’imprevisto della realtà esaurendosi nella preparazione ideologica e nelle premesse di fede» e dove «il mondo della pratica non sarebbe nulla di diverso [...] da un mondo intellettuale concepito rigidamente, con idee chiare e distinte, senza dialettica, senza sfumature»108.
In questo contesto, allora, l’appello ai valori illuministici dell’articolo del 1924 assumeva il suo vero significato, unicamente di fronte ad una situa-
104 Cfr. A. Galante Garrone-L. Guerci, Franco Venturi storico e militante, ivi, pp. 153-157.
105 Cfr. Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria: 1730-1764, cit., p. XIX. Difficile non trovare una forte assonanza tra queste parole di Venturi e quelle con cui Croce concludeva la sua Storia del Regno di Napoli, cit., p. 255: «Ricercando la tradizione politica dell’Italia meridionale, ho trovato che la sola cosa di cui essa possa trarre vanto è appunto quella che mette a capo degli uomini di dottrina e di pensiero, i quali compirono quanto di bene si fece in questo paese [...]». Ma per la stessa sottolineatura del nesso tra lavoro storiografico e impegno civile, si veda F. Diaz, I filosofi e il potere: a guisa di premessa, in Storiografia illuministica, cit., pp. 7 sgg.
106 Cfr. Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Milano, p. 618.
107 La tirannide, in «Rivoluzione liberale», I, 1922: «Prepariamo i quadri, prepariamo le correnti ideali. Mentre gli scimmiotti della setta gentilesca pensano ad arraffare cattedre, per noi il problema è tutto qui: di riuscire ad essere i nuovi illuministi di un nuovo ’89» (Le riviste di Piero Gobetti, cit., p. 289).
108 Elogio della ghigliottina, in «Rivoluzione liberale», I, 1922 (Le riviste di Piero Gobetti, cit., p. 291).



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zione di blocco della politica, verso cui il regime stava rapidamente precipitando il paese e dove, almeno provvisoriamente, era possibile la sola resistenza privata e morale delle coscienze. Ma, prima e dopo questo momento di forzato ripiegamento, ben altri erano stati gli insegnamenti politici, che Gobetti era andato riscoprendo nelle pagine di «Rivoluzione liberale». La virtuosa ripresa della tradizione di Machiavelli operata dal Croce «politico» e «oppositore»109, in primo luogo, e poi il profondo plusvalore politico che risultava dalla lezione del Marx storico e teorico della lotta di classe110. Due maestri che, ancora adesso, insieme a molti altri, segnano il tempo della nostra politica, che vive in quella ormai fisiologica dimensione di antagonismo latente o dispiegato, di precarie e provvisorie soluzioni pattizie, che l’eredità dell’Illuminismo per i suoi limiti intrinseci, ieri come oggi, non è in grado di dominare per intero.
Ma la novità inquietante di questa nuovissima dimensione della vita associata, d’altra parte, sfugge anche, in buona misura, al paradigma di una visione della storia e della politica, tutt’interna al meccanismo del mero gioco istituzionale, che proprio il Settecento delle burocrazie e delle amministrazioni riformatrici ha consegnato al nostro tempo e che, ora più che mai, non sembra reggere al confronto di un mondo sempre più complesso, proprio perché sempre più moderno. Eppure se il XVIII secolo ci appare, ogni giorno maggiormente, per dirla con Koselleck, il luogo genetico della «modernità»111, il mestiere di analista del passato non può certo rinunciare, proprio per questo periodo, a quel «bisogno pratico» che «conferisce a ogni storia il carattere di storia contemporanea»112.
109 Croce oppositore, in «Rivoluzione liberale», IV, 1925: «Croce si è accontentato di rendere esplicita (in sede rigorosamente speculativa) la teoria della politica che si poteva cogliere già nella Filosofia della pratica e nel Materialismo storico. La politica riguarda le azioni utili: e l’utile non è il morale, ma non è neanche il semplice egoismo; quindi bisogna rivendicare contro tutti gli accusatori della politica, come cosa immorale e da riservarsi alle persone di poco scrupolo, il carattere spirituale e decisamente pregevole dell’azione politica: il Croce non si lascia sfuggire una bella occasione per canzonare e confutare gli astrattisti e gli ipocriti del moralismo» (Le riviste di Piero Gobetti, cit., pp. 435-436).
110 L'ora di Marx, in «Rivoluzione liberale», III, 1924: «In Marx mi seduce lo storico (gli studi sulle lotte di classe in Francia) e l’apostolo del movimento operaio. L’economista è morto, con il plus-valore, con il sogno della abolizione delle classi, con la profezia del collettivismo [...] ma la teoria della lotta di classe è uno strumento acquisito per sempre alla scienza sociale [...]» (Le riviste di Piero Gobetti, cit., p. 206).
111 R. Koselleck, Il secolo XVIII come inizio dell'età moderna, in «Studi settecenteschi», 3-4, 1982-1983, pp. 9 sgg.
112 Cfr. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, 197 88, p. 11. Ma sulla riproposta recente del valore pragmatico della storiografia, in contesti ideologici davvero



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Questo obiettivo, infatti, dovrà essere perseguito anche a costo di dover intraprendere una goethiana discesa nel «regno delle madri», oltre le categorie storiografiche più consolidate, alla ricerca di «altri Lumi, di altro Settecento», come ricordava ancora Ricuperati113, e di una nuova fisionomia della politica, vorrei aggiungere, che proprio in quel secolo cominciò a prendere forma, in una versione sempre più radicalmente pubblica, sempre più interna alle ragioni ma anche alle contraddizioni della società.
E una direzione di ricerca, questa, che viene emergendo con forza, nel nuovo panorama storiografico, necessariamente, forse, in maniera ancora confusa e contraddittoria, ma anche con una grande ricchezza di spunti e di suggestioni, come accade, ad esempio, nel volume di Vincenzo Ferrone, 1 profeti dell'Illuminismo114. E, in questa prospettiva, allora, la dimensione pragmatica della «circolazione delle idee», proposta da Franco Venturi come oggetto privilegiato di studio del XVIII secolo, può ritrovare tutta la sua importanza, seppure non più il suo carattere egemonico, ma a patto di saper riscontrare in essa proprio la scomparsa del messaggio dell’«Illumi-nismo politico» in quanto tale, almeno in quella dimensione alta, aristocratica, che era stata indagata in Settecento riformatore.
Studi recenti e meno recenti dell’ultimo decennio ci hanno infatti indicato nelle logge massoniche, nelle accademie di provincia, nelle libere società intellettuali, nelle stesse spontanee forme di associazione della cultura popolare i luoghi dove, nell’ultimo scorcio dell’antico regime, si andrà verificando, nell’intera Europa, una profonda deriva semantica, nei confronti del significato originale dei testi politici cardinali di quel periodo (da Locke a Montesquieu a Rousseau)115. Questo fenomeno porterà ad una vera e propria degradazione dei valori teorici più elevati della cultura politica settecentesca, determinata dallo stesso ampliamento del suo originale bacino di utenza, e alla costituzione di un promiscuo amalgama linguistico, che Da-
molto diversi da quello di Croce, cfr. rispettivamente R. Villari, Il posto della storia, in «Studi Storici», 23, 1982, 2, pp. 325 sgg., e L. Canfora, Analogia e Storia. L’uso politico dei paradigmi storici, Milano, 1982.
113 Cfr. Le categorie di periodizzazione e il Settecento, cit., p. 93. Il riferimento è al volume di EJ. Mannucci, Gli altri Lumi. Esoterismo e politica nel Settecento francese, Palermo, 1988.
114 Cfr. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, cit., soprattutto pp. 3 sgg., per il nuovo indirizzo d’indagine sviluppato nel volume. Tra le altre opere, diverse in ogni caso, non solo per le metodologie ma per lo stesso valore dei risultati, che sembrano meglio indicare questi nuovi confini del ricordiamo, almeno, il volume d’insieme, a cura di H. Eckart, The Transformations of Politicai Culture. England and Germany in thè Late Eighteenth Century, London, 1990, e A. Farge, Les mots sub-versifs. L’opinion publique dans la France du XVILF siede, Paris, 1993.
115 Su questo punto cfr. la non del tutto convincente ricerca di D. Goodman, Criticism in Action. Enlightenment Experiments in Politicai Writing, New York, 1989.



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niel Roche ha attentamente indagato116, e di cui un altro studioso, Dale Van Kley, ha analizzato, sempre per la Francia, le diverse e spesso contrastanti componenti, che vanno dal lessico roussoviano, a quello philosophique, a quello derivato dal movimento giansenista, alle stesse rivendicazioni politiche dei parlamenti117, alla riesumazione, infine, del vecchio radicalismo politico libertino, da parte degli epigoni attardati del movimento delle Lumières118 e dei nuovi esponenti della «baisse littérature» della fine del secolo119.
Ed è in questo insieme ideologico, caotico e contraddittorio, che Roger Chartier ha voluto ritrovare per intero le origini intellettuali della rivoluzione francese e Margaret Candee Jacob addirittura le origini del moderno pensiero politico120. Si tratta, in ambedue i casi, della proposta di un itinerario storiografico, che si prefigge di rintracciare gli elementi di una nuova coscienza politica, di un inedito «discorso civico», alternativi a quelli elaborati nelle istituzioni di governo formali e nella tradizionale riflessione teorica, ma che finisce, molto spesso, almeno per quello che riguarda i risultati ottenuti dalla Jacob, solo per invertire nel giudizio di valore, senza modificare nell’essenziale, le vecchie tesi dell’abhé Barruel e di Augustin Cochin121.
116 Cfr. D. Roche, Académies et politique au siede des lumières: les enjeux pratiques de l’immortalité, in The French Revolution and thè Creation of Modem Politicai Culture, I, The Politicai Culture of thè Old Regime, ed. by K.M. Baker, Oxford, 1987, pp. 331 sgg. Ma di Roche si ricordi, naturalmente, anche Le siede des Lumières en province. Acadé-mies et académiciens provinciaux: 1680-1789, La Haye, 1978, 2 voli.
H/ Cfr. The ]ansenist Constitutional Legacy in thè French Prerevolution, in The French Revolution and thè Creation of Modem Politicai Culture, cit., pp. 180 sgg. Ma di questo autore, occorre ricordare i due splendidi volumi: The Jansenists and thè expulsion of thè Jesuits from France, 1756-1757, New Haven, 1975; The Damiens affair and thè unrave-ling of thè Ancien Regime, 1750-1770, Princeton (N.J.), 1984.
118 Su questo punto, si veda il mio Tra Illuminismo, anti-Illuminismo e Illuminismo radicale: il tema dell"«Impostura delle leggi» nella Francia del Settecento, in Ragioni dell’an-ti-llluminismo, cit., pp. 127 sgg.
119 Cfr. D. Roche, Les répuhlicains des lettres, in Gens de culture et lumières au XVIIF siècle, Paris, 1988, pp. 7 sgg.; R. Darnton, Edition et sédition. L’univers de la littérature clandestine au XVIIF siècle, Paris, 1991.
120 Cfr. rispettivamente R. Chartier, Le origini culturali della rivoluzione francese, Roma-Bari, 1991, e M. Candee Jacob, Massoneria illuminata. Politica e cultura nell’Europa del Settecento, Torino, 1995. Sul volume di Chartier si veda la dura critica, non interamente condivisibile, di P. Casini, Il metodo di Foucault e le origini della Rivoluzione francese, in «Rivista di filosofia», 1992, 83, pp. 411-425.
121 Paradigmatica, a questo proposito, è la frase con cui la Jacob chiude il suo volume: «Invece di ridurre l’illuminismo al pensiero politico di Voltaire. Gibbon e lo stesso Rousseau, o peggio ancora di ritenerlo incapace di esprimere una politica, possiamo vantaggiosamente guardare alle logge per osservare la nascente modernità politica. Nelle logge confluirono e si mescolarono il discorso civico e illuminato; antiche parole come fratel-


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Contro le ipotesi del Furet di Penser la Revolution fiangaise e del Kosel-leck di Kritik und Krise, che avevano indicato nel mondo dell’associazionismo culturale e politico tardo-settecentesco le radici della «democrazia totalitaria» del periodo rivoluzionario122, la Jacob infatti continua a valorizzare, nel discorso massonico della fine del secolo, solo la presenza di messaggi, tanto generici quanto poco significativi proprio sul piano politico, quali la rigenerazione, il perfezionamento, la liberazione, la felicità del genere umano, l’uguaglianza formale dei suoi membri, ritornando a ripetere, forse inconsapevolmente, i vecchi e poco convincenti argomenti del libro di Daniel Mornet del 1933, sulle «origini intellettuali» della rivoluzione in Francia123.
Sfugge, in questo modo, completamente alla Jacob il carattere radicalmente settario del mondo massonico e paramassonico di questo periodo, che è stato recentemente messo in luce, invece, nel volume di Giuseppe Giarriz-zo su massoneria e Illuminismo nel Settecento, dove si sottolinea la progressiva e inarrestabile trasformazione dell’associazionismo delle logge, già a partire dalla fine del decennio 1770, in una struttura cospirativo-terrori-stica legata al segreto, al giuramento di fedeltà dei membri, alla tecnica del colpo di Stato, alla manipolazione della pubblica opinione124.
Questa dimensione settaria della politica, assolutamente incompatibile con quella democratico-rappresentativa a cui almeno il primo biennio della rivoluzione tenterà di dare concretezza istituzionale125, costituirà, poi, il lega-
lanza e uguaglianza acquisirono nuovo significato, col quale, nel 1789, l’intero Occidente si fraternizzò in breve tempo. Forse, a questo punto, siamo in grado di capire meglio perché gli oppositori della rivoluzione francese ritenessero di sapere su quale nemico, tra i molti avversari “illuminati”, far ricadere con certezza la colpa dell’accaduto» (op. cit., p. 377).
122 Per la polemica contro questi due autori, da parte della Jacob cfr. ivi, pp. 20-24, 2628.
123 Su questo punto, cfr. Illuminismo, rivoluzione e ricerca storiografica: l'eredità di Daniel Mornet, in particolare pp. XXIII sgg. La banalità degli argomenti utilizzati allora da Mornet e ripetuti ora dalla Jacob per definire i contenuti della «politica massonica» giustificherebbero, se accettati, il giudizio del saggio di Croce del 1911, Contro la cultura massonica. Cfr. Cultura e vita morale, Bari, 1915, pp. 145 sgg.
124 Cfr. G. Giarrizzo, Massoneria e illuminismo nell'Europa del Settecento, Venezia, 1994, in particolare pp. 214-215; 240-241; 315-316; 330-331; 383 sgg.
125 Estremamente interessante, a questo proposito, è la testimonianza di André Chénier, nel 1791, contro l’attività del Cercle Social, un gruppo girondino, d’ispirazione massonica, attivo in quegli anni a Parigi: «J’aurais voulu trouver l’occasion de dire un mot de ces politiques illuminés, de ces Rose-croix patriotes, qui [...] préchent la liberté et l’é-galité comme le mystère d’Eleusis ou d’Ephèse, traduisent la Déclaration de droits de l’homme en doctrine occulte et en jargon mythologique, et changent les législateurs en obscurs hiérophantes. Ceux-là pourraient n’étre que ridicules, si pourtant il n’était pas


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to più imponente, da un punto di vista ideologico e organizzativo, che la massoneria tardo-settecentesca lascerà al prossimo futuro, già a partire da Babeuf, dall’attività dei patrioti «anarchistes» del Triennio giacobino in Italia126 e, poi, in quella sovversiva e cospirativa di tanti movimenti politici del secolo XIX.
Proprio nel dispiegarsi di questa dimensione, in ogni caso, continua Giar-rizzo, il divorzio tra Lumi e mondo massonico si farà radicale e non sanabile, sebbene ci sia da domandarsi se lo stesso «Illuminismo politico» non contenesse già in nuce questa degenerazione dei modi di intendere la conquista e l’organizzazione del potere. Quest’affinità non mi sembra, certo, riscontrabile nei tentativi di Voltaire e poi di d’Holbach di fornire una più organica struttura organizzativa alle proprie coteries, ricalcando quella delle società segrete massoniche127. Essa si fa evidente, piuttosto, nell’atteggiamento mentale degli uomini dei Lumi, costituzionalmente predisposto ad additare nei propri antagonisti non degli avversari formalmente riconosciuti, proprio sul piano politico, nei confronti dei quali è quindi sempre possibile ipotizzare una soluzione pattizia, ma dei nemici (si pensi solo ai casi Rousseau e Linguet)128, da condannare e possibilmente da distruggere, anche se sul solo piano morale, in vista dell’imprescrittibilità di un obbligo etico, che tiene unicamente conto del rapporto degli individui con il mondo dei fini, e dove, facilmente, «il disconoscimento dell’inimicizia reale può aprire la strada all’opera di annientamento di quella assoluta»129.
toujours prudent de se méfier de ces gens à qui la franche et simple verité ne suffit pas [...] et qui ont plus de plaisir à voir une agrégation d’initiés fanatiques qu’une vaste so-ciété d’hommes libres, tranquilles et sages» (Sur l'esprit de Parti, in A. Chénier, OEuvres en prose, Nouvelle édition revue sur les textes originaux par L. Bec de Fouquières, Paris, 1872, p. 61).
126 Su questo punto si ricordi il classico lavoro di G. Vaccarino, I giacobini piemontesi (1794-1814), Roma, 1989, 2 voli.
127 Tentativi, questi, che Giarrizzo non sopravvaluta, ma che mette giustamente in luce. Cfr. Massoneria e illuminismo nell'Europa del Settecento, cit., pp. 159-160.
128 Sul «complotto dei Lumi» contro Rousseau, e sulla sua risonanza nel mondo intellettuale europeo, si veda la lettera di Alessandro a Pietro Verri del 25 ottobre 1766, dove si parla esplicitamente di «spirito di congiura» contro il filosofo ginevrino. Cfr. Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Ga-spari, Milano, 1980, n. XV. Ma su questo episodio, cfr. ora la bella messa a punto di D. Goodman, The Hume-Rousseau affair: from private querelle to public procès, in «Ei-ghteenth-Century Studies», 1991, 1, pp. 171 sgg. Sul caso Linguet, si veda ora l’equilibrata ricostruzione di D. Baruch, Linguet ou ITrrécupérable, Paris, 1991, in particolare, PP- 229 sgg.
129 Cfr. Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico, cit., p. 75.