-
Title
-
RAPPRESENTAZIONE DELLA PRATICA, PRATICA DELLA RAPPRESENTAZIONE
-
Creator
-
Roger Chartier
-
Date Issued
-
1996-08-01
-
Is Part Of
-
Quaderni Storici
-
volume
-
31
-
issue
-
92
-
page start
-
487
-
page end
-
493
-
Publisher
-
Società editrice Il Mulino S.p.A.
-
Language
-
ita
-
Format
-
pdf
-
Relation
-
L'Impossible prison: recherches sur le système pénitentiaire au XIXe siècle. France: Seuil, 1980.
-
Rights
-
Quaderni storici © 1996 Società editrice Il Mulino S.p.A.
-
Source
-
https://web.archive.org/web/20231101212938/https://www.jstor.org/stable/43778907?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1996%26ed%3D1996%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A8d29791b028a2189657f8b4e206c4b83
-
Subject
-
discipline
-
surveillance
-
confinement
-
non-discursive pratices
-
extracted text
-
RAPPRESENTAZIONE DELLA PRATICA, PRATICA DELLA RAPPRESENTAZIONE
Nel suo articolo Percorsi della pratica 1966-1995 (in «Quaderni storici», XXX (1995), pp. 799-829) Angelo Torre mi muove critiche malfondate e pretestuose.
1. H rimprovero di «idealismo» che mi viene rivolto (p. 811) non mancherà di stupire tutti coloro che, al contrario, criticano la mia posizione per il suo eccessivo «sociologismo», soprattutto là dove essa mira a inscrivere (troppo direttamente, si ritiene) le produzioni discorsive all’interno delle costrizioni oggettive che, insieme, le limitano e le rendono possibili. Contro le formulazioni del linguistic tum che considerano le realtà sociali come puri giochi linguistici, ho affermato la differenza irriducibile fra le pratiche che costruiscono i rapporti sociali e quelle che governano la produzione dei discorsi. Contro la proposta di un «ritorno alla politica» che separa la parte riflessa dell’azione da ogni determinazione sociale, ho ricordato che gli individui sono costantemente legati da relazioni reciproche: percepite o no, esse delimitano (con forza maggiore o minore a seconda della posizione) ciò che è possibile pensare, dire e fare1. Queste posizioni sono discutibili (e discusse) ma caratterizzarle come «idealistiche» non mi sembra affatto ragionevole.
2. Secondo Angelo Torre, l’accento che il mio lavoro pone sullo studio delle rappresentazioni avrebbe reso ai miei occhi «superfluo lo studio del mondo reale» (p. 808). Le rappresentazioni che fondano le percezioni e i giudizi che governano i modi di dire e di fare non sarebbero dunque tanto «reali» quanto i processi, i comportamenti, i conflitti «concreti» che egli pretende di osservare «concretamente». L’insistenza posta sul «concreto» (opposto alla pretesa astrazione della rappresentazione) è preoccupante. Ricordandosi di Foucault, il lettore è indotto a chiedersi se Angelo Torre non abbia, come troppi storici, una «idea ben riduttiva del
QUADERNI STORICI 92 / a. XXXI, n. 2, agosto 1996
488
Roger Chartier
reale», che si identificherebbe con le sole situazioni locali e «concrete». Scriveva Foucault: «Il “reale” che si potrebbe raggiungere a condizione di parlare di tutte o di determinate cose più “reali” di altre, e che si perderebbe di vista se ci si limitasse a far apparire altri elementi e altre relazioni (...), non esiste. Un tipo di razionalità, un modo di pensare, un programma, una tecnica, un insieme di sforzi razionali e coordinati, di obiettivi definiti e perseguiti, strumenti per conseguirli, ecc., tutto ciò fa parte del reale, anche se non pretende di esaurire “la realtà” stessa né la società intera»2. Questo ammonimento dovrebbe bastare a sgombrare la discussione intellettuale dalle false opposizioni (come quella istituita da Angelo Torre) che ancora la ostacolano.
3. La colpa di cui il mio approccio si sarebbe macchiato è quella «di una storia che sussuma le pratiche all’interno delle rappresentazioni, e che rinunci all’incrocio delle fonti documentarie». Peccato mortale, evidentemente, per il mio critico. Ma l’ho davvero commesso? Tutte le ricerche che ho condotto sulle pratiche culturali partono, in effetti, dalla constatazione in base alla quale le pratiche individuate, in modi svariati, dalle rappresentazioni sono sempre irriducibili ai discorsi che le descrivono, le regolano, le prescrivono o le proscrivono. Esse non sono, dunque, né «sussunte» né assorbite dalle rappresentazioni che le designano.
La questione che resta aperta è questa: come può lo storico mettere a fuoco pratiche mute, che si esprimono in una logica diversa da quella dei discorsi, di qualunque genere, che le rendono leggibili? Nel suo commento a Sorvegliare e punire, Michel de Cer-teau segnalava la tensione (e il rischio) presente in ogni tentativo di dare un senso all’effettuazione delle pratiche: «Quando, invece di essere un discorso sui discorsi che l’hanno preceduta, la teoria si avventura in ambiti non verbali o pre-verbali, in cui le pratiche non sono accompagnate da discorsi, sorgono problemi. Il cambiamento è brusco e il fondamento offerto dal linguaggio, di solito tanto sicuro, viene allora a mancare. L’operazione teorica si trova ben presto all’estremità del suo terreno normale, come un’auto giunta al bordo di una scogliera. Al di là non c’è che il mare. Foucault lavora al bordo della scogliera, e cerca di inventare un discorso con cui affrontare le pratiche non discorsive»3.
Ogni storia delle pratiche lavora necessariamente al bordo di questa scogliera. Angelo Torre, nel comportarsi come se fosse possibile evitare questa scomoda posizione, ci incuriosisce. Pensa forse che fra tutte le fonti che lo storico deve incrociare alcune sfuggano al registro della rappresentazione e permettano un’osservazione
489
«concreta» dei comportamenti «concreti»? Se è così, quali fonti godono di un’immediatezza documentaria tale da consentire «lo studio del mondo reale» senza la mediazione dello «studio delle rappresentazioni»?
Le ultime pagine del suo articolo, in cui egli si preoccupa, richiamandosi ad Alain Cottereau, di distinguere tra le «situazioni» e le loro «trascrizioni», sembrano scartare una simile possibilità. Esse sottolineano la distanza e gli scarti sempre presenti fra il documento, qualunque esso sia, e la «realtà» che esso costruisce registrandola. Non si può che sottoscrivere tale affermazione. Ma perché lanciare, allora, i più tremendi fulmini epistemologici sul mio lavoro che tratta in maniera analoga i rapporti fra rappresentazioni e pratiche?
Prendiamo l’esempio delle pratiche di lettura. Per me la loro storia è possibile unicamente se si cerca di articolare la rappresentazione della pratica e la pratica della rappresentazione. Vale a dire, nessuna delle serie documentarie che è necessario utilizzare per questa storia può vantare relazioni immediate e trasparenti con le pratiche che designa. In ognuna, la rappresentazione delle pratiche possiede giustificazioni, codici, finalità, destinatari particolari. Identificarli è una condizione obbligata per accostarsi ai modi di fare che costituiscono l’oggetto del loro discorso. Non mi pare che ci si possa sottrarre a questa via obbligata e tutte le dicotomie care ad Angelo Torre (fra «rappresentazioni» e «mondo reale», fra lo studio dei testi e le «osservazioni concrete») non spostano il problema.
Vorrei cercare di spiegarmi. Questa posizione metodologica non significa affatto ai miei occhi la riduzione, e meno ancora l’annullamento della «formalità delle pratiche» (per dirla con Michel de Certeau) nei discorsi e nelle rappresentazioni che, insieme, le indicano e le eludono. Essa non implica neppure una rinuncia a inscrivere nel sociale gli schemi di percezione e di valutazione che costituiscono le matrici dei modi di dire e di fare - o di ciò che, in più luoghi, ho designato con il termine di «appropriazione»4.
4. Per mostrare che nel mio lavoro «la matrice delle appropriazioni differenziate non è affatto esplorata», Angelo Torre prende come esempio lo studio da me dedicato al racconto di un miracolo cinquecentesco pubblicato su due diversi libretti (appartenenti al genere degli occasionnels) che raccontano con numerose varianti la «stessa storia». Il rimprovero più grave che mi viene rivolto, in un commento che mi pare un controsenso rispetto al mio saggio, è di non aver prestato alcuna attenzione alla «situazione che ha
490
consentito l’elaborazione specifica di uno schema già noto» (p. 810). Si suppone che per me «la situazione in cui si produce un messaggio non entra nel novero degli elementi che ne determinano il significato o i significati» (pp. 810-811). Come si vede, «situazione» è un altro dei termini preferiti da Angelo Torre. Ma di quale «situazione» si parla qui? Il mio censore pensa davvero che sia possibile, pur adoperando tutte le risorse del «realismo documentario» che egli perora ardentemente, di identificare gli autori, i committenti o le circostanze della scrittura e della pubblicazione di due libretti, uno dei quali, quello del 1588, porta indicazioni tipografiche più che dubbie? Per parte mia, credo di essermi avvicinato al modello di comprensione che si auspica: ho cercato di ricostruire i significati particolari, politici e religiosi, di cui poteva essere investita fra 1588 e 1589 una storia che riprendeva e deformava motivi antichi. E senz’altro possibile fare di più e meglio. Ma mi pare profondamente sbagliato dire che nella mia analisi «il fatto che nell’occasionale studiato si parli di un miracolo nell’ultima fase delle guerre di religione non costituisce un elemento capace di indirizzare l’analisi, anzi non costituisce neppure l’oggetto di un’analisi di qualche genere» (p. 810).
Non ho mai pensato che il genere insieme discorsivo ed editoriale nel quale si esprimeva la storia dell’impiccata miracolosamente salvata ne definisse in anticipo il significato. Al contrario. La mia analisi, con la prudenza richiesta dall’assenza di qualsiasi traccia delle letture di cui i due occasionali furono l’oggetto, si sforza di reperire le diverse tradizioni testuali o culturali (l’agiografia, il racconto, il sermone, ecc.) a partire dalle quali essi potevano venire compresi. Ciò detto, è evidente che era nelle mie intenzioni ricordare agli storici del «locale», del «concreto» e delle «situazioni» che i testi che essi manipolano sono inscritti in sistemi di convenzioni di lunga durata che governano la loro produzione come la loro appropriazione. La disinvoltura con la quale Angelo Torre considera gli apporti dello studio bibliografico e «letterario» (il termine è suo) dei due occasionali dimostra che non si trattava di un ammonimento inutile...
5. Vorrei anche calmare (se ne sono capace) l’inquietudine che l’ha assalito di fronte a ciò che egli ritiene un pericoloso arretramento della mia prospettiva critica. Egli ricorda come da molto tempo io metta in guardia dall’ingenuità di certe interpretazioni storiche dimentiche di come ogni documento, anche il più «oggettivo», porti sempre i segni delle sue condizioni di produzione e delle rappresentazioni dei suoi produttori. Aggiunge poi: «Con gli
491
anni ottanta il materiale-documento risulta totalmente appiattito sulla dimensione del “testo”» (p. 811). «Totalmente» e «appiattito» mi paiono troppo. Nulla mi è più estraneo dell’idea in base alla quale le determinazioni che presiedono alla produzione dei testi avrebbero «una matrice puramente retorica» (p. 812). Le critiche che ho rivolto alla posizione di Hayden White, così come del resto il mio lavoro su Molière, e più in generale sulle costrizioni cui soggiacciono la scrittura e l’editoria nell’età del mecenatismo monarchico5, avrebbero dovuto indicare ad Angelo Torre che egli mi muoveva anche su questo punto una critica malfondata.
6. È evidente che la storia che pratica Angelo Torre non è la mia. Non ci occupiamo degli stessi oggetti, non usiamo le stesse categorie, non abbiamo le stesse preoccupazioni. Questa non è tuttavia una ragione sufficiente per stigmatizzare come una «involuzione» (p. 811) un itinerario di ricerca che egli giudica secondo il metro dei propri interessi (che non possiamo ritenere universali).
L’ambito verso il quale ho indirizzato le mie ricerche in questi ultimi anni tenta di articolare la storia dei testi, quello dei supporti della loro circolazione, e quello della loro ricezione e interpretazione. Questa convergenza di approcci generalmente separati si propone un obiettivo fondamentale: comprendere come le appropriazioni creative di singoli lettori (o uditori) siano sempre inscritte in un insieme di costrizioni che le indirizza e le guida. Queste costrizioni sono molteplici e di ordine differente. Sono il risultato degli effetti di significato cui i testi mirano attraverso i dispositivi stessi della loro scrittura, dei limiti imposti alle appropriazioni possibili dalle forme della loro trasmissione, o dalle competenze e convenzioni che caratterizzano ogni «comunità di interpretazione» (per riprendere l’espressione di Stanley Fish). Non si tratta dunque in alcun modo di abbandonare una storia delle pratiche (di scrittura, di pubblicazione, di lettura, ecc.) a vantaggio di un’altra, che non avrebbe per oggetto che le rappresentazioni. Al contrario, il proposito è di analizzare le rappresentazioni (oggettivate o interiorizzate, «letterarie» o ordinarie) in quanto matrici e tracce di queste pratiche. fi compito non è facile e chi vi si cimenta rischia di precipitare al fondo della scogliera... Ma non vi è in questo, mi pare, né rinuncia né «involuzione»; piuttosto lo sforzo di rendere operativa - in un ambito di ricerca specifico - l’ipotesi di articolazione teorica e metodologica fra pratiche rappresentazioni e appropriazioni, che ho avanzato.
7. Secondo Angelo Torre la mia definizione del concetto di
492
rappresentazione sarebbe avulsa dai «comportamenti concreti e concretamente osservati». E il caso di ricordare, di fronte a una lettura tanto affrettata, i tre registri di esperienza e di realtà che questa nozione (di rappresentazione) permette di mettere in relazione? Da una parte, essa designa le rappresentazioni collettive che organizzano gli schemi di percezione e di valutazione a partire dai quali gli individui classificano, giudicano e agiscono. D’altra parte, indica le forme di esibizione dell’identità sociale attraverso segni e pratiche simboliche. Infine, indica la delega a un «rappresentante» (individuo singolo, corpo collettivo, istanza astratta) della continuità e della stabilità delle identità collettive. Pensata con queste categorie, la storia della costruzione delle relazioni e delle identità sociali diventa una storia dei rapporti di forza simbolica. Essa definisce la costruzione del mondo sociale come risultante dell’efficacia (o dell’inefficacia) del lavoro simbolico che i gruppi effettuano su se stessi (e sugli altri) per trasformare le proprietà sociali comuni ai propri membri in una relazione di appartenenza percepita, esibita e riconosciuta (o negata). Essa comprende la dominazione simbolica come un processo attraverso il quale i dominati accettano o rifiutano le identità imposte che mirano ad assicurare e perpetuare il loro assoggettamento. Essa inscrive nel processo di lunga durata di limitazione della violenza e delle pulsioni, così come lo descrive Elias, l’importanza crescente assunta, fra XVI e XVIII secolo, da conflitti che hanno come posta in gioco e come strumento le forme simboliche e la loro utilizzazione.
In questa prospettiva teorica, ripresa qui a grandi linee, mi stupisco che Angelo Torre possa individuare un oscuramento dei «comportamenti concreti». Al contrario, questi sono presenti ovunque: nelle azioni che derivano dagli schemi di percezione e di giudizio, nelle pratiche simboliche che esprimono le identità, nei processi di delega che nominano i rappresentanti. Certo, è possibile che si preferiscano altre vie per comprendere la costruzione del mondo sociale. Quella che egli suggerisce alla fine del suo articolo è del tutto condivisibile e utile, anche se, con l’accento sul-l’«interazione concreta», sulle «situazioni in cui si fenomeni sociali si producono e si manifestano», sul «valore intrinseco dell’azione», essa corre il rischio, a sua volta «idealistico», di ignorare le interdipendenze, le determinazioni e i modelli che delimitano lo spazio dei pensieri e dei comportamenti possibili per ogni comunità e ogni individuo.
Questa prospettiva di ricerca manca a tal punto di sicurezza da doversi presentare e legittimare attraverso la critica tanto infondata
493
quanto brutale di altre posizioni metodologiche? Ai lettori di «Quaderni storici» il compito di decidere.
Centre de Recherches Historiques, EHESS, Paris
Note al testo
1 Ho sviluppato questa doppia critica in L’histoire entre récit et connaissance, in «MLN», 109 (1994), pp. 583-600 e nella mia raccolta di articoli On thè Edge of thè Cliff. History, Language, Practices in corso di stampa presso The Johns Hopkins University Press.
2 M. Foucault, La poussière et le nuage, in L’impossible prison. Recherches sur le systèrne pénitentiaire au XlXe siècle réunies par Michette Perrot. Débat avec Michel Foucault, Paris 1980 pp. 34-35.
3 M. de Certeau, Microtechniques et discours panoptique: un quiproquo, in de Certeau, Histoire et psychanalyse entre Science et fiction, a cura di L. Giard, Paris 1987, p. 44.
4 R. Chartier, Le monde comme représentation, in «Annales ESC», 1989, pp. 1505-
1520.
5 R. Chartier, Quatre questions à Hayden White, in «Storia della Storiografia», 24 (1993), pp. 133-142; Georges Dandin ou le social en représentation, in «Annales ESC», 2 (1994), pp. 277-309; Forms and Meanings. Texts, Performances, and Audiences from Codex to Computer, Philadelphia 1995.