UNA TESTIMONIANZA

Item

Title
UNA TESTIMONIANZA
Creator
Chris Wickham
Date Issued
1999-04-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
34
issue
100
page start
49
page end
58
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Rights
Quaderni storici © 1999 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20231101221307/https://www.jstor.org/stable/43779888?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault%26sd%3D1999%26ed%3D1999%26efqs%3DeyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%253D%253D%26so%3Dold%26acc%3Doff&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Acebef37ab62bba2bd5024b6e0040cb09
Subject
historical a priori
discontinuity
episteme
genealogy
archaeology versus genealogy
extracted text
Una testimonianza *
La prima volta che mi sono imbattuto in «Quaderni storici» è stato da studente appena laureato nel 1973, quando il numero 24, intitolato Archeologia e geografia del popolamento, era stato appena pubblicato: uno dei primi fascicoli monografici che sono diventati poi un marchio di fabbrica della rivista. In termini storiografici fu un risultato di grandissima importanza, una pietra miliare della nascente disciplina dell’archeologia medievale, che precedette addirittura il primo fascicolo della rivista Archeologia Medievale. Rileggendolo, è ancora un testo straordinario: gli articoli in esso contenuti, scritti dai principali esperti dell’epoca, prefigurano la maggior parte delle principali problematiche affrontate nei successivi venticinque anni di ricerca archeologica, e le loro proposte, malgrado questa ricerca, non sono affatto datate. Anzi, l’attenzione alla geografia storica dimostrata in particolare da Massimo Quaini e Diego Moreno è stata da allora raramente eguagliata dagli archeologi.
Mi sembra che questo esempio specifico sia per molti aspetti rappresentativo dell’intera esperienza di «Quaderni storici». Un aspetto è la grande apertura mentale della direzione della rivista, e dei curatori delle monografie, nell’affrontano i problemi storiografici dal maggior numero di prospettive possibile, usando in particolare l’intera gamma delle scienze sociali (o umane), senza escludere la geografia, spesso negletta in altri contesti. Un’altra caratteristica è la capacità di queste stesse persone di essere sempre in anticipo nel loro campo: di cogliere le correnti storiografiche non solo prima che siano affermate ma spesso addirittura prima che siano completamente formulate, com’è accaduto col n. 35 (1977) sulla storia orale, che all’epoca è stato a mio avviso la migliore raccolta di articoli sul tema in qualsiasi lingua; o il n. 39 (1978),
* Traduzione dall’inglese.
QUADERNI STORICI 100 / a. XXXIV, n. 1, aprile 1999



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Chris Wickham
che ha introdotto la «microstoria» alla pratica storiografia (tornerò più avanti su questo punto); o il n. 53 (1983) sulla protoindustria, che era già in preparazione quando il classico testo di Kriedte, Medick e Schlumbohm era appena stato pubblicato ^ o il n. 84 (1993), che è stato una delle prime pubblicazioni di storici a prendere in seria considerazione il «nuovo» nazionalismo. (Come redattore di «Past and Present», posso solo ammirare questa capacità di previsione; constatiamo che la programmazione è virtualmente impossibile, e se e quando pubblichiamo articoli che si rivelano poi anticipatori, lo facciamo per puro caso.) Una terza caratteristica, correlata alle precedenti, è la capacità dei direttori di «Quaderni storici» di scegliere gli autori migliori, non solo su scala nazionale ma anche a livello internazionale, e di riuscire ad avere da tutti, in un modo o nell’altro, un contributo (e con puntualità): spesso i contributi ai fascicoli monografici sono offerti dagli esponenti più noti di un intero settore storiografico. L’unico aspetto, non trascurabile, in cui il n. 24 non era rappresentativo era nell’attenzione per la storia medievale: «Quaderni storici» del resto è sempre stata una rivista di modernisti, che guarda avanti verso la storia contemporanea piuttosto che all’indietro. Per quanto ci siano sempre stati dai due ai tre storici antichisti e medievisti nella direzione, è stato pubblicato relativamente poco sul periodo che precede il 1400. E questo è particolarmente vero per la storia antica, nonostante che questo settore sia un punto di forza della storiografia italiana, (e i due fascicoli dedicati a temi di antichistica, il n. 76 e il n. 85, erano quasi provocatoriamente incentrati su argomenti marginali, anche se non sono certo che il secondo, su La prova, non fosse in realtà un’altra accorta prefigurazione di un futuro dibattito storiografico). Come medievista, naturalmente mi rammarico di questa lacuna, ma è l’unica cosa che rimpiango, e dopotutto mi induce a leggere articoli stimolanti di storia moderna, che altrimenti potrei evitare.
«Quaderni storici» è lo stretto equivalente italiano delle «An-nales» in Francia e di «Past and Present» in Gran Bretagna, e forse del «Journal of Modem History» negli Stati Uniti. (In realtà gli Stati Uniti hanno altri due o tre concorrenti che potrebbero ambire a questo titolo. «Hispania» sta cominciando a uguagliarne il livello per la Spagna. In Germania, non ci sono purtroppo pubblicazioni analoghe.) Si tratta dunque di riviste storiche che si impegnano nelle migliori analisi storiche, nella ricerca storica d’avanguardia (e si tratta di vera ricerca, non di mode vacue), e in analisi e sintesi non semplicemente presentate in forma empirica ma guidate dalla conoscenza dei più ampi dibattiti. Sono riviste




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storiche che si possono leggere per puro piacere e per trovare uno stimolo metodologico, e non solo per un aggiornamento nel proprio campo di indagine. Tra queste riviste, «Quaderni storici» è probabilmente la più incline ad avere una mentalità internazionale anche nella scelta dei collaboratori; essa traduce più lavori originali di quanto non facciano le «Annales» e certo molto di più delle riviste anglosassoni. («Past and Present», per sua vergogna, ha pubblicato soltanto quattro articoli di storici italiani negli ultimi quindici anni e guarda caso due di questi autori, Carlo Poni e Angelo Torre, hanno rapporti molto stretti con «Quaderni storici».) Contrariamente a quanto avviene per la maggior parte delle riviste italiane, i temi e gli articoli che compongono i numeri monografici non sono limitati alla storia italiana. Tutte queste caratteristiche contribuiscono a fare di «Quaderni storici» la migliore rivista storica italiana, una posizione che ha mantenuto per tre decenni e che conserva ancora oggi malgrado la concorrenza si sia molto accresciuta.
Mi è stato chiesto non di celebrare «Quaderni storici», ma di farne un’analisi. Ho perciò fissato questi punti soltanto come retroterra dell’asserzione che uno studio di «Quaderni storici», specialmente dall’estero, può essere la base migliore per capire che cosa c’è di peculiare nell’approccio italiano all’analisi e al dibattito storico, confrontandolo con quello britannico, francese o americano 2. Vorrei qui scegliere tre argomenti collegati fra loro: il modo in cui la storia sociale viene percepita; il modo in cui viene utilizzata la teoria; e l’impegno politico.
«Quaderni storici» ha avuto origine per lo più come rivista di storia economica, ma si è radicata nella storia sociale fin dagli inizi degli anni settanta e, pochi anni dopo, nella storia socio-culturale. Questi rimangono a tutt’oggi i suoi interessi centrali. La sua storia economica è quella delle relazioni sociali della produzione e non la costruzione del modello econometrico di tante riviste anglosassoni. Viceversa la sua storia culturale si concentra sui comportamenti e le ideologie di particolari gruppi sociali; per lo più sono questi gruppi ad essere analizzati e non il processo di costruzione degli atteggiamenti e delle ideologie. Esagero forse nel generalizzare, ma questa mi sembra una caratteristica ricorrente della rivista. In particolare, dal punto di vista dello storico di lingua inglese, colpisce come il «linguistic turn» abbia avuto un limitato impatto sulla produzione storiografica italiana in generale, compresi gli articoli di «Quaderni storici»; e ancor meno la congerie di fenomeni chiamata «post-modernismo». Giovanni Levi, nel 1985, quando era ancora in «Quaderni storici», ha inveito contro quelli che ha



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chiamato «i pericoli del geertzismo» nella sua critica all’influente libro di Robert Darnton, The Great Cat Massacre3, e la mia lettura della rivista mi porta a credere che la maggior parte dei suoi direttori, ancora oggi, condividano questo punto di vista. Si potrebbe quindi chiamare «Quaderni storici» una rivista di storia sociale, perché sia la sua storia economica sia la sua storia culturale (così come la sua storia politica, che però è un filone minore), sono orientate alla comprensione di come agiscono i gruppi sociali. Non sorprende quindi che la storia della famiglia e dei generi sia uno dei temi più ricorrenti della rivista, con almeno una decina di numeri dedicati a questa arena di studi; ma le chiavi di lettura non sono il linguaggio o la rappresentazione, ma piuttosto la divisione del lavoro e la trasmissione della proprietà. Lynn Hunt ha notato come la storia culturale abbia preso il sopravvento negli ultimi anni sulla storia sociale, e questa è una giusta osservazione sulla storiografia negli Stati Uniti e, entro certi limiti, in Francia4. Non in Italia.
Tuttavia ciò non dipende dal fatto che gli storici italiani ignorino le teorie correnti. Se non troviamo citato spesso - talvolta, ma non molto spesso - Michel Foucault in «Quaderni storici» non è certo perchè le teorie parigine non abbiano attraversato le Alpi; Pierre Bourdieu è un punto di riferimento frequente. E anche un fatto certo che una vasta gamma delle scienze sociali di lingua inglese sono accessibili e utilizzate in articoli pubblicati nella rivista. Prendiamo per esempio il recente articolo di Edoardo Grendi su Edward Thompson, che impazientemente getta via alcune delle interpretazioni più formaliste della sua ultima opera, siano esse struttural-marxiste o post-moderne, ma che traccia un percorso sicuro attraverso la sociologia e l’antropologia anglosassoni degli ultimi quindici anni5. Grendi è interessato al comportamento effettivo dei gruppi sociali nel passato - e nel presente - ed ha una grande attenzione per la teoria sociale che può chiarire questo problema. Questo pragmatismo, che guarda all’utile più che alla teoria brillante, è una caratteristica della rivista.
A questo punto è necessario fare alcune distinzioni. La cultura italiana è impregnata di filosofia, o perlomeno così appare a uno storico inglese. In Gran Bretagna la filosofia non viene insegnata nelle scuole, in realtà è insegnata esclusivamente all’Università nelle facoltà di filosofia; le scienze sociali sono in un compartimento stagno dello stesso tipo. Gli storici le leggono appena. Per me la differenza tra le due culture è contenuta in un dibattito tra Giuseppe Sergi e Giorgio Chittolini, al quale ho assistito verso il 1980, sul problema se il positivismo fosse o no una «cosa buona»




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per la storia. Chittolini, in una posizione possiamo dire «britannica», portava argomenti a favore del positivismo con sofisticate teorie che sarebbero state difficilmente comprensibili alla maggior parte degli storici britannici. Come è già stato notato altrove, quando Carlo Ginzburg pubblicò per la prima volta in Inghilterra, su «History Workshop» (la più teorica delle riviste inglesi), il suo importante saggio Spie, fu presentato con un avvertimento per i lettori: «Questo articolo [...], tratta con finezza di filosofia, contiene citazioni in latino, e spazia attraverso società e periodi diversi in una maniera che può sembrare straordinaria o addirittura scioccante per un lettore inglese»6. In realtà, molte normalissime dissertazioni intellettuali italiane sembrano «brillanti», o addirittura insulse, allo storico britannico «tipico», e ciò è vero anche per molte di quelle francesi, che sono comunque più conosciute in Gran Bretagna. Ma questo non significa che sia soltanto teoria; e in generale, in «Quaderni storici» la struttura teorica sempre presente è connessa all’analisi del soggetto storico, che è inoltre, esso stesso di solito ancorato ad una versione di una teoria realista della conoscenza. A me questa sembra essere la migliore sintesi dei due mondi, capace di evitare sia l’empiria stagnante di gran parte del sapere britannico (e non solo britannico) sia l’illusione idealistica di alcuni lavori francesi e americani. Questo mi permette di scoprire cose che ho davvero voglia di conoscere, come - prendendo a caso un esempio recente -, l’affascinante e (almeno per me) innovativo uso della sociologia dei networks proposto da Anna Maria Zaccaria per seguire l’evoluzione delle regole della politica locale in un comune napoletano degli anni novanta7.
Perché «Quaderni storici» sceglie questa strada? Mi sembra che un motivo possa essere rintracciato nel ruolo sempre più grande che l’impegno politico ha nella rivista. Non che sia mai stato facile situare politicamente la rivista, salvo poterla associare, come del resto le sue sorelle straniere, con la larga e multiforme realtà della sinistra laica. Quando per la prima volta venne sviluppato il concetto di microstoria nella rivista, alla fine degli anni settanta, esso era già collegato «ai dubbi crescenti su determinati processi macrostorici». Non ci vuole molto per arrivare alla «incrédulité à l’égard des métarécits» formulata da Jean-Fran^ois Lyotard nello stesso periodo, ma questo passo non è mai stato fatto 8. Personalmente credo che l’interesse per il post-modernismo sia maggiore tra le comunità intellettuali che hanno un sentimento di impotenza e di disaffezione di fronte all’intero processo politico, e che si sentono sradicate dai maggiori movimenti politici di questo secolo, come per esempio negli Stati Uniti. Può sembrare paradossale



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identificare l’impegno politico come marchio di fabbrica della vita intellettuale italiana, quando l’Italia occupa regolarmente le posizioni più basse, almeno in Europa occidentale, nei sondaggi internazionali sulla fiducia accordata dalle persone al sistema politico del loro paese. Ma rimango regolarmente colpito nel constatare quanti intellettuali italiani, in verità quanti storici, diventino assessori alla cultura, sindaci, deputati, perfino presidenti del consiglio (riconosciamolo, nel caso di Giovanni Spadolini non si tratta di un membro della direzione di «Quaderni storici»); e quanti altri siano figure di spicco dell’opposizione. Edward Thompson era un caso completamente atipico tra gli storici in Gran Bretagna con i suoi interventi sul disarmo nucleare; per contro Carlo Ginzburg è molto meno atipico nei suoi interventi sul processo Sofri. Queste osservazioni, che il lettore forse troverà gratuite e un po’ semplicistiche, a mio giudizio si adattano in realtà a una delle principali caratteristiche che distinguono «Quaderni storici» dalle riviste sue sorelle: i frequenti interventi in tema di politica accademica. I cambiamenti delle leggi che governano l’Università, i suoi corsi e concorsi sono regolarmente presentati e criticati, come con gli argomenti a favore del Corso di Laurea in Storia nel n. 39 (1978), o le accese discussioni dei numeri 74 e 76 (1990-91) a proposito della probità nella valutazione di concorsi per ricercatori9. Articoli di questo tipo appaiono talvolta in riviste storiche di altre nazioni, ma sono, ancora una volta, atipici; mentre in «Quaderni storici» essi sono parte della funzione della rivista e sono considerati normali. Potrei avanzare l’ipotesi che il carattere di normalità di questo tipo di interventi, su questa come su altre riviste («Quaderni storici» non costituisce da questo punto di vista un caso isolato in Italia), sia un modo di attenuare il senso di disgusto politico di cui ho sempre sentito parlare dai miei amici italiani, e di cui, sfortu-natamento, sento parlare anche adesso con la Sinistra al potere. E forse possibile che il «sense of agency», per usare l’espressione di Thompson, sia più consono agli intellettuali italiani, e che per quanto possano sentirsi alienati, almeno non si sentono ancora sradicati, malgrado la confusione nazionale ed internazionale dell’ultimo decennio? Gli intellettuali in Gran Bretagna o negli Stati Uniti sono ben lungi da avere questo tipo di autorità, anzi non ce l’hanno affatto.
Tutto ciò a mio parere definisce anche il contesto di fiducia intellettuale che è all’origine della microstoria, sia nelle pagine di «Quaderni storici» sia nella serie di libri curati da Ginzburg e Levi per Einaudi. Bisogna riconoscere che non molti in Gran Bretagna leggono l’italiano, e che comunque non ci sono ancora




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molte copie della rivista disponibili nel paese (solo dodici nel 1989 10); ma tutti gli storici britannici hanno sentito parlare della microstoria, e hanno persino un’idea di cosa significhi. Anche se la microstoria non costituisce il lineamento più caratteristico di «Quaderni storici» e forse neanche il più importante - questo dipende dalla preferenza, e la gamma di scelta è vasta - è l’elemento della recente storiografia italiana che ha avuto il maggior impatto sul mio paese, e forse anche altrove, e perciò concluderò con essa. La microstoria non è stata elaborata come risultato di una sfiducia nella «macrostoria». La verità è che nella seconda metà degli anni settanta (non c’è un accordo su questa data critica, che comunque oscilla tra il 1975 e il 1977) due processi storici apparvero di col-30 meno plausibili: l’immediata, rivoluzionaria trasformazione dela società, e l’attrattiva permanente di giganteschi progetti storici casati sulla statistica. Ma credo che il maggiore impulso per la microstoria stava nel fatto che era molto più interessante osservare singoli individui, singoli villaggi, singole valli di montagna, che non occuparsi dei grandi progetti sul modello delle «Annales» degli anni cinquanta e sessanta. I primi a praticare il nuovo genere di storia, Ginzburg, Poni, Levi, Grendi, non negavano che i grandi progetti fossero realizzabili, semplicemente non li trovavano interessanti. E significativo che il primo progetto di «Quaderni storici» ad usare esplicitamente la nuova etichetta sia stato quello di Poni nel 1978 (n. 39), Azienda agraria e microstoria, che utilizzò il concetto per dare forma ad una serie di articoli di storia economica locale di orientamento piuttosto tradizionale. Poni e Ginzburg, l’anno seguente, individuarono, in modo piuttosto eclettico ma convincente, una loro prossimità ai «temi del privato, del personale, del vissuto, proposti con tanta forza dal movimento delle donne», e al comparativismo intrinseco all’elaborazione antropologica (inevitabilmente microsociale) del lavoro sul terreno. Forse non importava tanto quali fossero le giustificazioni intellettuali; la cosa importante era di concentrare l’attenzione sul locale e sull’esperienza vissuta, nelle sue componenti culturali e sociali, o attraverso le pratiche sociali che le collegavano reciprocamente. Ma allo stesso tempo non si negava la possibilità, e l’interesse, di più ampie generalizzazioni, dopo che la complessità delle diversità locali fosse stata riconosciuta e compresa, dall’interno, o «dal basso» n.
La generalizzazione che faccio qui si basa su una piccola serie di articoli eterogenei, scritti verso la fine degli anni settanta, che avevano uno scopo programmatico (invero solo abbozzato), e su altri degli anni novanta, quando evidentemente alcuni pensavano che i giorni gloriosi fossero passati (oppure che il carisma era o



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sarebbe diventato routine). Di fatto, realizzare il lavoro era evidentemente, al contrario di quanto avviene in altri casi, molto più stimolante che non teorizzarlo; anche questo era un tributo all’interesse della microstoria come pratica. Tuttavia voglio sottolineare come la specificità dell’esperienza italiana della microstoria non stia nella sua scala locale o nel suo concentrarsi sull’«eccezionale normale» (secondo la famosa frase di Grendi) o addirittura nel suo interesse per quanto è francamente insolito. Infatti questo tipo di attitudine era così comune negli anni ottanta (in Emmanuel Le Roy Ladurie o in Natalie Davis, per non citare che due classici) da essere considerato un atteggiamento ortodosso. La specificità è piuttosto nella ricorrente insistenza sul fatto che il fuoco sulla piccola scala (o, in termini cartografici, su un’ampia scala) non cancella affatto la comparazione e la ricostruzione di sistemi macrostorici. Questi conservano un’importanza cruciale, ma diventa molto, molto più difficile definirli, e presumibilmente ci saranno diversi tipi di sistemi. Sia Ginzburg che Levi sono ferocemente contrari a chi nega questa possibilità. Anch’io la penso davvero così, poiché ho adottato da tempo questi presupposti nella mia pratica storica. Ora, di fatto, i classici studi microstorici hanno raramente raggiunto una prospettiva comparativa. Ma sono stati, e sono, proposti come il primo cruciale passo; la comparazione è perlomeno presentata in forma paratattica nella rivista, come per esempio con l’insieme di articoli sui villaggi in «Quaderni storici» n. 46 (1981) o quelli sui conflitti locali nel n. 63 (1986). E proprio per la possibilità di fare questo ulteriore passo in avanti - così come per l’intelligenza degli autori coinvolti - che i principali lavori della microstoria italiana sono stutturati in modo molto più accurato che non gli attraenti racconti presentati altrove da altri storici: normalmente, gli storici italiani propongono analisi più approfondite e utilizzano una più ampia serie di testi di riferimento. Conservano il loro rigore intellettuale, mentre approfittano pienamente di diversi tipi di possibilità e di problematiche proposte da una scena specificatamente locale. Proprio come fa la buona antropologia, ma in più con la dimensione temporale e il contesto politico regionale che spesso mancano all’antropologia. Così, per esempio, Osvaldo Raggio usa un secolo di storia di un piccolo territorio genovese per estrapolare le teleologie della «formazione dello stato moderno», mostrando come le fazioni locali usavano lo stato in modo strategico, piuttosto che opporgli una resistenza passiva o farsi assorbire da esso. Ma Raggio punta a rimpiazzare i vecchi modelli con i suoi, che sono più complessi, invece di fare a meno dei modelli12. L’analisi di Angelo Torre sulle negoziazioni




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che riguardavano gli spazi sacri e le pratiche rituali di tre piccole diocesi del Piemonte meridionale in un periodo simile, è un tipo di lavoro molto diverso, che ha però lo stesso scopo di riplasmare i modelli interpretativi, in questo caso la teoria della pratica di Bourdieu e di altri13.
Mi sembra che sia proprio questa la strada che devono percorrere gli storici interessati alle relazioni concrete tra persone reali (e alla maggior parte della popolazione, non solo all’élite intellettuale o politica), come credo lo siano la maggioranza dei lettori di questo saggio. C’è comunque ancora molto lavoro da fare per costruire queste nuove, complesse, sintesi. Negli ultimi anni, gli storici hanno troppo spesso affidato le loro elaborazioni a una nuova generazione di sociologi storici, che non ha alcun interesse nella scala locale di cui sto discutendo qui14. Mi auguro che la direzione che si occuperà dei prossimi cento numeri di «Quaderni storici» prenda in seria considerazione il problema dell’elaborazione di nuovi modelli, come un elemento del loro multiforme progetto: chi altri ne avrebbe altrimenti la capacità?

University of Birmingham
Note al testo
1 P. Kriedte, H. Medick e J. Schlumbohm, Industrialization before Industrialization, Cambridge 1981.
2 Si potrebbe ritenere che il miglior terreno per la comparazione culturale non debba essere il miglior sapere, ma quello mediocre. Sarà certamente così, per esempio, per la sociologia. Ma il sapere storico mediocre è lo stesso dappertutto, empirista fino al midollo, e che si differenzia soltanto per il suo attaccamento alle diverse grandi narrazioni dello sviluppo storico che sono dominanti in ogni nazione, quali ad esempio, nel caso italiano, la vita civile, il Rinascimento o il Risorgimento. Le grandi narrazioni sono un elemento importante, e tuttora mal studiato, della pratica storiografica; ma non sono pertinenti a questo articolo, dato che «Quaderni storici» ha sempre mantenuto una certa distanza da esse.
3 «Quaderni storici», 58 (1985), pp. 269-277.
4 L. Hunt, Introduction, in Ead. (a cura di), The New Cultural History, Berkeley 1989, pp. 1-22.
5 «Quaderni storici», 85 (1984), pp. 235-247.
6 A. Davin, in «History Workshop», IX (1980), p. 5.
7 Legittimazione e consenso politico in un comune napoletano (1990-1995), in «Quaderni storici», 84 (1997), pp. 225-268.
8 C. Ginzburg e C. Poni, Il nome e il come, in «Quaderni storici», 40 (1979), pp. 181-190, p. 183; J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris 1979, p. 7.
9 T. Detti et al., L'insegnamento della storia, in «Quaderni storici», 39 (1978), pp. 1147-1179; R. Romanelli et al., in «Quaderni storici», 74 (1990), pp. 299-313.
10 A. Caracciolo, I lettori di «Quaderni storici» nell'ultimo decennio, in «Quaderni storici», 75 (1990), pp. 965-970.
11 Ginzburg e Poni, Il nome cit., pp. 184-189; vedi inoltre C. Ginzburg, E. Grendi e J. Revel, Sulla microstoria, in «Quaderni storici», 86 (1994), pp. 511-575 (cfr. Grendi, pp.



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542 ss. sulle «pratiche sociali»); G. Levi, On microhistory, in P. Burke (a cura di), New Perspective in Historical Writing, Cambridge 1991, pp. 93-113.
12 O. Raggio, Faide e parentele, Torino 1990, per esempio p. XI, prefigurato nel suo La politica nella parentela, in «Quaderni storici», 63 (1986), pp. 721-757.
13 A. Torre, Il consumo di devozioni, Venezia 1995, con i problemi teorici sviluppati nel suo Percorsi della pratica 1966-95, in «Quaderni storici», 90 (1995), pp. 799-829.
14 Quale per esempio, per non citare che il migliore, W.G. Runciman, A Treatise on Social Theory, 3 voli., Cambridge 1983-1987.